Nella notte che non c’è, nella città silenziosa, sotto il sole bianco che non dovrebbe esserci, scorrono fiumi di birra sui tavoli all’aperto dello SvalBar. Fa freddo, ma non il freddo che ci si aspetterebbe qui a due passi dal Polo Nord, solo un’aria frizzante, da montagna, basta una buona giacca a vento e qualcosa in testa. L’umidità è quasi assente, si chiama “deserto artico”, meno di 400 millimetri all’anno di pioggia e neve. Il freddo secco si sopporta meglio. L’orologio segna le due, le tre, ma nessuno se ne va a casa. Giovani dalla barba bionda, qualche tratto asiatico. Uomini, donne di tante nazionalità che sembra di stare al palazzo dell’Onu. Si arriva qui per “qualcosa” che attrae. Il mondo ancestrale, la semplicità. La fuga da tutto. Meno complicato dei Caraibi. Australiani, inglesi, italiani, svizzeri. Sembrano felici e rilassati. Con i loro boccali di birra.
Succede così, da questa parti. Da Helsinki in su si vive seguendo i ritmi della natura. Se la tua giornata è di ventiquattro ore vai di corsa, se dura mesi ti adegui. Da novembre è buio totale, il sole si acquatta 6 gradi sotto la linea dell’orizzonte sino alla fine di gennaio. Non c’è neanche il barlume crepuscolare. Il sole piano piano riappare dopo l’inverno, qualche ora, poi sempre di più, fino ai mesi della luce perenne. E allora non te ne andresti mai a dormire. Dopo una notte così lunga hai una giornata infinita. Un giorno lungo mesi in cui si fa succedere tutto quello che si può. Feste, concerti, spettacoli. Si pubblica un giornale in lingue inglese, l’icepeople, per informare la gente. Basterebbe il passaparola in una capitale che ha la popolazione di un block di Manhattan. Giù a Helsinki, Oslo, Copenhagen ci si scatena, qualche volta si esagera. Ma questo è un altro Nord, è un Nord più delicato, intimo, da intellettuali potremmo dire. Qui tutto è silenzioso, quasi irreale. Ti guardi intorno, la città è questa. Un grande prato con file di casette di Lego, rosse, gialle, blu, squadrate, efficienti, senza un fronzolo. Appoggiate sul prato e appese al cielo. Qualcuno mette un palco di corna di renna sopra la porta d’ingresso. I maschi le perdono dopo la stagione degli amori. Basta raccoglierle. Un ornamento innocuo. Motoslitte giacciono abbandonate disordinatamente qua e là, per il momento inutili, indispensabili per i mesi con la neve. D’estate si usano le Land Rover. Un po’ di neve è rimasta, a macchie, non se ne va mai, passa da un inverno all’altro.
Una sola strada. Una sola auto che va avanti indietro, manco fossimo sulla main street di un paesotto della provincia americana. Non è neanche un pick-up, ma una vecchia Volkswagen azzurrina, come non se ne fanno più. Neanche nel colore. Niente sgommate.Tutto in silenzio. È una città dolce, questa. Quando arriva il buio dell’inverno si cena alle 5 del pomeriggio e si va a letto alle 6. Per dire. Una vita da orsi. «Andiamo in letargo anche noi», dicono da queste parti.
Longyearbyen, la città. Svalbard l’arcipelago abitato più a nord del mondo, di cui è la minuscola, irreale, capitale. SvalBar, il locale dove si beve birra. Piccola genialità nel nome. Ce n’è un altro di locale, il Kroa, pieno. Ma domani non è sabato e neanche domenica. «Chi non vive qui, chi vive il ritmo delle 24 ore, non può capire». Finisce che quando arriva l’inverno sei spossato da tante cose hai fatto. Non è che si stia solo a bere birra di notte, qui. È dal 1600 che popoli vari si affannano tra questi fiordi. Il primo europeo ad arrivare è stato Willem Barentsz, olandese, era il 1596. Diffuse la notizia di un posto pieno di balene, foche, trichechi. Arrivarono i cacciatori. Nel 1905 un americano di nome John Munro Longyear avviò l’estrazione del carbone di cui l’isola di Spitsbergen, che in olandese significa “monti acuminati”, sembrava zeppa. Cominciò a bucherellare come una talpa. Arrivarono i minatori. Non hanno ancora smesso. Sulle alture intorno alla città vedi costruzioni strane, impalcature, che sono gli ingressi delle miniere. Nello Svalbard Museum, che è una costruzione modernissima, mappe, disegni, fotografie spiegano ogni cosa. Le colline qui intorno sono tutte un buco e gallerie infinite. Longyear diede il nome alla città che sorse per i minatori, ma la“corsa al carbone” non fu clamorosa come quella all’oro nel Klondike. Però diede lavoro a un sacco di persone. Stagionali che arrivavano dalla Norvegia. Tre mesi e poi a casa. È un museo magnifico come sanno fare i nordici, con la ricostruzione di stazioni baleniere, degli accampamenti dei trapper, i cacciatori di pellicce che vivevano per mesi isolati in baracche di legno fra i ghiacci. E una collezione, unica al mondo, di mappe e di testimonianze delle escursioni di un secolo fa.
C’è una nave là fuori, attraccata in banchina. Una bella nave filante, costruita ad Amburgo nel 1956 e poi rifatta tante volte nel corso degli anni, rossa, come tutte le navi nordiche che devono farsi vedere nelle nebbie e nelle bufere, solida. Si chiama Nordstjernen, ha cabine piccole, da marinaio, un salone di legni lucidi e il sapore delle vecchie navi. Fa parte della flotta Hurtigruten, quella dei postali, solo 80 metri di lunghezza, solo 15 nodi di velocità, al massimo. È una nave leggendaria, un bel modo per andarsene in giro per l’Artico. Anzi, l’unico. Così si va in nave. Dai un’occhiata alla carta geografica e scopri d’essere dentro un intricato merletto di isole scavate dai fiordi. Il mare Artico si insinua dappertutto distribuendo salmoni e azzurro dentro le terre gelide. Questo di Longyearbyen è l’Adventfjorden, braccio laterale dell’Isfjorden; Spitsbergen la più grande di tutte le isole dell’arcipelago. Non chiamatela crociera, è solo un modo, anzi l’unico modo, per raggiungere luoghi altrimenti inaccessibili.
Fin qui si arriva in aereo. Prima tappa Oslo. Un paio di giorni per vedere appena un po’ della capitale norvegese, scoprire che sul bus dall’aeroporto c’è la connessione wi-fi, gratuita. Che la metropolitana si paga con la carta di credito (la infili nella stazione d’ingresso, fai lo stesso alla stazione di uscita e qualcuno calcola il dovuto). Che piazze, strade pedonali e giardini ti fanno meditare sulla possibilità di vivere qui. E poi si vola su alle Svalbard. Una notte di birre allo SvalBar e poi in navigazione tra i fiordi. Già il navigare è piacevole, ma gli approdi possono essere stupefacenti. Per esempio Barentsburg, un villaggio russo degli anni ’40 mummificato insieme con i suoi abitanti e le statue di Lenin. È sulla stessa Spitsbergen, a una cinquantina di chilometri da Longyearbyen, ma irraggiungibile se non via mare. A piedi sarebbero due giorni di viaggio. In nave qualche ora e un salto nel tempo di più di mezzo secolo. È una città mineraria fondata dagli olandesi nel 1932 e ceduta alla compagnia sovietica Arktikugol. È una specie di enclave sovietica. Non della Russia di oggi, proprio di quella sovietica, con tutte le sue Repubbliche unite. Ci abitano quasi 500 persone, tutti minatori, tutti russi, dell’Urss intendo, ucraini, kazachi, bielorussi, con mogli e figli. Con quasi 500 abitanti è la seconda “città” delle Svalbard, visto che la capitale ne conta circa 2.100. È un’enclave culturale e architettonica straordinaria. Le case sono in rigoroso stile sovietico, la strada principale lastricata di cemento è rigorosamente percorsa da Uaz color ruggine e vecchie Lada, il busto di Lenin oversize c’è davvero. Grande come una locomotiva, sullo sfondo un palazzone razionalista stile Mosca anni ’60. Le case di legno appoggiate qua e là sembrano invece uscite dalla Russia di Gogol’. E perché non ci siano dubbi su come la pensano e su cosa rimpiangono gli abitanti di qui, un ragazzo esibisce una bandiera rossa. E se la mette vistosamente sulle spalle. Gesto spontaneo o programmato per il business turistico? Il turismo fa raggranellare qualche soldo ai minatori. Nel piccolo teatro si organizzano perfino ingenui spettacoli musicali che potrebbero essere un saggio di fine scuola nel dopoguerra in un villaggio uzbeko, a base di balletti e balalaike. Oltre alle vecchie canzoni tradizionali russe. Se si vuole c’è anche un minatore che fa da guida nel villaggio. Ha la faccia da Rasputin, la casacca da Rasputin, la barba pure, ma è gentile come uno che sa cos’è il business turistico. Mentre intorno passano facce da Corazzata Potëmkin e da rivoluzione bolscevica. Strana esperienza. Qualcuno ha raccontato loro cos’è successo un quarto di secolo fa? C’è naturalmente un negozietto di souvenir. I negozi di souvenir sono dappertutto, anche in Antartide. Naturalmente articoli russi d’antan. Cappelli militari, matrioske, orologi, cannocchiali, medaglie, qualche piccolo prezioso Lenin. Un museo, il Pomor, dal nome dei coloni russi “marittimi”, condivide lo stesso edificio con il centro culturale che sembra l’oratorio di Don Camillo. Complicate, ripide scalinate di legno portano giù al mare. Perché il viaggio riprende. E si torna nel mondo normale. Si fa per dire. Si va a Nord, come se non bastasse tutto il Nord che c’è qui. Fuori dall’Isfjorden, in mare aperto, sfiorando tutta la costa in una lunga navigazione che porta la Nordstjernen a superare un’invisibile linea virtuale che si chiama 80° parallelo Nord. Ancora dieci gradi e siamo al Polo. Basta così, più avanti ci sono i ghiacci. Accontentiamoci, è tutto il Nord che possiamo avere. Si va tutti a poppa a festeggiare, si stappa una bottiglia e ci si punta sulla giacca a vento il pin che ricorda l’avvenimento.
E la navigazione continua. La Nordstjernen è affascinante. Senti di stare su una nave vera, mica quei palazzi galleggianti che sono le star da crociera, tutte spettacoli serali e discoteche sfavillanti. Le cabine sono da marinaio. Strette, letti a castello. Il salone concede qualche lusso, ma moderato e in perfetto stile. Legno che odora di legno, l’ottone che luccica ma senza esagerare, piccoli tavoli e menù tradizionale. Poi i ponti ingombri di strutture tecniche, le scialuppe piuttosto dei lettini da solarium. Fuori scorrono i profili scuri delle isole e ogni tanto si approda. A Mushamna, nel Woodfjorden, dove c’è una vecchia stazione di caccia. E vedi dal vero quel che hai visto nel museo di Longyearbyen. Una capanna di tronchi dove i cacciatori vivevano, la piccola baracca che era il gabinetto, le trappole appese all’esterno, la dispensa, cioè una specie di torre protetta dal filo spinato dove mettere il cibo fuori dalla portata degli orsi. Tutto bianco di neve, molti uccelli nel vento, l’aria tersa. Un paesaggio limpido, da manuale.
La Nordstjernen funziona come un treno locale. Tappa al Monaco Glacier, con la sua cascata di ghiaccio che scende fino al mare. Poi dentro il Bockfjord, poi a terra con i gommoni, poi una lunga, faticosa, scarpinata nella neve alta fino ad arrivare a una piccola, stupefacente cosa. Cioè una minuscola polla d’acqua calda nella roccia. È la prova dell’esistenza di un vulcano da qualche parte là sotto che sembra che non erutti da qualche migliaio di anni. La sorgente sembra più un’acquasantiera.
E gli animali? Vista dalla nave una colonia di trichechi, una specie di folla da derby calcistico, pacificamente stesi sull’isola di Moffen, che è quella che sta poco oltre la linea dell’80° parallelo. Poi una balena al largo che sbuffava. E finalmente un orso. Uno solo. Però bellissimo, candido nella neve candida, plastico nei movimenti, una figura perfetta. Era sdraiato, si è accorto della nostra presenza, si è alzato lentamente e si è messo a guardarci, il corpo in una posizione, la testa girata verso di noi. Come le statue che vendono nei negozi di souvenir. Però uno solo. Funziona così con la fauna, questione di fortuna. Da queste parti gli orsi sono come i piccioni a Venezia. Ma in fondo averne visto solo uno ha fatto diventare magico l’incontro.
Il clou del panorama di ghiacci e azzurri in tante sfumature è ilMagdalenefjord. Ci si passa alle due di “notte”, col sole alto, mentre si scende a sud per infilarsi nel Lilliehöökfjorden, un altro di quei paesaggi da manuale. Un ghiacciaio che scende fino al mare,l’acqua piatta seminata di piccoli iceberg con pacifiche foche stese sopra come fossero su soffici sofà davanti a un caminetto. Si va in giro con i gommoni. Un blocco di ghiaccio grande come un condominio si stacca e piomba in mare per la gioia delle nostre macchine fotografiche. E poi Ny-Ålesund, 200 persone d’estate, 30 d’inverno. Più o meno tutti ricercatori, di ogni nazione, compresi gli italiani della stazione artica Dirigibile Italia. Un grande chalet di legno, laboratori con gli scienziati dentro. Conducono studi di ogni genere secondo un programma del Cnr. Per loro un grande frigorifero come questo, dove tutto si è conservato perfettamente per millenni, è straordinariamente interessante. Ed è pure un termometro dello stato di salute del pianeta e dei cambiamenti climatici. C’è pure una certa vita sociale, fra tutti gli scienziati delle basi. Il più alto concentrato di buoni neuroni al mondo. Ny-Ålesund è testimone della storia leggendaria del Polo Nord. Qui c’è ancora il traliccio cui era ancorato il dirigibile Norge con cui Amundsen e Nobile partirono per la loro impresa insieme.
Volendo in sei ore di motoslitta e un buon Gps si torna a Longyearbyen, e dev’essere una magnifica avventura. Noi si torna con la Nordstjernen. Allo SvalBar sono ancora lì che bevono birra al sole. Bianco.
Il Fatto Quotidiano