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FAENZA L’eterno presente di Gio Ponti nelle ceramiche

Faenza, Mic

Gio Ponti

Ceramiche 1922-1967 Fino al 13 ottobre Al Mic una selezione dei progetti del polivalente artista realizzati per Richard-Ginori, Pozzi, Venini, Fontana tra il 1922 e il 1967 Piccole sculture da tavolo, piatti e vasi, innovativi e al tempo stesso rispettosi dei valori classici


Gio Ponti lavorò in tutti i campi: dalla pittura al vetro, alla ceramica, al teatro, al disegno su stoffa, all’architettura, all’urbanistica. Inventò due riviste, “Domus” e “Stile”, che fondò rispettivamente nel 1928 e 1941, con i dibattiti sull’architettura e sul design, gli scritti, le lettere agli amici, le mostre. Lavorò tantissimo, come architetto innanzitutto, lasciando il suo stile palladiano e neoclassico rivisitato su ceramiche, affreschi, dipinti, mobili in tutta Italia. Realizzò piccoli progetti domestici in grandi serie (servizi di piatti e tovaglie per La Rinascente) e grandiosi fabbricati (Grattacielo Pirelli a Milano, 1960), cattedrali e musei (la cattedrale di Taranto, 1970, e il Denver Art Museum negli Usa, 1971). Progettò per sessant’anni, in tutto ventimila disegni di architettura, insegnò per venticinque, costruì in tredici Paesi. Visse ottantotto anni, dal 1891 al 1979, lavorando sempre, intensamente. Con uno sguardo che tendeva a guardare dietro di sé (« Per me – ha dichiarato Ponti – non esiste “il passato” perché considero che tutto è simultaneo nella nostra cultura»). Ciò emerge dalle ceramiche create per la Richard Ginori negli anni Venti come in Prospettica, vaso in porcellana in cui una fitta sequenza di piccole celle sapientemente decorate, occupate da forme primarie, dà vita ad un gioco di ripetizioni differenti, con evidenti rimandi alle prospettive rinascimentali e ad alcune visioni dei protagonisti del Realismo Magico. Oppure dalle piccole sculture da tavolo, piatti e vasi, innovativi e, al tempo stesso, rispettosi dei valori classici, realizzati con le più avanzate tecniche, ma ispirati alla nostra tradizione artigianale, caratterizzati da richiami alle forme delle antiche medaglie, delle urne e delle statue, popolati da sinuose silhouette, tra basiliche, colonnati e pergole. Esemplare, in proposito, la composizione di 41 elementi in porcellana, vetro, metallo e oro che “imbandiscono” una grande tavola bianca rettangolare. Si tratta del Trionfo da tavola per le ambasciate d’Italia del 1925-1927 realizzato da Ponti in collaborazione con Tomaso Buzzi e Italo Griselli. L’opera è una delle più significative tra le oltre duecento presenti nella mostra “Gio Ponti. Ceramiche
1922-1967” (catalogo Dario Cimorelli Editore) allestita al Mic di Faenza a cura di Stefania Cretella. Lisa Licitra Ponti, figlia dell’architetto e sua collaboratrice, ha detto in passato: « Mio padre è un architetto che ha iniziato con la ceramica: l’essere architetto non è un aspetto della sua versatilità, è la versatilità un aspetto del suo essere architetto». Ponti aveva in mente l’architettura dell’esistenza: la casa, l’oggetto, la grande e la piccola serie avevano per lui la stessa dignità di progetto. Quando la Richard-Ginori vinse il Grand Prix all’Expo di Parigi nel 1925, la direzione artistica dell’azienda era già nelle mani di Ponti da due anni. Aveva rivoluzionato tutta la produzione, creando non solo capolavori di originalità ed eleganza, che la mostra documenta, come i grandi pezzi d’arte La conversazione classica o La casa degli efebi, o Vasi delle donne e delle Architetture, ma inventando un sistema di famiglie di pezzi dai grandi ai piccolissimi con cui ravvivò la produzione della manifattura favorendo il contatto dell’impresa con le grandi esposizioni e le relazioni con artisti, industriali, artigiani. «Così Ponti ha sempre lavorato per le aziende: con un progetto globale e con entusiasmo e distacco», ha evidenziato ancora Lisa Licitra Ponti (ricordiamo le collaborazioni con Ceramiche Pozzi, Venini, Fontana Arte), dimostrandosi una figura chiave nella promozione del design e dell’alto artigianato artistico italiano nel mondo, lasciando una eredità creativa che è stata degnamente raccolta da importanti autori quali Alessandro Mendini ed Ettore Sottsass.
avvenire.it
(Post a cura di Giuseppe Serrone - Turismo Culturale)

Faenza. Picasso, vasaio alla ricerca dell'anima del mondo

Un gigantesco progetto ha legato dal 2017 alla fine di quest’anno decine di esposizioni dedicate a Picasso e il Mediterraneo. Ora al Museo delle Ceramiche la sua attività di scultore e ceramista

Un'opera ceramica di Picasso esposta a Faenza: particolare dalla “Civetta con testa maschile” (1953)

«Picasso-Mediterraneo è un evento internazionale che si svolge dalla primavera del 2017 alla fine del 2019. Più di settanta istituzioni hanno immaginato una serie di mostre sull’opera “ostinatamente mediterranea” di Pablo Picasso». È la nota sintetica di un gigantesco progetto che, nella sostanza, si realizza piuttosto come un’opera di propaganda del Museo Picasso di Parigi. Un modo per fare e incamerare soldi, in definitiva. Mentre l’apporto conoscitivo resta abbastanza limitato (pur sempre con standard espositivi medio-alti). Il culmine si è avuto nel 2018 con oltre trenta mostre allestite in alcuni Paesi europei: in Francia ben 20, in Spagna 9 e in Italia 6. Ma anche nel 2019 sono state 14 le esposizioni allestite in varie città mediterranee. Da queste cifre si intuiscono anche le graduatorie degli interessi che si giocano dentro una simile invasione picassiana: lui è la gallina dalle uova d’oro, nonostante la borsa valori ponga ancora ai vertici del mercato gli “aerostati” Hirst, Koons e Cattelan. La Francia è infatti il mercato che governa i valori dell’opera di Picasso e il Museo parigino è il Sancta Sanctorum dell’artista, la miniera che alimenta un’attività espositiva in patria e all’estero davvero impressionante, e la Spagna si adegua (anche perché il mercato spagnolo è debole sulla scena internazionale), mentre l’Italia è soprattutto lo scenario composto di passato e presente sul quale l’opera del genio di Malaga agisce come un guitto, lasciando un segno di Zorro sulla fronte di ogni abbonato del turismo e dell’industria culturale.

Il tema mediterraneo non è né nuovo né particolarmente seducente.Nel 1982 Villa Medici allestì proprio una mostra su Picasso e il Mediterraneo– Le Grand Bleu, come l’artista era solito chiamare il nostro mare – il cui catalogo veniva introdotto da Jean Leymarie. E oggi, nel sud della Francia, a Tolone, si è aperta la scorsa settimana un’altra mostra legata al progetto triennale, che questa volta si concentra su Picasso e il paesaggio mediterraneo, nel cui catalogo Maria Teresa Ocaña – già direttrice del Museo d’Arte della Catalogna –, osserva che questo genere pittorico fu uno dei più precoci sperimentati dal giovanissimo Picasso quando ancora si trovava a Malaga. Lì operava il pittore Antonio Muñoz Degrain eseguendo paesaggi «di un’immaginazione e di un colore esuberante» che Picasso ammirava. Quando poi si trasferisce a Barcellona, dove il padre ha ottenuto un posto da professore alla scuola di Belle Arti, Picasso approfondisce con maggiore libertà il colore e le luci del Mediterraneo dipingendo piccole marine. Naturalmente, anche il paesaggio è un tema che segue, anzi viene domato e vinto dai successivi sviluppi del linguaggio picassiano all’interno delle fasi cubista, neoclassica, postcubista e realista, fino alle tarde declinazioni neoespressioniste. Quando ha davanti un paesaggio, Picasso cerca di metamorfizzarlo con una mente proteiforme dove la lotta con la realtà deve portare alla vittoria dello stile che l’artista sta praticando come scienza dello sguardo.



Un'opera ceramica di Picasso esposta a Faenza: lastra tagliata e dipinta a forma di civetta (1957)



Dopo la seconda guerra mondiale Picasso si trasferisce per molto tempo nel sud della Francia e soggiorna in varie località della Costa Azzurra. È lì che comincia a sperimentare la ceramica come arte dove pittura e scultura possono ritrovarsi al di là delle comode distinzioni metodologiche degli stessi storici e critici. È forse il caso di ricordare che da studi recenti sembra emergere traccia di una versione più antica delTrattato sulla pittura di Leonardo (oggi perduta) dove il genio rinascimentale attribuiva il primato non alla pittura, come afferma nel testo oggi conosciuto, ma alla plastica di modellato dipinta. Anche Picasso – la cui natura ancipite di pittore e scultore non viene mai meno nelle sue opere – scopre che dall’arte dei vasai e dai manufatti fittili si possono cavare opere dal valore magico. Lo vediamo ora a Faenza, al Museo delle ceramiche, nella mostra Picasso. La sfida della ceramica, a cura di Salvador Haro González e Harald Thell (catalogo Silvana). Anche qui è esposta una campionatura proveniente dal Museo Picasso di Parigi, una cinquantina di opere accanto a quelle possedute dal Museo faentino che vi accosta altre ceramiche più antiche, precolombiane, medievali e rinascimentali. Può darsi che abbiano ragione i curatori della mostra quando scrivono nel catalogo che l’opera in ceramica di Picasso fu per molto tempo sottovalutata rispetto a pittura e scultura. Ma bisognerebbe anche uscire dal luogo comune riassunto nel termine “sfida” che ogni volta dipinge Picasso come un bambino capriccioso che reagisce ai limiti che gli vengono posti dimostrando che può riuscire bene in ogni cosa si proponga di fare. In realtà, a guidarlo verso lande sconosciute è piuttosto la sua esorbitante vitalità interiore. Così è per la ceramica, che cominciò a sperimentare a Vallauris, poco distante da Antibes, altro luogo ispiratore del Picasso mediterraneo. In entrambe le località vi sogno musei picassiani che conservano testimonianze notevoli del suo lavoro negli anni fra i Quaranta e la fine dei Sessanta. La ceramica – tecnica nella quale Picasso ha realizzato migliaia di opere – è davvero il momento dove l’immaginazione picassiana dimostra che non c’è forma o materia dove il suo tocco non resusciti un’anima prigioniera nella materia. Un mattone scheggiato, un “vaso” afflosciato in sede di cottura, un frammento di pignatta, ma anche un piatto, una piastrella, una brocca, o qualsiasi altra forma plasmata nell’argilla diventa sotto le sue mani e i suoi occhi “opera”, cioè riporta il manufatto ad antichissimi significati artistici, quando anche le stesse suppellettili cadevano dentro una ritualità sacra. Qualcosa del genere accade nell’arte tribale, e non per caso Picasso fu uno dei più avidi accumulatori di quelle immagini.

È questo che l’artista ci dice nella ceramica: egli è un taumaturgo, è colui che governa le forze del fascinans e del tremendum, perché thaumaè meraviglia, ma anche timore per qualcosa che viene alla luce da regioni che vanno oltre o si trovano sopra la nostra comprensione del mondo. In questo senso, il segno dipinto sul vaso o sull’anfora, sul boccale come su un piatto, è una sorta di transustanziazione che riafferma i valore magico del gesto umano come anche della parola (magia universalis, non pratica da ciarlatani, ma viatico a una realtà dove il mondo non si esaurisce nelle sue apparenze, anzi, esse sono soltanto il verso di una profondità che palpita di energie e forze che spesso non si rivelano o lo fanno soltanto a chi è capace di coglierle e incanalarne in una esperienza di vita). La ceramica di Picasso è un ex voto alla vita, alla forza che si sprigiona mentre il tornio compie i suoi cerchi. L’ex voto di Dioniso- bambino. E non è strano che l’artista riveli l’interesse per la ceramica delle antiche civiltà, culture dove mito e arte si sposano con naturalezza. Ovviamente, in questa piccola mostra (ma soprattutto se si va a Vallauris e in altri luoghi francesi dove sono conservate opere ancor più importanti di quelle esposte a Faenza), si vedrà che Picasso non pensa come un vasaio di suppellettili, ma come un artista che vuole cavare dalla materia quella stessa idea che lo spingerebbe ad agire sulla tela o sul muro con la pittura o ad articolare forme tridimensionali per la fusione o per l’assemblaggio, come nella poetica dell’objet trouvé. Picasso, come Matisse, porta alla massima tensione la dialettica fra le due arti sorelle, pittura e scultura, ponendo il sigillo a una storia che era cominciata due secoli prima: quella che trova i maggiori innovatori della scultura in alcuni sublimi pittori, da Géricault, a Moreau, Degas, Derain ecc. E anche Picasso nella ceramica vuole ritrovare questo connubio delle arti.

Avvenire