di BRUNETTO SALVARANI
Si intitola
L’ultima Thule ed è il disco finale della carriera di uno dei più grandi
cantautori-poeti d’Italia. In questa lunga chiacchierata, Guccini
racconta il suo percorso umano, oltre che musicale, e guarda al futuro
che ci attende.
Francesco Guccini durante il concerto in onore di Demetrio Stratos il 14 giugno 1979 all’Arena di Milano. OLYCOM
La
notte pavanese che lui canta nell’ultimo disco è ancora di là dal
sopraggiungere quando, oltrepassato il Ponte della Venturina e lasciato
alle spalle l’estremo lembo appenninico di terra emiliana, tocchiamo
finalmente Pàvana. Non è la prima volta che, con un paio di amici, vengo
a trovare Francesco Guccini: per incontrarlo, chiedergli come sta e
ringraziarlo una volta di più per quello che è, e per come è. Si tratta
di un piacevole rituale, «un pellegrinaggio», scherziamo fra noi
affrontando la salita conclusiva, che ogni volta conferma nella
sensazione di trovarsi di fronte a una persona autentica, semplice di
un’antica cortesia; certo non a un divo, ma a un uomo capace di dubbi e
perplessità, capitato per sbaglio in un Paese tutto diverso, che non
c’entra niente con lui. Nonostante la sua popolarità, addirittura in
crescendo dopo il grande successo dei suoi lavori più recenti: il volume
di memorie Dizionario delle cose perdute, che per parecchie settimane
nel 2012 è stato tra i più venduti in Italia, e L’ultima Thule, l’album
con cui ha scelto di congedarsi dalla scena della musica, uscito alla
fine dello scorso novembre e diventato in breve disco di platino. Che
abbiamo ascoltato, senza timore di risultare retorici, non solo con
ovvia curiosità, ma anche e soprattutto con sincero affetto. Perchè
siamo cresciuti con lui.
Il cantautore in una immagine recente, davanti alla sua casa di Pàvana, sull’Appennino tosco-emiliano. FRANCESCO CONVERSANO
L’abbiamo
sempre considerato il fratello maggiore che non abbiamo avuto, l’amico
saggio cui confidare qualcosa di davvero segreto, il cantautore famoso
ma in grado di resistere al fascino perverso dello star-system (abbiamo
appreso solo dopo, un po’ per naturale coerenza e il resto per naturale
pigrizia e naturale timidezza). Così, le sue dichiarazioni sul fatto che
si sarebbe trattato della sua definitiva fatica artistica in campo
musicale ha, inevitabilmente, aumentato il tasso di commozione. Perchè
il sapore di tramonto di una lunga stagione che si porta dietro è –
ammettiamolo – qualcosa che ci riguarda da vicino. La chiusura di
un’esperienza intergenerazionale e condivisa con tanti, eppure da
custodire gelosamente, e l’esaurirsi di un tempo che si apre su un altro
non necessariamente peggiore, nella consapevolezza che le cose umane
sono segnate dalla loro evanescenza. Ed eccolo qui, il Maestrone, ben
piantato nella sua barba candida, i suoi 73 anni non celati e la sua
tana appenninica avvolta di libri e di ricordi.
Il batterista Ellade Bandini.
FRANCESCO CONVERSANO
Dove
si lamenta da subito di essersi deciso a tornare troppo tardi, quando
già da tempo Bologna non la sentiva più sua; e dove comunque ha rimesso
radici da oltre un decennio, accompagnato amorevolmente dalla moglie
Raffaella, che insegna Lettere in una scuola media qui vicino, con la
quale ha risistemato questa casa avita. Accompagnati da un buon
bicchiere di vin santo – in onore del sottoscritto, ci tiene a precisare
– si comincia a ragionare de L’ultima Thule. «Sì, ci siamo divertiti a
registrarlo, stando qui, insieme con i musici – come li chiamo io da
sempre – per un mese intero, e non in un asettico studio di
registrazione cittadino. Come si può notare dalle riprese de La mia
Thule, il documentario girato nell’occasione ». Che è andato anche in
onda sulla Rai, e in cui si può constatare la straordinaria operazione
che ha trasformato magicamente l’antico mulino del bisnonno Chicon –
oggi un bed and breakfast gestito dai cugini del Nostro – in una sala
discografica dotata di ogni genere di conforto. La cornice più giusta
per un album impregnato di memorie, tra gioia e nostalgia, e di
celebrazioni di quel che resta di antiche speranze. Come capita di
regola ai vecchi, vi affiorano soprattutto le cose più lontane, che
appaiono come le più forti e le più vere, avendolo accompagnato una vita
intera.
Roberto Manuzzi alla fisarmonica.
FRANCESCO CONVERSANO
Ha
voluto con sè, ovvio, al modo dei marinai che si accodarono baldanzosi a
Ulisse nel suo estremo folle volo, i soliti compagni: Ellade Bandini,
Juan Carlos Flaco Biondini, Roberto Manuzzi, Antonio Marangolo,
Pierluigi Mingotti, Vince Tempera. Marinai di lungo corso e sicuro
mestiere che del loro comandante sanno ormai tutto, soprattutto di
quanto c’è bisogno per accompagnarlo adeguatamente: discrezione, ordine,
compostezza e una manciata di coloriture che non disturbino la
comprensione delle parole e l’ascolto della voce. Tra le canzoni
presenti nel disco, la sua predilezione va a Canzone di notte n. 4, la
quarta – appunto – che nel corso della carriera ha dedicato a quel
momento magico e unico in cui le cose tornano a essere sè stesse:
«Stavolta si tratta di un pezzo che torna indietro nel tempo, alla mia
infanzia, quando il mulino di Chicon ancora funzionava, luogo mitico dei
miei anni giovanili, fino a chiudersi su una visione attuale, con le
luci del presepe e il raggiungimento di un senso di pace e tranquillità.
Quegli anni lontani sono qui evocati anche dalle due voci che,
all’attacco del brano, richiamano quelle dei miei genitori che mi
ricordano che a letto si va per dormire non per leggere, perchè la luce
elettrica andava risparmiata.
In
realtà, però, una cosa del genere non me l’hanno mai detta... Anche se è
vero, piuttosto, che mio padre spesso, quando mi vedeva divorare i
giornalini a fumetti, mi rimproverava perchè sosteneva che così non
avrei mai coltivato la voglia di leggere! Pensa te! Io che nella mia
vita non ho fatto altro che leggere, sin da bambino... Ho letto di
tutto, a cominciare dai romanzetti d’appendice che trovavo in casa
portati da mia zia, che faceva la cameriera in quel di Genova e per
questo era considerata l’intellettuale di famiglia!». Quella della
lettura è davvero un’idea fissa per Francesco, che sente ancor più da
quando un fastidio agli occhi gli crea più problemi del solito per
dedicarsi a quest’operazione così usuale. Tanto che, quando mi viene di
chiedergli con che cosa a suo parere dovrebbe uscire un giovane dopo
avere frequentato le scuole superiori, risponde al volo: «Le cose che
dovrebbe aver acquisito un giovane sono... una sola: l’amore per la
lettura.
Il maestro Vince Tempera.
FRANCESCO CONVERSANO
è
questa l’acquisizione più importante, che ti consente di coltivare la
curiosità per il mondo! Purtroppo, anche se conosco la scuola italiana
solo per i racconti che me ne fa Raffaella, penso abbia subito un netto
declassamento, e anche la lettura non sia molto considerata. Qualsiasi
lettura! Ricordo che, quando mi diedero il Premio Montale, vent’anni fa,
era stato premiato insieme a me l’illustre poeta Nelo Risi, che nelle
interviste sui suoi autori chiave rispose: Baudelaire, Leopardi...
mentre io dissi il Paperino di Carl Barks, un autentico capolavoro!». E
ridacchia. D’ altra parte, assieme alla lettura, tra le sue grandi
passioni c’è la scrittura, praticamente da sempre. «Sì, è vero: sin da
bambino volevo fare lo scrittore, anche se i miei genitori non ne erano
per nulla convinti! Tanto più che, parlando con il mio maestro delle
elementari, a Modena, mio padre che gliel’aveva rivelato si era sentito
replicare brutalmente: “Sì, lo scrittore! Lui che a scrivere è un
cane!”. Beh, penso che quel maestro avesse risposto così soprattutto
perchè, come tutti dalle nostre parti all’epoca, era impregnato di
positivismo, e disdegnava le attività umanistiche... ».
Il cantautore durante la registrazione del suo album.
FRANCESCO CONVERSANO
Una
passione che lo portò, alla tenera età di dodici anni, a vincere un
concorso indetto dal settimanale cattolico a fumetti Il Vittorioso, il
cui tema era Descrivi la tua città. Naturalmente Francesco dedicò lo
scritto a Sambuca Pistoiese, iniziando così: «Nella forra tortuosa e
boscosa del Limentra occidentale...». Poi il primo lavoro, accettando
per stipendio pochi soldi per firmare improbabili pezzi di cronaca sulla
Gazzetta di Modena («un’esperienza massacrante, ventimila lire al mese
per dodici ore al giorno!»); una passione che, ora che ha deciso di
smetterla con la musica («e non tornerò indietro in questa decisione, mi
conoscete», anche se ride di gusto quando gli suggeriamo di dire che
era stato frainteso...), avrà modo di coltivare ancor più intensamente.
Intanto, con due progetti in corso: per Natale, probabilmente, dovrebbe
uscire la seconda parte del Dizionario delle cose perdute («ci metterò
dentro la cabina telefonica e le cartoline con le scritte prestampate,
quelle con le foto dei due innamorati; oggi ormai nessuno più scrive
cartoline...»).
La proiezione al cinema Odeon di Bologna del film Francesco Guccini, la mia Thule.
FRANCESCO CONVERSANO
E poi
la seconda puntata della saga di Poiana, l’ispettore della Forestale
Marco Gherardini, che ha fatto il suo esordio come protagonista nel noir
appenninico di Malastagione, uscito un paio d’anni fa, scritto a
quattro mani con lo scrittore e amico Loriano Macchiavelli: «L’Appennino
non sarà come le Alpi o le Rocky Mountains, ma ogni tanto, come tutte
le montagne, richiede le sue vittime sacrificali...». Verrebbe da dire:
nonostante la fine della sua lunga avventura musicale, il Nostro ha
«tante cose ancor da raccontare», non più nei palasport, ma dagli
scaffali delle librerie. Poi si torna sull’ultimo lavoro, giunto a ben
otto anni da Ritratti, del 2004. In cui Francesco, dopo L’isola non
trovata (1971), recuperata dal prediletto Guido Gozzano, ricorre alla
metafora di un’altra isola, quella di Thule, descritta nei diari
dell’esploratore greco Pitea come una terra di fuoco e ghiaccio dove non
tramonta mai il sole. Il suo Virgilio stavolta è un altro poeta che
apprezza da sempre, Jorge Luis Borges (il riferimento è alla poesia Un
lettore, da Elogio dell’ombra).
Ne
è uscita una canzone a metà fra il bilancio e il saluto da lontano:
dopo un viaggio, lungo quasi mezzo secolo, che si spegne in una lunga
cavalcata barocca, con l’occhio rivolto all’orizzonte, dove tutto
finisce (L’Ultima Thule attende e dentro il fiordo / si spegnerà per
sempre ogni passione / si perderà in un’ultima canzone / di me e della
mia nave anche il ricordo). Ma è vero che l’avevi in testa da tanto
tempo? «Certo, la prima strofa l’ho scritta una quindicina d’anni fa, ma
il titolo l’avevo già deciso subito dopo Radici, nel ’72: pensavo di
chiuderla lì con la mia carriera di cantautore... Ero giovane, avevo
speranza nella vita che andava avanti, mentre penso che qui sia già
indicativa la foto usata per la copertina del disco. Scattata
sull’ottantesimo parallelo, non ritrae un tempo che passa ma l’arrivo di
un tempo passato, giunto su una nave senza ciurma, perchè non c’è più
l’equipaggio di un tempo, che ha le vele afflosciate. Non c’è più niente
da fare, se non andare e perdermi là, nell’Ultima Thule, in quel luogo
mitico lontano e perso nel ghiaccio... nella fine infinita». Mentre
Francesco parla, mi torna in mente un passaggio del monaco Enzo Bianchi
che rileggo spesso e mi verrebbe da applicare a questa situazione, che
dice più o meno: «Credo ci sia posto per una spiritualità degli
agnostici e dei non credenti, di coloro che sono in cerca della verità
perchè non sono soddisfatti di risposte prefabbricate, di verità
definite una volta per tutte... una spiritualità che si nutre
dell’esperienza dell’interiorità, della ricerca del senso e del senso
dei sensi, del confronto con la realtà della morte come parola
originaria e con l’esperienza del limite; una spiritualità che conosce
l’importanza anche della solitudine, del silenzio, del pensare, del
meditare».
Il bassista Pierluigi Mingotti.
FRANCESCO CONVERSANO
Mi
torna in mente, poi, qualche verso de Gli artisti, altro pezzo de
L’ultima Thule, così autobiografico e struggente e dalle atmosfere
chiaramente francesi, dove lui canta: Fabbrico sedie e canzoni/, erbaggi
amari, cicoria,/ o un grappolo di illusioni/ che svaniscono nella
memoria,/ e non restano nella memoria. Come li spieghi, Francesco?
«Orazio, il grande poeta latino, ha scritto: Ho eretto un monumento più
duraturo del bronzo e più immortale dell’immortale mole delle piramidi.
Io non credo che farò quella fine lì, non ho scritto canzoni più
durature del bronzo e delle piramidi. Penso che ci siano canzoni che
fanno parte della vita di ognuno, ognuno di noi ricorda brani legati a
certi episodi del suo percorso, ma non sono molto più che grappoli nella
memoria ». Ma se è così, come si spiega che molti giovani conoscano a
memoria le tue canzoni e non pochi ti seguano addirittura in ogni data
dei tour? «Me l’hanno già chiesto altre volte, e di solito me la cavo
con una battuta, rimandando alla mia grande bellezza fisica... Non lo
so, forse perchè le mie canzoni sono scritte per dire delle cose,
nascono da qualcosa di vero, e di questo i giovani se ne accorgono!».
Mentre lo salutiamo, dopo le foto di rito che vanno ad aggiornare il
nostro già corposo album, sbuca non si capisce da dove il gatto nero che
compare nella Canzone di notte n. 4. E la notte, che s’insinua in ogni
anfratto,/ contro gli angoli più oscuri del paese. La lunga notte
pavanese.
BRUNETTO SALVARANI
Jesus Luglio 2013