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E Guccini apre il suo vero repertorio


Una volta al cinema pioveva. Lo testimonia Francesco Guccini. Succedeva negli anni 50 del secolo scorso, quando la televisione non era ancora nata o muoveva i primi passi, e anche negli anni 60. Poi, a metà dei 70, cominciarono a sparire le sale di terza visione, e di seconda. Lo stesso accadde a quelle degli oratori, dove da decenni con sollecitudine accorta i preti mescolavano film e acqua santa a maggior gloria di Dio. Fu allora che al cinema smise di piovere. Dal bianco incerto degli schermi scomparve lo scintillio magico, lo scrosciar di gocce luminose che il tempo e l'uso ricavavano con perizia e inventiva dalla pellicola, convincendo generazioni intere che «l'effetto pioggia facesse parte della complessità del l'arte cinematografica».
D'altra parte, molto altro andò perduto in quell'Italia ancora cinematografica, ma ormai avviata a un futuro televisivo. Già negli anni 50, per esempio, cominciarono tempi grami per i preti. Non si trattava degli stessi che dietro il proiettore vigilavano sulla salute delle anime, e che contro il demonio – e contro le pellicole, già malconce per conto loro – volgevano la santa crudeltà delle forbici. Si trattava piuttosto d'un trabiccolo di legno a forma d'uovo. «Stecche ricurve lo foggiavano – ricorda Guccini, nato nel 1940 –, e al centro, nella parte inferiore, aveva un ripiano foderato di latta». Lì, sulla latta, veniva appoggiato uno scaldino pieno di cenere e braci. Il tutto era messo nel letto, sotto le coperte, prima di coricarsi nelle gelide notti d'inverno. Da dove venisse il nome dell'ingegnoso marchingegno non è certo. In ogni caso, l'etimo popolare voleva (e ancora vuole) che derivasse dalla sua abitudine evidente di infilarsi in tutti i letti.
Eran tempi così, diretti e non proprio politically correct. A confermarlo basta aggiungere il testo d'un motivetto allora parecchio in voga, di cui ai giorni nostri ancor vive in alcuni un'ombra di ricordo. Lo si canticchiava volentieri tra giovinastri, con aperto sprezzo d'una ipotetica signora âgée: «Ammazza la vecchia... col flit». E subito altri giovinastri ribadivano e rincaravano: «E se non muore... col gas». Oggi risulterebbe di difficile comprensione: non perché del flit s'è smarrita la memoria, ma perché lo stesso aggettivo «vecchio» è finito tra le cose perdute, sostituito con sollievo generale dal meno increscioso «grande». A parziale conforto dei più sensibili, e con l'aiuto della sapienza linguistica di Guccini, si può aggiungere che «in certi dialetti emiliani per "vecchia" ha da intendersi uno scarafaggio (vecia)». Resta impregiudicata ogni diversa congettura extraemiliana.
Molto altro si trova fra le pagine di questo documentato Dizionario delle cose perdute. Per esempio, il chewingum riciclato: quello che in anni meno abbienti dei nostri a un certo punto della masticazione si addolciva con lo zucchero, per rinnovarne la soddisfazione. E quando la fatica o la decenza volevano che si smettesse di lavorar di mascelle, invece di sputarlo lo si avvoltolava nel fazzoletto in attesa di tempi migliori. I più spicci lo infilavano direttamente in tasca, o lo appiccicavano sotto le sedie o sotto i banchi. E c'è poi anche la maglia di lana, tra i cimeli dimenticati di mezzo secolo fa. Non quella confezionata, ma quella fatta in casa, grossolana e funesta. Il suo parente stretto, ancor più funesto, era il costume da bagno, anch'esso di lana. Quando si usciva dall'acqua, non c'era scampo: s'allungava ben sotto il cavallo e metteva in rilievo quel che avrebbe dovuto nascondere. Lo portavano tutti, dai bambini agli adulti. Ma il look sui secondi era più tragico.
Tra le poche soddisfazioni dell'epoca, c'era comunque il fatto che la televisione era timida e incerta. O almeno non era invadente e cinica come sarebbe poi diventata. A voler essere ottimisti, e ingenuamente certi che il passato sia sempre meglio del presente, si può aggiungere che ancora giravano per le piazze i cantastorie. L'immagine è poetica: «Arrivavano anche da soli, ma più spesso in due: il cantastorie vero e proprio e la spalla... Mettevano il banchetto con la loro roba (o addirittura un piccolo palco), e cominciavano a fare "treppo", cioè a cercare di radunare gente attorno, suonando un qualche strumento». E poi raccontavano, appunto: di poveri emigranti e di giovani spose traditrici, o di madri indegne che avevano ucciso teneri figlioletti e poi se li eran mangiati... Prendevano spunto da fattacci di cronaca nera, e ci ricamavano su. E magari si lamentavano che di "bei delitti" non ce ne fossero sempre. Insomma, né più né meno di quel che oggi fanno i talk show più seguiti.
Conviene allora lasciar perdere i cantastorie e tornare con il ricordo dentro un cinema di terza visione, con il sonoro che ogni tanto va «in un curioso effetto eco-strascinamento voce, e trac!, si rompe la pellicola». Se oggi la pellicola non si rompe più, comunque resta uguale la cosa più importante. Ce la indica Guccini, nonostante tutta la sua nostalgia: «Il cinema è qualcosa che si muove quando viene proiettato sullo schermo». In ogni caso, tutt'altra cosa dalla televisione. Che piova o che non piova.

ilsole24ore.com

Francesco Guccini, 
Dizionario  delle cose perdute
Mondadori, Milano, pagg. 142, € 10,00

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