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Le piante crescono obbedendo alla matematica, come il cervello

Le piante sanno adattarsi e crescere in terreni e climi diversi usando strategie molto simili a quelle che permettono al cervello di svilupparsi. Il comportamento di entrambi risponde alle stesse regole matematiche e suggerisce l'esistenza di una logica universale alla base della crescita degli organismi biologici Pubblicata sulla rivista Current Biology, la scoperta si deve al gruppo coordinato da Saket Navlakha, dell'americano Salk Institute.

L'obiettivo della ricerca era verificare se, nonostante la diversità che regna nelle piante, con alberi che si sviluppano in altezza e minuscoli fiori, esista una strategia di crescita condivisa. I ricercatori hanno coltivato circa 600 piante di sorgo, pomodoro e tabacco in diverse condizioni di luce e umidità e per un mese le hanno analizzate periodicamente con una tecnica di scansione digitale in 3D.

I risultati hanno indicato che, indipendentemente dalle specie e dalle condizioni di crescita, la densità dei rami è più fitta vicino al centro della pianta e che la direzione nella crescita di ciascun ramo avviene in modo indipendente rispetto a quella degli altri rami: sono strategie di sviluppo modulari ed efficienti, che possono essere descritte da una funzione matematica. Secondo il neurobiologo molecolare Charles Stevens, che ha partecipato alla ricerca, la funzione matematica che descrive la crescita delle piante è analoga a quella che descrive lo sviluppo dei neuroni. ''La somiglianza tra lo sviluppo dei neuroni e i germogli delle piante - ha detto - è piuttosto impressionante e sembra governata da una ragione simile: probabilmente, entrambi hanno bisogno di coprire un territorio il più possibile, ma senza interferire tra loro''.
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Osservato il primo 'dialogo' tra due particelle di luce

Per la prima volta sono state osservate due particelle di luce 'dialogare' tra loro, modificando il loro impulso, l'energia e la direzione. Il fenomeno, descritto sulla rivista Nature Physics e annunciato dal Cern di Ginevra e dall'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) sul suo sito, e' stato osservato da Atlas, uno degli esperimenti del piu' grande acceleratore di particelle del mondo, il Large Hadron Collider (Lhc) ed e' un risultato molto significativo perche' l'interazione fra particelle di luce (fotoni) non e' prevista dalla teoria classica dell'elettromagnetismo e rappresenta una delle prime previsioni dell'elettrodinamica quantistica (QED).

"Questo risultato e' molto importante: e' la prima prova diretta che la luce interagisce con se stessa alle alte energie", ha osservato Marina Cobal, coordinatore per l'Infn dell'esperimento Atlas. "Questo fenomeno - ha aggiunto - non e' contemplato dall'elettromagnetismo classico e quindi quanto osservato fornisce una significativa prova della nostra comprensione della teoria quantistica dell'elettromagnetismo".

Per ottenere questa prova si e' dovuto aspettare a lungo. Si riteneva da tempo che sarebbe stato possibile riuscire a osservare il fenomeno alle energie altissime raggiunge dall'acceleratore Lhc nella nuova fase di attivita' e e speranze non sono andate deluse: i dati raccolti nel 2015, quando nell'acceleratore si sono scontrati ioni di piombo a energie senza precedenti, hanno portato al risultato. 

Quando pacchetti di ioni di piombo sono accelerati, infatti, si genera intorno a essi un enorme flusso di fotoni. Quando poi gli ioni si incontrano al centro del rivelatore Atlas, sono solo pochi gli ioni che effettivamente collidono, ma i fotoni vicini possono interagire l'uno con l'altro, cominciando a interagire fra loro. Per arrivare a questo risultato e' stato necessario studiare oltre 4 miliardi di eventi. L'esperimento continuera' a studiare il fenomeno durante il 2018.
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Biennale dei Capolavori, per la sua 30ma edizione, apre al Novecento più recente

Aprirà il 23 settembre l’edizione del trentennale della Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze, ospitata nella tradizionale sede di Palazzo Corsini, sul Lungarno fiorentino dove giungeranno quasi 3.000 opere, proposte da oltre 80 gallerie provenienti dall'Italia e dall'Europa.
La stessa sede, Palazzo Corsini, si presenterà “a nuovo”, con un allestimento originale che quest’anno è affidato a Matteo Corvino, noto interior designer e scenografo veneziano. “Il nuovo allestimento della Biennale sarà un mix di modernità ed eleganza – spiega Fabrizio Moretti, Segretario Generale della BIAF -  dopo lo straordinario lavoro di Pier Luigi Pizzi si è scelto di continuare il suo percorso con Matteo Corvino, che riuscirà, con il suo tocco magico, a rendere ancora più speciale uno dei palazzi più belli del mondo, Palazzo Corsini”.
Nei saloni barocchi i visitatori saranno accolti dall'inedito allestimento con  opere selezionatissime (e visionate da un’autorevole Commissione Scientifica internazionale - il cosidetto Vetting Commitee) che, da questa edizione, arriveranno sino alla fine degli anni Ottanta.
Queste sono le prime anticipazioni di una Biennale per cui si respira un clima di attesa che non si viveva da almeno un decennio.
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Rainbow Magic Fire Festival, occhi al cielo

ROMA - Da venerdì 28 a domenica 30 luglio tre notti con il naso all’insù a Rainbow Magicland, il più grande parco divertimenti di Roma, per ammirare la magia di luci e colori del “Magic Fire Festival”, il Campionato internazionale di fuochi d’Artificio. Una sfida tra i migliori pirotecnici della scena internazionale, una manifestazione unica nel suo genere per bellezza e spettacolarità. Quattro le nazioni che, anche quest’anno, si contendono il gradino più alto del podio: Svizzera, Canada, Slovacchia e naturalmente Italia, pronte a sfidarsi per conquistare il prestigioso Trofeo Magic Fire Festival 2017.
E’ l’evento più atteso della stagione estiva, un’occasione imperdibile per vivere un sogno incantato lungo un viaggio strabiliante nella terra della magia con tutto il divertimento di Rainbow MagicLand: 38 attrazioni tra montagne russe, torri di caduta e giochi acquatici che si coloreranno di un’atmosfera esplosiva!
I partecipanti dipingeranno magnifici quadri di colori e fuoco nel cielo notturno, dando vita ad una gara di figure luminose, fantasia, originalità e tecnica con lanci tramite postazioni simultanee radiocomandate e computerizzate, che generano incredibili coreografie di luci. Inoltre al termine delle esibizioni il Parco si animerà con la musica Dj set di Dimensione Suono Roma fino a tarda notte.
Le due nazioni ad accendere la sfida a Rainbow MagicLand, il 28 luglio saranno Svizzera e Canada. La prima azienda a colorare il cielo sarà l’asconese Pirotecnica Sagl - Spettacoli pirotecnici, attiva dagli anni ’30 nel settore, può annoverare numerose partecipazioni ad eventi internazionali, come il Concorso Internazionale di Fuochi d’Artificio di Montréal, il Festival Knokke – Heist in Belgio, l’annuale appuntamento Locarnese di “Luci & Ombre”. L’azienda svizzera sfiderà i campioni internazionali della Apogée Fireworks provenienti dal Canada, vincitori di molti titoli nazionali e internazionali: dal Festival Internazionale di Seoul Fireworks, al Concorso Philippine piromusicale Internazionale a Manila, o il Festival pirotecnico a Salvador de Bahia – Brasile.
La seconda serata, il 29 luglio, sarà invece la volta dell’italiana Art Fireworks Allevi Group, una delle eccellenze italiane. Un punto di riferimento nel campo della pirotecnica moderna. La squadra italiana, di Roma, si confronterà con la Privatex Pyro, una delle principali realtà della Slovacchia nel campo degli effetti pirotecnici. La società ha partecipato a festival internazionali di fuochi d'artificio negli Stati Uniti, in Spagna, Giappone, Germania, Canada e Messico. 
Domenica 30 luglio, il pubblico assisterà alla serata conclusiva con l’assegnazione dell’ambito Trofeo Magic Fire Festival 2017 da parte della Giuria di qualità. Nella stessa serata, inoltre la ditta A.P.E. Parente – coorganizzatrice dell’evento - presenterà, fuori concorso, a chiusura del Festival uno spettacolo piromusicale ed un flame show.
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Non solo paella, Valencia a tutta arte

VALENCIA  - Una strepitosa collezione di foto e arte contemporanea ad animare gli spazi restaurati di una vecchia fabbrica anni Trenta, un frizzante centro culturale nel cuore del Barrio del Carmen dove le stradine una volta fatiscenti si colorano a getto continuo di Street Art, le teste monumentali di Manolo Valdés nelle fontane che circondano la frequentatissima Città delle Arti e delle Scienze.
Amata dai turisti per il mare, il buon cibo, le suggestioni della città medievale e il fascino delle architetture futuristiche di Santiago Calatrava, la spagnola Valencia punta forte ora anche sull'arte, candidandosi a polo creativo di una Spagna che lavora sodo per uscire dalla crisi. E se i progetti più nuovi sono il frutto di investimenti ed energie di privati, anche il settore pubblico fa la sua parte con le domeniche gratuite ai musei e biglietti d'ingresso a costi super contenuti per invogliare i residenti ancora prima dei turisti.
Certo, la strada da fare è lunga anche qui. Perché seppure l'arte si respiri un po' ovunque nella città zeppa di chiese e di palazzi carichi di storia, il museo più gettonato resta di gran lunga quello oceanografico, l'unico che supera il milione di visitatori l'anno (1.091.717 nel 2016) seguito alla lontana dal museo della scienza Principe Filippo (560 mila visitatori nel 2016) e dall'affascinante palazzo della Lonja, l'edificio che ospitava il mercato della seta, con 503.274. Centralissimo e prestigioso, il Museo delle Belle Arti, che pure vanta una collezione di pittura del XV secolo seconda solo al Prado di Madrid, è invece fermo a 132.069 presenze.
Tant'è, forse anche per questo i progetti dei mecenati puntano in primis sull'educazione all'arte. E' il pallino della gallerista Ana Seratosa, un fiume in piena di entusiasmo ed energia, che dal Duemila accoglie nei suoi spazi giovani promesse di tutta Europa e ne promuove i lavori, sempre coinvolgendo la città in un gioco di intrecci e di suggestioni che lasciano il segno. Il primo progetto è stato nel 2012 con le luci artistiche di Javier Riera che dai rigogliosi giardini del Turia si proiettavano sui palazzi, il secondo nel 2014 con le buffe sculture in marmo della tedesca Julia Venska a invadere strade, prati, negozi; l'ultimo nel 2016 con gli Echi di Memoria del belga Bob Verschueren che ha lasciato in eredità alla città grandi nidi, vasi rovesciati e magiche creature interamente realizzate con rametti di legno. "Ci teniamo a presentare opere e artisti, perché siamo convinti che l'arte contemporanea sia difficile per chi non se n'è mai occupato", spiega gentile la vulcanica gallerista. Intanto l'attività si moltiplica con un progetto di condivisione artistica sui social network e una Casa dell'arte, che apre dicembre con residenze di artisti e top class.
Punta sull'educazione all'arte e sui giovani talenti anche Bombas Gens,centro culturale ospitato negli affascinanti capannoni, splendidamente restaurati, di quella che una volta era una fabbrica di pompe idrauliche. Inaugurato solo pochi giorni fa, il nuovo spazio ospita a rotazione, con la consulenza di Vincente Teodolì, opere della strepitosa collezione della Fondazione Per Amor a l'Art creatura dell'impresario mecenate José Luis Soler Vila e dalla sua famiglia. Nei grandi capannoni riportati alla vita in soli due anni, c'è da perdere la testa appresso a capolavori della fotografia moderna da Irving Pen a Robert Mapplethorp e tante altre meraviglie che si affiancano a mostre temporanee di giovani artisti. Mentre una sezione a parte racconta l'avventurosa storia della fabbrica, gioiello decò di edilizia industriale, tra bombardamenti, incendi e le incursioni della milizia franchista. Decisamente vale una visita.
Così come le stradine del Barrio del Carmen, il quartiere della movida valenciana, dove i muri dei palazzi in parte ancora slabbrati e fatiscenti sono accesi dai murales. Da una calle all'altra ce n'è per tutti i gusti, segni astratti, richiami ai fumetti, neorealisti. Quasi tutti con una forte connotazione di critica sociale e politica, denuncia anticapitalista, impegno civile. Arte effimera, con i lavori dell'uno che si sovrappongono a quelli di un altro, muri che scompaiono insieme con le opere che li avevano nobilitati.
Tutt'altra cosa dalle monumentali sculture di Manolo Valdes, sei enormi teste femminili (già esposte a Parigi in Place Vendome) che strizzano l'occhio alla grande tradizione della pittura spagnola e nello stesso tempo dialogano (fino al 10 dicembre) con le architetture un po' spaziali della Città delle Arti e delle Scienze creatura del valenciano Calatrava. A mostra finita, una di queste grandi teste, donata dallo scultore, rimarrà alla città. Un segno in più nella Valencia capitale dell'arte.
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Pizza, Caiazzo batte Napoli. Ecco dove trovare le migliori pizzerie d'Italia

(di Gina di Meo) -  Caiazzo ruba a Napoli il primato della miglior pizza d'Italia per il 2017. 'Pepe in Grani' situata nel piccolo comune della provincia di Caserta si è giudicata lo scettro per la Top Pizza scelta tra rosa finale di 500 pizzerie visitate in incognito da 100 ispettori. La classifica finale è stata stilata da 50 Top Pizza, la prima guida on line interamente dedicata alle pizzerie del Bel Paese, firmata dal giornalista enogastronomico Luciano Pignataro, da Albert Sapere e Barbara Guerra, curatori delle Strade della Mozzarella (LSDM), ed edita da Formamentis.
'Pepe in grani' ha vinto superando criteri della qualità, ma anche del servizio, della carta dei vini e delle birre, della ricerca e dell'arredamento. In seconda e terza posizione altre due mete sacre dell'arte pizzaiola partenopea, 'Gino Sorbillo' ai Tribunali a Napoli e 'Francesco & Salvatore Salvo' di San Giorgio a Cremano in provincia di Napoli. La cerimonia di premiazione si è svolta a Castel dell'Ovo a Napoli e nella classifica delle prime cinquanta posizioni, 19 tra le migliori pizzerie sono della Campania.
Ma la classifica rappresenta tutte le tipicità della pizza delle regioni italiane. Dopo la Campania è il Lazio con sei migliori pizzerie al secondo posto, poi la Toscana con cinque, ex aequo la Lombardia e l'Emilia Romagna, seguite dalla Puglia, Sicilia, Abruzzo e Trentino Alto Adige eVeneto, che tra le altre cose ha due pizzerie tra le prime dieci, 'I Tigli' a San Bonifacio e 'Saporè' a San Martino Buon Albergo. Chiudono Piemonte e Basilicata.
    Assegnati anche diversi Premi Speciali. A Isabella De Cham di '1947 Pizza Fritta' a Napoli è andato il riconoscimento come Pizzaiola dell'anno, a Pierluigi Roscioli di 'Antico Forno Roscioli'a Roma, il Fornaio dell'anno e a 'Morsi &Rimorsi' ad Aversa , come Pizzeria novità dell'anno.

Premiati anche Francesco Martucci de 'I Masanielli' a Caserta, come Pizzaiolo dell'anno, Ciccio Vitiello di Casa Vitiello, Caserta, come Giovane dell'anno, 'Bonci - Pizzarium' a Roma per la Pizza dell'anno. Ancora 'Francesco & Salvatore Salvo' per la Miglior Carta dei Vini, 'La Gatta Mangiona' a Roma per la Miglior Carta delle Birre, 'Berberè' a Castelmaggiore, Bologna, per la Miglior Carta degli Oli Extravergine di Oliva, 'I Tigli' per il Miglior Servizio di Sala, 'La Masardona' a Napoli per la Miglior Proposta dei Fritti, 'Concettina ai Tre Santi' a Napoli per il Miglior Asporto, 'Di Matteo' a Napoli, per la Frittatina di Pasta dell'anno, 'Dry' a Milano, per il Miglior Comfort e Benessere Complessivo, 'Fandango Racconti di Grani ' a Filiano, Potenza, per la Sostenibilità Ambientale, 'Tonda' per la Valorizzazione del Made in Italy, 'Gino Sorbillo ai Tribunali' per la Miglior Comunicazione Web e Social. A Enzo Coccia, 'Pizzaria La Notizia 94', Napoli, è stato assegnato il Premio alla Carriera, Carmine Donzetti e Vincenzo Esposito, a sorpresa, hanno ricevuto il Premio del Cuore per aver messo la loro arte della pizza al servizio di chi ha bisogno.
La Migliore Pizzeria di Stile Napoletano fuori dall'Italia è andato a 'Ober Mamma' a Parigi. "50 Top Pizza - hanno spiegato i tre curatori della guida, Luciano Pignataro, Barbara Guerra e Albert Sapere - oltre ad essere un utilissimo vademecum per chiunque sia in cerca di un'ottima pizza in qualsiasi angolo del Paese, rappresenta un vero e proprio viaggio attraverso i diversi stili e prodotti tipici d'Italia. Un omaggio quindi al concetto di alta qualità Made in Italy". (ANSA)

Quando il percorso conta più della meta, ecco i viaggiatori 'lenti'

(di Alessandra Chini) Per loro la meta non è importante, o almeno non lo è quanto chi o cosa si incontra lungo il cammino. Puntano a viaggiare dentro se stessi, per staccare la spina ma anche per conoscere nuove terre con le loro tradizioni e peculiarità. E' questo l'identikit del viaggiatori 'lenti' che scelgono di percorrere a piedi o in bicicletta i tanti percorsi storico-spirituali d'Italia. Viaggiatori censiti nell'ambito del progetto 'Cammini e percorsi' dell'Agenzia del demanio e del Touring Club che punta ad assegnare in gestione a imprese, associazioni o cooperative in prevalenza under 40 immobili dello Stato lungo i percorsi come la via Francigena, la via Appia o le ciclovie del Vento o del Sole.
La consultazione ha riguardato quasi 25mila utenti. Tra i 18.600 italiani quasi 12mila hanno fatto viaggi 'lenti' lungo percorsi storico-religiosi o ciclopedonali. Quasi 10mila (9.192) in Italia e 4.500 in Europa. Nel nostro Paese il percorso più 'frequentato' è la via Francigena (4.855 dei 18.600 hanno detto di averla percorsa), poi la via Appia (2.857) e il cammino di San Francesco (2721).
La maggior parte degli utenti censiti (4.075) ha viaggiato per un periodo ristretto di tempo (tra 1 e tre giorni). Tremila lo hanno fatto solo per un giorno; 2.530 hanno camminato o fatto in bici questi percorsi per un periodo tra i tre e i sette giorni; oltre duemila per più di una settimana.
"Si viaggia - si legge nel report - poco come famiglia e coi bambini, sono più viaggiatori individuali, raramente intermediati anzi autonomi nell’organizzazione".
Le attività più ricorrenti che agli utenti piace svolgere sono quelle che portano a conoscere le storie del luogo ma anche partecipare a "momenti di meditazione" perché il cammino possa essere anche "spirituale".
Per quanto riguarda gli immobili da valorizzare nell'ambito del progetto la maggior parte delle preferenze vanno alle costruzioni tipiche locali e il numero e tipo di beni porta a concentrare le preferenza in Puglia, Lazio e Veneto. Il bene che ha riscosso più successo nella consultazione è un immobile rustico in Toscana, in provincia di Lucca che fa gola a oltre 2.100 utenti.
ansa

5 percorsi italiani in bici per la vostra vacanza

Dalle Dolomiti all'Alta Murgia: cinque tra i percorsi italiani in bici più interessanti per chi vuole passare una vacanza in sella e pedalare nella natura. Dolomiti, Cinque Terre, Alta Murgia e non solo: da Nord a Sud l’Italia offre tanti percorsi da godere in bicicletta. Ce ne sono alcuni più impegnativi di altri ma grazie alle nuove tecnologie legate alle biciclette a pedalata assistita è possibile raggiungere alcuni percorsi anche se non si è molto allenati. Ecco cinque percorsi selezionati da scegliere per delle vacanze dedicate al movimento in bicicletta.



Dolomiti in bicicletta fino a Cortina Il primo percorso è in Veneto, nel cuore delle Dolomiti, un’esperienza indimenticabile che permette di pedalare in un territorio patrimonio naturale dell’umanità. In 47 chilometri, e circa quattro ore, si va da Calalzo di Cadore, comoda da raggiungere anche in treno, fino a passo Cimabanche, con una tappa nella bella Cortina. Percorso alle Cinque Terre in bicicletta Dalle montagne delle Dolomiti ci si sposta quindi al mare della Liguria: un itinerario ad anello parte e arriva a Levanto, toccando Bonassola e Framura, per 22 chilometri totali. Un percorso ciclopedonale poco impegnativo ma molto suggestivo, grazie all’alternanza di strette gallerie e scorci sul mare. Il tragitto permette anche di farsi un bagno prima di rimettersi in sella: per un tuffo in acqua la location più indicata è il fiordo di Porto Pidocchio. Una pedalata tra le dolci colline delle Crete Senesi Il terzo percorso viaggia invece sui sentieri sterrati delle Crete Senesi, in Toscana, da Siena ad Asciano, in sella tra le dolci colline punteggiate da cipressi e cascine isolate. La strada si articola in poco meno di 40 chilometri, da percorrere immersi nella natura circostante. La via Francigena in bici fino a Roma Nella regione Lazio, invece, il percorso proposto è l’ultima tappa della Via Francigena: un tratto di diciassette chilometri che collega La Storta alla Basilica di San Pietro. Si attraversa via Trionfale seguendo le indicazioni per il centro. Da qui si raggiunge la salita che porta al belvedere di Monte Mario che regala una vista mozzafiato su Roma, per scendere poi in Vaticano. Verso la Ciclovia dell’Alta Murgia Raggiungiamo infine il sud, con la Ciclovia del Parco Alta Murgia, in Puglia, che ha lunghezza complessiva di 65 chilometri: il percorso è però spezzabile in sette itinerari. Il tratto di diciassette chilometri dalla Stazione di Corato alla Necropoli di S. Magno è area di grande interesse storico e artistico. I cinque percorsi individuati, in particolare il tratto in Puglia che porta alla Necropoli di San Magno, sono adatti per un’escursione in sella ad un e-bike, che permette anche a chi non usa tutti i giorni la bici di pedalare senza sforzi eccessivi. Dopo un’estate in sella su uno di questi cinque percorsi si avrà voglia di ripetere altre esperienze di viaggio in bici, scegliendo tra le numerose possibilità che l’Italia offre tra paesi caratteristici e ambienti incantevoli.

L'altra America, la terra dei Nativi

ARIZONA/NUOVO MESSICO – ‘Ya’át’ééh kwé’é’ Dinétah’, benvenuti nella terra dei Nevajo. Il benvenuto e’ per un territorio che si estende tra l’Arizona, il Nuovo Messico e lo Utah con lo spettacolo di bellezze naturali come il Grand Canyon e la Monument Valley. E’ l’altra faccia degli Stati Uniti, quella degli indiani d’America, scandita dai ritmi della natura e da riti ancestrali.
Quella fatta dell’amore per la propria terra e dove ogni cerimonia e’ una celebrazione di ciò che la natura ha dato. Un posto dove l’uomo ancora non e’ riuscito a mettere mano, dove non c’e’ la corsa a costruire grattacieli ma c’e’ solo spazio per incredibili formazioni geologiche naturali opera del vento e dell’acqua. Un lavoro durato milioni di anni e che oggi regala solo posto per la meraviglia dei visitatori.
Oltre al Grand Canyon, un’immensa gola creata dal fiume Colorado in Arizona, sempre in territorio Navajo occorre andare alla scoperta di un’altra formazione naturale, Canyon de Chelly, a Chinle, uno dei monumenti nazionali piu’ visitati negli Stati Uniti.
La roccia, color rosa, da’ l’idea di morbidi strati di crema posati delicatamente uno sull’altro. Il Canyon e’ importante anche a livello storico per la presenza di rovine di tribù indigene, tra cui la ‘Casa Bianca’, un insediamento realizzato dagli Anasazi nell’era Pueblo e che deve il nome al fatto che le mura esterne sono dipinte di bianco.
E’ terra dei Navajo anche un’icona del West, ossia la Monument Valley, unica per le sue guglie rocciose disseminate lungo la sua superficie ed e’ qui che si può dormire in un hogan, costruzione tipica della tribù indigena a forma di cupola con l’ingresso posto verso est dove sorge il sole e alzandosi all’alba si possono ammirare albe spettacolari. Dall’Arizona ad Acoma in Nuovo Messico sulle tracce dei Pueblo, una tribù composta da 21 gruppi. Acoma e’ detta anche ‘Sky City’ perché sorge a circa 2000 m di altitudine nonche’ sulla cima di una mesa (superficie rocciosa sopraelevata con la cima piatta) di arenaria (granuli di sabbia). Anche qui il paesaggio lascia solo spazio allo stupore per i diversi strati di colore delle rocce, dal rosa, al gallino, al beige, al porpora.
Il Nuovo Messico e’ anche lo stato con capitale Santa Fe, citta’ unica per il suo stile architettonico spagnoleggiante con le case basse costruite con i mattoni ‘adobe’, fatti di terra e paglia essiccati al sole. Non lontano da Santa Fe c’e’ un altro ‘avamposto’ Pueblo, quello dei Taos con l’omonimo sito storico designato patrimonio dell’Unesco. I Pueblo di Taos vivono qui da oltre mille anni ben oltre prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo quindi. Il sito di Taos e’ un paesaggio surreale. Anche qui, come a Santa Fe, la abitazioni sono in adobe, resistono li ancora oggi come appunto mille anni fa e il tempo sembra essersi fermato con la popolazione che ha deciso di vivere senza acqua corrente ed elettricità.
‘Ahèhee’ dòò, Nizhoniigoo nanínaadoo’ (grazie e che tu possa continuare il tuo bel viaggio) e’ l’augurio che si ricevera’ da un nativo d’America alla fine di un cammino sulle tracce della natura.
ansa

Facebook e Instagram, i consigli per condividere in sicurezza in vacanza. Piccola guida per evitare noie in ferie, da password a wifi

 L'estate è decisamente un periodo caldo per Facebook e Instagram e i due colossi, oltre a una serie di consigli per sperimentare tutte le nuove funzioni, forniscono una piccola guida per aumentare la sicurezza durante le condivisioni di foto e video in vacanza.
    PRIMA DI TUTTO IL WIFI - Facebook la nuova funzione Find Wi-Fi per iOS e Android che aiuta a localizzare gli hotspot wi-fi disponibili nelle vicinanze utile, specie in quelle località in cui la connessione è più debole.
    LA PASSWORD SIA SICURA - Anche lontano da casa, la sicurezza è importante: sia per Facebook che per Instagram è importante scegliere una password sicura e difficile da indovinare, in modo da evitare che qualcun altro possa accedere al tuo profilo.
    AUTENTICAZIONE A DUE FATTORI - Tra le misure previste da Instagram per garantire la sicurezza, c'è l'autenticazione a due fattori, per rendere più difficile l'accesso al proprio profilo da parte di persone indesiderate grazie a un codice a 6 cifre richiesto ogni volta che si fa log-in da un nuovo dispositivo.
    CODICE DI SICUREZZA - Anche su Facebook si può rendere il profilo a prova di intrusi, impostando un codice di sicurezza che si riceverà direttamente sul cellulare nel momento in cui si accede all'account da un device sconosciuto.
    FILTRO AI COMMENTI - Per non preoccuparsi di commenti indesiderati su Instagram mentre si è in viaggio, si può impostare un filtro ai commenti che contengono una lista personalizzabile di parole, frasi, hashtag ed emoji. E se ci sono dei momenti in cui si desidera che nessuno commenti, si possono disattivare su qualsiasi post.
    IMPOSTAZIONI DI PRIVACY - E' importante controllare cosa gli estranei possono visualizzare sul proprio profilo Facebook e chi può cercarci sulla piattaforma, grazie alle impostazioni sulla privacy. Per aumentare la privacy su Instagram si può scegliere di avere un profilo privato, approvando i nuovi follower.
    PENSARE ALLE INFO DA CONDIVIDERE - Su Instagram, anche se i post sono privati, il profilo è pubblico, e tutti possono vedere l'immagine iniziale, il nome utente e la biografia. Dal momento che si possono aggiungere fino a 10 righe di testo su di sé, è utile pensare bene al tipo di informazioni che si vogliono condividere in questa sezione.
    CONTROLLA I CONTENUTI - Se non ci si piace nelle foto in cui gli amici ci taggano, Facebook dà la possibilità di controllare i contenuti prima che questi compaiano sul profilo, tramite la sezione Privacy delle impostazioni. Allo stesso modo, su Instagram e su Facebook, se in una foto che si sta pubblicando è presente un'altra persona, ci si deve assicurare che non abbia problemi se viene condivisa o taggata.
    GEOLOCALIZZATI SEMPRE? - Sia su Instagram che su Facebook si possono geolocalizzare i post: la tentazione è tanta, specialmente quando ci si trova in luoghi da sogno, ma, per ogni contenuto condiviso, è determinante pensare se davvero si vuole che gli altri sappiano dove è stato scattato.
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'Non solo museo', itinerari per Venezia

VENEZIA - Una visita a Palazzo Mocenigo per immergersi nelle fragranze e nei colori della Venezia del Settecento; un viaggio nel tempo nella Venezia della Belle Époque; una passeggiata da Campo Santo Stefano al Museo Correr che riporta al periodo dell'occupazione francese e austriaca; un tour dalla Casa di Carlo Goldoni alla scoperta della Venezia dei teatri. Sono solo alcune delle proposte di "Non solo museo", l'iniziativa attraverso otto itinerari tematici promossa dal Comune di Venezia, dalla Fondazione Musei Civici di Venezia e dalle Guide ufficiali abilitate della Città di Venezia. Per l'assessore Paola Mar, "grazie a 'Non solo Museo', frutto del lavoro di rete tra Comune di Venezia, Fondazione Musei civici veneziani e associazioni delle guide turistiche abilitate, sarà possibile offrire ai visitatori, ma anche ai residenti, proposte culturali di qualità e nello stesso tempo indirizzare gli ospiti alla scoperta degli angoli più nascosti, ma non per questo meno degni di visita, di Venezia".
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Lady Diana icona mondiale, mostra alla Venaria a 20 anni dalla morte. Fino al 28 gennaio 100 immagini la raccontano

(di Barbara Beccaria) A vent'anni della sua scomparsa, Lady Diana rivive in una mostra fotografica alla Reggia di Venaria, 'Lady Diana. Uno spirito libero', un percorso intimo, composto di oltre 100 immagini in grado di raccontare la vita della principessa Spencer attraverso un'infinità di sfumature. La mostra, allestita nelle Sale dei Paggi, una zona della Reggia mai usata prima per un'esposizione, resta aperta fino al 28 gennaio. La 'principessa del popolo', come venne chiamata dai media non solo inglesi, morì il 31 agosto 1997 in un tragico incidente, lasciando l'opinione pubblica sgomenta. Da allora è diventata un simbolo di forza e di fragilità dell'Inghilterra contemporanea, un esempio che viene raccontato anche a chi all'epoca era troppo piccolo. 
Ideata da Kornice e curata da Giulia Zandonaldi, giovane scrittrice, critica letteraria e storica dell'arte, vuole renderle omaggio partendo dalla fine, dal ricordo della sua morte. Seguono i momenti cruciali della sua vita, dalla sua infanzia, immortalata in bianco e nero con la sua famiglia, all'adolescenza, fino al suo diventare giovane donna e presto fidanzata e poi moglie del principe Carlo. Tutti momenti seguiti da migliaia di persone alla televisione. Una sorta di favola che si avvera, i cui dettagli, un vestito, un cappello tirato via dal vento, una mossa diversa, uno sguardo più felice del solito, un ballo, diventano momenti di tutti. Come raccontano, in un crescendo emotivo, le foto in mostra. Il tutto condito dall'intramontabile stile 'british' che Lady D mantenne per sempre, pur avendo uno spirito ribelle 'libero', come recita il titolo della mostra.
Il visitatore si immerge così nell'atmosfera d'etichetta in cui visse la principessa, non senza patemi, ma coglie anche i suoi momenti più spontanei, di madre che accompagnava i suoi bambini a scuola e che organizzava le sue apparizioni pubbliche in base alle esigenze dei piccoli, di donna generosa e altruista che ha sempre cercato di aiutare gli altri lasciandosi ispirare da guide spirituali come Nelson Mandela e Madre Teresa di Calcutta. Diana era un'icona mondiale: ricopriva le pagine delle riviste, da Vogue a Vanity Fair, da Time ad Harper's Bazaar, oltre alle prime pagine dei giornali. Grandi stilisti avevano contribuito a cambiare la sua immagine, come ad esempio Gianni Versace, al funerale del quale presenziò proprio in quel 1997 che avrebbe visto la sua stessa fine. 
ansa
   

Mostra. Giorgione, il silenzio dell'amicizia

Due sedi prestigiose, Palazzo Venezia e Castel Sant’Angelo, per una mostra che, in sostanza, ruota attorno a un solo quadro, il Doppio ritrattodi cui si discute ancora l’autografia, anche se molti studiosi sono concordi nell’assegnarlo alla mano di Giorgione. L’opera – come ricorda introducendo il catalogo della mostra la direttrice del Polo museale del Lazio, Edith Gabrielli –, entrò nelle collezioni del Museo Nazionale di Palazzo Venezia nel 1919 assieme a un nucleo di opere appartenute al principe Ruffo di Motta Bagnara, e fu in sostanza anche l’atto di nascita del museo. Già nel 1927 il trentasettenne Roberto Longhi aveva scommesso sull’autografia, ma la disputa non si è mai conclusa veramente. La mostra (aperta fino al 17 settembre) s’intitolaLabirinti del cuore. Titolo un po’ lezioso, a dire il vero. Sottotitolo: Giorgione e le stagioni del sentimento tra Venezia e Roma, più didascalico – segnala appunto il ponte culturale a cavallo del XV e XVI secolo fra l’esodo culturale dalla Repubblica marinara e la Città Eterna –, ma sempre un po’ zuccherino. La realtà è che qui si vuole parlare della «poetica degli affetti», termine più congruo che, fra l’altro, collega la nascita di un genere agli sviluppi che giungono fino al Seicento e a Guercino, per esempio.
Il testo della Gabrielli ruota su qualche contraddizione: si dice che il catalogo è stato pensato come «strumento di lavoro», quindi rivolto agli studiosi, ma poco dopo si sottolinea che si è voluto fare una mostra «in grado di farsi capire da tutti, di parlare a tutti, nella convinzione che qualità scientifica e comunicazione non costituiscano necessariamente un ossimoro ». Non mancano omaggi al gergo inglese – «una moderna cross dissemination » per dire una comunicazione che offre oltre ai classici pannelli una serie di strumenti multimediali –, e infine si svela il vero intento della mostra, «semplice e chiaro»: «Promuovere la conoscenza e la qualità della fruizione di Castel Sant’Angelo e di Palazzo Venezia, vuoi degli edifici vuoi delle collezioni permanenti». Tutto questo con un centinaio di pezzi fra dipinti, sculture, oggetti, libri e opere grafiche. Povero Giorgione (o chiunque sia l’autore del quadro), usato come adescatore di pubblico per due monumenti dove sono conservate opere di grande pregio (basti dire delle sculture del XIV e XV secolo esposte a Palazzo Venezia oppure, sempre lì, la bellissima testa di Cristo dell’Angelico).
Il fatto è che questa mostra non è per chiunque, non è una mostra su Giorgione, e forse non è nemmeno una mostra sui ritratti. Non nasce come risoluzione di problemi storiografici, ma come spunto per una riflessione aperta sulla nascita della «poetica degli affetti» che il curatore Enrico Maria Dal Pozzolo cerca di dipanate attorno a un quadro importante, ma su cui non è stata scritta ancora l’ultima parola (verrebbe da dire, se ragionassimo da storici, che manca la pezza documentaria o meglio una data in qualche reperto d’archivio, che tagli la testa al toro sulla paternità dell’opera). I materiali esposti vogliono testimoniare la presenza culturale dei veneziani a Roma, in un difficile crinale che vede alcuni letterati emigrare dalla Serenissima già avviata verso la crisi di quei valori che l’avevano definita anche come ponte verso l’Oriente (Pietro Bembo, Vincenzo Orsini, Niccolò Tiepolo, Tommaso Giustiniani...). Passaggio a Roma fu anche quello di Pietro Barbo, che divenne papa col nome di Paolo II nel cui stemma compare l’emblema della sua stirpe e il leone. Queste presenze preparerebbero il clima mentale di cui sembra nutrirsi il Doppio ritratto che imprime una svolta attraverso la quale il ritratto tende a umanizzarsi, la pelle traspira i moti dell’anima che plasmano i volti, secondo un “sentire” che non è soltanto dei sensi ma anche dell’intelletto e dello spirito.
Prima di salire al soglio pontificio Paolo II era stato un raffinato collezionista, raccogliendo monete, gemme, cammei, coppe di epoca ellenistica e romana. Un altro veneziano eccellente, il cardinale Domenico Grimani, risiedeva a Palazzo Venezia e oltre a essere un grande collezionista fu probabilmente anche un committente di Giorgione, come ricorda Dal Pozzolo. Il simbolo veneziano, san Marco (e il leone), fu l’emblema nella Città Eterna del «mito di Venezia»; lo ritroviamo in sculture dell’epoca, in dipinti, ma soprattutto nella memoria storica di Palazzo Venezia già donato da Pio IV alla Serenissima e che fino a quel momento era noto come Palazzo di san Marco.
Nella sede di Castel Sant’Angelo si dipana invece la sezione più di contesto al discorso ritrattistico e al sentimento. Sul piano librario la mostra spazia dall’Hypnerotomachia Poliphilistampata da Manuzio nel 1499, alle numerose edizione del Petrarca, di Bembo, di Boccaccio, di Francesco Barbaro, di Lodovico Casoni imperniate sullo «specchio d’amore », che cattura i flussi di vita presenti nei ritratti di dame, nei temi della musica come colonna sonora degli affetti (il notevole ritratto di Coppia in un giardino di Vincenzo Tamagni o il belRitratto di musicista di anonimo pittore veneto, proveniente dal Kunsthistorisches, la cui mano sinistra accorda la lira e ha certo qualche analogia formale con quella del giovane in primo piano nel Doppio ritratto), nelle figure di gentiluomini, come quello di Bartolomeo Veneto proveniente da Cambridge (fino a metà Ottocento attribuito a Boltraffio), che indossa una veste sontuosa sulla quale troviamo un misterioso labirinto e altre figure simboliche che dovevano esprimere le qualità del personaggio raffigurato, peraltro indecifrato. E qui il legame è col Labirinto d’amore di cui è esposta una edizione veneziana, con rimandi di pensieri misogini e significati iniziatici dei rituali amorosi. Parlando d’amore si entra nell’ambito della seduzione: vari ritratti di donne elegantemente vestite che mostrano il seno, fra questi svetta quello di Domenico Tintoretto per la lieve, quasi eterea sintesi dei veli e delle carni pallide che emergono dal fondo rosato; meno accettabile, per una certa sciatteria formale, l’attribuzione sempre a Tintoretto dell’altro Ritratto di donna che apre la veste (entrambi i dipinti provengono dal Prado).
La sezione ritrattistica si chiude con una parata di opere che mostrano “doppi ritratti”: quello di scuola fiorentina dove il fidanzamento è dichiarato esibendo, nelle mani della ragazza, un foglio che doveva essere una sorta di accordo sottoscritto dalle famiglie dei due futuri sposi; e quello dei coniugi dipinto da Sofonisba Anguissola. E ancora: il Ritratto della famiglia di Bernardino Licinio, quello celebre della Famiglia Tacconi di Ludovico Carracci, e così via fino al Ritratto di vecchiogià attribuito a Giorgione, per poi passare di mano a Tiziano, Lotto, Jacopo Bassano, Paris Bordon e, nel 2004, riattribuito dubitativamente a Giorgione da Andrea De Marchi: un ritratto che però sembra mancare di quella mistica morbidezza del colore che riconosciamo a Giorgione. A questo punto, si torna al centro di questa rassegna, ovvero al Doppio ritratto, detto anche i Due amici. Ciò che sorprende, al di là della irrisolta questione attributiva (non è noto nemmeno il committente), è l’impostazione assolutamente nuova: in primo piano un ragazzo sontuosamente vestito, ci osserva quasi con sguardo assente; la mano destra sorregge la guancia e la sinistra stringe un melangolo, entrambi simboli della melancholia. Alle sue spalle un altro giovane, meno distinto sia nell’aspetto che nel vestire. Il contrappunto fra queste due figure, peraltro assai misterioso (saranno davvero amici?), sembra mettere in scena un’allegorica disputa del gusto fra linguaggio alto e volgare che, in qualche modo, rappresenta il transito alla modernità, dove la lingua volgare diventa idioma dei sentimenti. Una riflessione che forse avrebbe meritato un approfondimento più specifico, o quanto meno più esplicito.
da Avvenire

Narrativa. Premio Strega a Cognetti: le sue «otto montagne» di padri e figli

Paolo Cognetti ha vinto il Premio Strega 2017 con il romanzo 'Le otto montagne' (Einaudi). Il voto della giuria ha incoronato Cognetti con 208 voti su 532. Seguono Teresa Ciabatti con 'La più amata' (Mondadori), 119 voti; Wanda Marasco con 'La compagnia delle anime finte' (Neri Pozza), 87 voti; Alberto Rollo con 'Un'educazione milanese (Manni), 52 voti; e Matteo Nucci, con 'È giusto obbedire alla notte' (Ponte alle Grazie), 79 voti. Al vincitore della LXXI edizione del premio promosso dalla Fondazione Maria e Goffredo Bellonci e da Strega Alberti Benevento è andato anche il Premio Strega Giovani.
La recensione di Fulvio Panzeri (Avvenire, 30 dicembre 2016)
A breve distanza dalla sua uscita in libreria il primo romanzo di Paolo Cognetti, scrittore che fino ad ora aveva privilegiato la forma del racconto, è diventato un caso letterario, anche tra i lettori, un successo anticipato dall'interesse che il libro aveva suscitato alla 
Fiera di Francoforte, tanto da essere già in traduzione in trenta Paesi.
Va detto che "Le otto montagne" è decisamente un romanzo importante, uno dei migliori del 2016 per quanto riguarda la narrativa italiana e conferma un dato significativo, quello del consolidamento di quella nuova generazione di scrittori, nata tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, che ha trovato una propria dimensione espressiva, proprio nel ritorno all'autenticità di un sentire narrativo che lascia da parte mode e sperimentalismi, per puntare l'attenzione sull'umano, su una profondità nell'indagine dei rapporti personali e sul mettere in scena uno smarrimento che è quello vissuto in questi anni di precarietà, non solo esistenziale. 

Cognetti dimostra come una storia anche personale possa diventare emblematica, uscendo dall'ambito strettamente autobiografico per imporsi come riflessione sul valore dei luoghi e dei rapporti. Infatti nel romanzo prevalgono, con la stessa valenza, il paesaggio e le persone. A raccontare la storia è un figlio, Pietro, nato da genitori veneti che hanno lasciato la loro terra 
e un'identità di montagna di natura dolomitica, per trasferirsi a Milano, agli inizi degli anni Settanta. Nella Milano delle grandi arterie stradali, percorse da fiumi di veicoli, lo spazio dell'orizzonte che inquadra una montagna lontana, la Grigna, fa ritornare il desiderio di vivere ancora in quella dimensione, anche solo in un periodo dell'anno. Ecco allora la scoperta del Monte Rosa, del paesino di Grana. Per ognuno quel luogo diventa una forma di redenzione esistenziale: per la madre che ritrova una sua forma di felicità; per il padre che ostinatamente prosegue il suo sogno di ritrovare in ogni ghiacciaio «la neve degli inverni lontani»; per il figlio, taciturno, riflessivo, un po' indifeso, ma con una sensibilità capace di capire gli altri, di iniziare un percorso di crescita attraverso l'amicizia con Bruno, un ragazzo "selvatico", molto diverso da lui, con il quale si instaura un rapporto di grande complicità.
Sarà il padre, quando il rapporto con il figlio adolescente porta al silenzio tra loro, a mantenere segretamente il filo di quel legame, portando il lettore direttamente al centro della storia, dopo un salto temporale in cui vale di più la reticenza del narratore, che il racconto della crisi. La morte prematura del genitore, a poco più di sessant'anni, e la scoperta che il padre ha lasciato a Pietro 
un terreno tra i boschi e il lago, con un rudere, ricostituisce l'unità.
Cognetti fa dire al suo protagonista, che nel frattempo si è trasferito a Torino, vive in un monolocale e si occupa di documentari: «Sapevo una volta per tutte di aver avuto due padri: il primo era l'estraneo con cui avevo abitato per vent'anni in città, e tagliato i ponti per altri dieci; il secondo era il padre di montagna, quello che avevo solo intravisto eppure conosciuto meglio, l'uomo che mi camminava alle spalle sui sentieri, l'amante dei ghiacciai. Quest'altro padre mi aveva lasciato un rudere da ricostruire. Allora decisi di dimenticare il primo, e fare il lavoro per ricordare lui».

Bruno sa tutto di quelli che erano i progetti del padre che sembra riconsegnargli anche il senso più profondo di una grande amicizia, da rendere ancora più solida, grazie a quella casa d'alta montagna, a ridosso della roccia, che ha pensato per il figlio. Bruno e Pietro lavorano insieme alla casa per tutta un'estate e Pietro decide che la potrà usare anche l'amico, quando vorrà. Il tempo dell'intesa ha poche parole in questo romanzo, ma gesti concreti, solitudini da condividere, una bellezza del paesaggio vissuta in tutta la sua pienezza, nei fragori e negli istanti di calma, nei passaggi stagionali.
Ognuno dei due, Pietro e Bruno, sembra prendere forza dall'altro, ognuno è consapevole del fatto che potrà ritrovarsi sempre in quella dimensione sacra che il luogo della casa rappresenta, anche nel suo valore simbolico di riconciliazione. Ognuno dei due cercherà di portare a compimento i propri progetti: quello di un'azienda agricola per Bruno, ma anche una compagna e una figlia; un viaggio in Nepal per Pietro. Il legame è forte, ma la distanza non può essere un ostacolo. Quando il sogno di Bruno crolla, Pietro 
sarà lì, con la sua presenza.
Le otto montagne è un romanzo in cui si respira il senso fermo del sacro e della solitudine come pienezza. Del resto Cognetti, parlando degli eremiti del XXI secolo sulla rivista Vita e Pensiero, scrive che «l'eremita è un esploratore. Per quanto mi riguarda, 
la scrittura è allo stesso tempo il mezzo e il fine di questa esplorazione: è il mio modo di pensare, quando sono da solo, e insieme la traccia che ne rimane, o il regalo che la solitudine mi fa quando decide di essere generosa con me».

Paolo Cognetti
Le otto montagne
Einaudi. Pagine 204
Euro 18,50
da Avvenire

Cappella Musicale del S. Monte Calvario e i PP. Rosminiani “CONCERTI D’ESTATE” Sala Bozzetti al S. Monte Calvario, sabato 15 luglio, ore 21.00


Marco Rainelli: flauto, Andrea Pecelli: violoncello e Federica Zoppis: pianoforte
Sala Bozzetti al S. Monte Calvario, sabato 15 luglio, ore 21.00


Franz Joseph Haydn (1732-1809)
Trio in Re maggiore
Hob. XV:16

Bohuslav Martinu (1890-1959)
Trio in Do maggiore

Carl Maria von Weber (1786-1826)
Trio in sol minore
Op. 63

MARCO RAINELLI
Diplomatosi in flauto a 17 anni presso il conservatorio G. Cantelli di Novara sotto la guida del M° S. Gori, ha proseguito gli studi con flautisti di fama internazionale, ha conseguito il diploma di II livello, si è perfezionato all'estero in Germania ed in Svizzera, ha seguito il corso per professori d'orchestra presso l'Accademia del Teatro Alla Scala di Milano esibendosi in tutta Italia. È vincitore di numerosi concorsi e borse di studio e collabora in qualità di primo flauto nelle tournèe europee della Classical Concert Chamber Orchestra (USA) e con New Art Ensemble con Bruno Canino. Ha lavorato con l'orchestra dei Pomeriggi Musicali di Milano, l'Orchestra Filarmonica di Torino, Verbier Festival Orchestra, Orchestra Regionale Toscana, Sinfonica di Roma, Accademia Europea, Sinfonica Giovanile del VCO, Sinfonica di Savona, Orchestra Carlo Coccia di Novara. Svolge un’intensa attività concertistica con diverse formazioni.

ANDREA PECELLI
Ha compiuto gli studi musicali sotto la guida di Rocco Filippini al Conservatorio “G.Verdi” di Milano ed all’Accademia W.Stauffer di Cremona dove si è diplomato in violoncello con menzione di merito. Dopo aver vinto il Premio Internazionale “Calpurnia” al Festival delle Nazioni di Città di Castello, si è dedicato alla musica da camera, fondando nel 1995 il Milano Cello Quartet. Con tale formazione e come ospite dell’ensemble di musica contemporanea Sentieri selvaggi di Milano, ha effettuato concerti per le maggiori stagioni musicali italiane (Teatro alla Scala, Teatro Regio di Torino, Società dei Concerti di Milano, etc.). Collaboratore per anni dell’Orchestra da Camera di Mantova, dell’Orchestra di Brescia e Bergamo, della Cappella Musicale del Sacro Monte Calvario (dal 2000 ad oggi) e, per concorso, delle Orchestre Nazionali della RAI e dell’Accademia di S. Cecilia. Primo violoncello dell’Orchestra G. Cantelli, Milano classica, Orchestra Stabile di Bergamo e, dal 2007 al 2011, dell’Orchestra Sinfonica del VCO. Collabora con le Associazioni SuoniAMO e AMAMUSICA. È fondatore e Direttore Artistico dell’Associazione Orchestra e dell’Orchestra da Camera di Domodossola. Svolge attività cameristica in duo con Federica Zoppis ed in trio con Marco Rainelli. È docente, come vincitore di concorso, di violoncello e musica d’insieme per archi presso il Liceo Musicale di Omegna.

FEDERICA ZOPPIS
Ha frequentato il Triennio Accademico di pianoforte sotto la guida del M° Mario Borciani e attualmente segue i corsi del Biennio Accademico di Maestro collaboratore presso il Conservatorio G. Verdi di Milano. È pianista collaboratrice nei seguenti corsi e workshop: “Incontri musicali” dell’Associazione Orchestra di Domodossola, “La nota chiave” di Lello Narcisi, “Musichiamo la Valle Antrona” dell’Associazione SuoniAMO. Ha suonato in musical prodotti da La Dual Band presso diversi teatri (Blue Note, Tieffe Menotti, Out-Off). Ha collaborato come clavicembalista e organista con l’Orchestra da Camera Giovanile di Domodossola e la Cappella Musicale del Sacro Monte Calvario. Come camerista collabora con Synchronos Trio, Simone Ponta, Letizia Zoppis e Andrea Pecelli. È membro dell’orchestra GMO e docente di pianoforte presso le associazioni AMAMUSICA, SuoniAMO, La Dual Band.

L’attività concertistica della Cappella Musicale del Sacro Monte Calvario è sostenuta dall’Istituto della Carità – PP. Rosminiani, dalla Riserva Naturale Speciale Regionale del S. Monte Calvario, dall’Assessorato alla Cultura della Città di Domodossola, con la Fondazione CRT.
 fonte: comunicato stampa