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Genova. Turismo e commercio per la rinascita della città


da Avvenire


Il crollo di ponte Morandi non ferma l'economia di Genova. Il capoluogo ligure - nonostante le lacrime versate per i morti e i disagi - guarda avanti. La città è aperta, è viva e accoglie i turisti e i nuovi imprenditori. Genova rilancia più che mai la propria ritrovata vocazione turistica che nel solo periodo gennaio-luglio 2018 ha fatto registrare un +4,1% di pernottamenti con un incremento degli stranieri di oltre il 10%. Nessun isolamento dunque e – soprattutto – tanta voglia di continuare a mostrare le proprie meraviglie, dai tanti musei all’Acquario, dallemostre a Palazzo Ducale al centro storico Patrimonio Unesco, dalle ville e i parchi storici all’eccezionale ricchezza paesaggistica del mare.
Il Comune di Genova - in particolare l'assessorato al Turismo e Commercio guidato da Paola Bordilli - è prima linea nella diffusione e promozione turistica. Oltre a facilitare l'avvio di attività produttive nel centro storico. Per un anno, per esempio, i locali di proprietà comunale verranno concessi in affitto a costo zero. I nuovi interventi economici a sostegno delle start up e del commercio, decisi dalla sezione Imprese del Comitato di indirizzo tecnico del Fondo strategico regionale, aiuteranno la crescita e lo sviluppo dell’intero sistema. Gli interventi, da attuare entro il prossimo autunno, saranno erogati tramite bandi e attraverso la società regionale Ligurcapital che avrà un affidamento di cinque milioni di euro da destinare alla partecipazione nel capitale delle società da sostenere. Di questi, 1,5 milioni di euro saranno investiti per start up innovative mentre tre milioni saranno destinati a finanziamenti agevolati nel settore del piccolo commercio erogati attraverso bandi indirizzati su aree specifiche di pregio al fine di riqualificare l'offerta commerciale e turistica integrata del territorio. Per la riqualificazione dei mercati coperti, identificati come punti di eccellenza del commercio di prossimità, è previsto un fondo di garanzia di 1,5 milioni di euro. «Esprimo massimo apprezzamento per questa decisione che punta alla valorizzazione e al sostegno al commercio – dichiara l'assessore comunale –. Per i mercati coperti di Genova ci sono moltissimi progetti fermi da anni, la garanzia del credito da parte di Regione Liguria vuole essere il simbolo della fiducia che, anche come Comune, abbiamo richiesto di dare agli operatori che hanno combattuto la crisi sino a oggi e che meritano un futuro di sviluppo e non di declino».
Insomma è forte la voglia di rialzarsi a un mese dalla tragedia di ponte Morandi. Nei primi 20 giorni di agosto si è registrato un incremento di visitatori negli uffici di informazioni turistiche della città (+4,5%), si sono svolti regolarmente i tour e le visite guidate prenotate per il week end e i turisti confermano le prenotazioni negli alberghi, pur nell’abitudine ormai consolidata alla scelta “last minute”. «Siamo come sempre pronti ad accogliere al meglio i tanti turisti che hanno scelto le bellezze della nostra città. – sottolinea Bordilli -. È motivo di orgoglio per noi constatare che in questi giorni non si sono verificate disdette ma, anzi, i numeri ci consegnano un incremento di presenze rispetto all’anno scorso. A Genova si arriva con comodità e tutti i punti di maggiore interesse turistico si possono raggiungere con i mezzi pubblici, così come accadeva fino a qualche giorno fa. Ciò grazie al grande lavoro che è stato fatto da parte dell’amministrazione nella gestione della mobilità durantequesto momento di grande difficoltà. Genova – e lo dico non soltanto da assessore al turismo, ma da genovese innamorata della propria città – è rimasta la stessa, una città meravigliosa da visitare».

Il capoluogo ligure non solo va avanti, ma incrementa il proprio interesse. Continua a essere raggiungibile dai turisti, in auto, in treno, in aereo e via mare. I percorsi consigliati sono ben indicati in città e facilmente reperibili sul portale di promozione turistica Visitgenoa, sul sito del Comune, sui siti di Società Autostrade e Trenitalia. Gli orari dei voli, delle crociere, dei traghetti non hanno subito variazioni.

Nel tempio della lirica a Milano la protesta dei melomani più affezionati a causa del nuovo sistema di vendita dei tagliandi che li penalizza. «Così si favorisce il bagarinaggio su Internet»

L'interno del Teatro alla Scala di Milano visto dal loggione (Ansa)

Rimostranze e grida giovedì 13 settembre al Teatro alla Scala di Milano. Ma non durante un’opera al di sotto delle aspettative, bensì nella nuova biglietteria. A inscenare la protesta ancora una volta i più battaglieri e fedeli spettatori del tempio della lirica: i loggionisti. Temuti da direttori d’orchestra, cantanti e registi che non esitano a contestare dalle gallerie quando uno spettacolo non è all’altezza, se la sono presa in questo caso con i vertici del teatro. Responsabili di aver cambiato il sistema di vendita dei biglietti che, a detta dei loggionisti, li penalizza in modo pesante. E accusano la Scala di volerli silenziare. «Temono i nostri fischi se le produzioni non rispettano la fama indiscussa della Scala», racconta Renzo, settantenne e storico frequentatore del loggione che ieri mattina era fra i molti melomani inferociti per le novità introdotte dal teatro. E il dissenso è esploso sui social. «Trovo indegno quanto è successo – scrive su Facebook Anna, anche lei habitué delle gallerie –. Per cortesia ripensateci. Amiamo molto la nostra Scala».

Per capire che cosa ha scatenato l’ira dei loggionisti, occorre fare un passo indietro. Fino ai giorni scorsi, la vendita dei nuovi tagliandi iniziava alle 9 del mattino in biglietteria e soltanto a mezzogiorno su Internet. Uno “stile” che ha cementato l’usanza delle code notturne di centinaia di appassionati davanti alla biglietteria. Tradizione nobile: cinque, sei, sette ore in attesa per ottenere un biglietto, parlare di lirica, stringere amicizie. Dal 13 settembre le vendite avvengono alle 9 in contemporanea in biglietteria e sul web. Risultato? La signora Gabriella, arzilla affezionata del Piermarini, che è arrivata alle tre del mattino davanti al teatro per un biglietto di ScalaAperta dell’atteso Ernani di Verdi e che è stata la prima a giungere agli sportelli, si è trovata già presi i posti del loggione. E lo stesso è successo per le altre decine di persone che hanno aspettato ore fuori della Scala. Da qui la rivolta. Perché erano rimaste le poltrone più care di platea o palchi o quelle con visibilità limitata. Alla fine il teatro è stato costretto a sostituire alcuni tagliandi per i reclami, seppur con soluzioni di second’ordine.

I responsabili della biglietteria hanno giustificato la nuova strategia: si vuole evitare l’irruzione dei bagarini. «Tutto falso – replica Raffaello sui social –. Così si agevola davvero il bagarinaggio, ma quello online». E Anna aggiunge: «La vendita su Internet favorisce i bagarini che sentitamente ringraziano». Mattia, trentenne estimatore di opere, chiama in causa il sovrintendente Alexander Pereira: «Ha avuto iniziative egregie come la Scala Under 30 che avvantaggia i giovani o la ScalaAperta con i biglietti a metà prezzo, ma questa volta ha completamente sbagliato danneggiando il pubblico più assiduo e attento». È già pronta una petizione dei loggionisti che arriverà a Pereira e al sindaco Giuseppe Sala. Anche perché a ottobre si vendono i biglietti della prima del 7 dicembre, Attila, con file lunghissime di cultori della lirica disposti a stare anche quattordici ore in coda. Chissà che cosa accadrà...
Avvenire

Venezia. Il Tintoretto che annuncia l'apocalisse

Tintoretto, «Susanna e i vecchioni» (Vienna, Kunsthistorisches)
Il titolo della mostra alle Gallerie dell’Accademia nella sua didascalica semplicità – Il giovane Tintoretto – non lascia trapelare molto di ciò che si agita sotto. Questa prima sezione si completa a Palazzo Ducale (fino al 6 gennaio) con quella che, unendo le opere presenti sul posto a un’ampia antologica con altre provenienti da importanti istituzioni, diventa, come si dice nei comunicati stampa, la più completa allestita a Venezia dopo quella tenutasi nel 1937 sotto la cura di Nino Barbantini. E l’occasione per questo impegno espositivo è data dai cinque secoli dalla nascita di Tintoretto, che cadranno l’anno prossimo.
Roberto Longhi, quasi un decennio dopo, nel 1946, dà alle stampe il celebre Viatico per cinque secoli di pittura veneziana dove stilla tutta la sua antipatia per il grande pittore: «È più probabile che, specialmente da noi, si ammirasse nel Tintoretto più la bravura che la fantasia; che è sempre un buon pretesto per far passare l’accademia sotto specie di furia. Mi rammento che, dopo l’altra guerra, quando, nel distendere i teloni di San Rocco, si trovarono ripiegati sui bordi, non so che pezzi di frutta e foglie, non si mancò di clamare alla natura morta e a Cézanne. Si provò a fotografarli quei pezzi e le frutta andarono a male». È una delle stroncature celebri di Longhi (Canova, Fattori, De Chirico eccetera), ma che non vanno prese come giudizi critici, piuttosto come idiosincrasie. Volerne spiegare la ragione è come pretendere di svelare le cause inconsce di certi comportamenti umani: se si è fortunati tutt’al più si troverà qualche traccia rimossa di traumi infantili, ma non è detto che aiuti a vincere l’ostacolo. E l’infanzia di Longhi certamente fu piena di segreti interiori. Però ecco che da quelle perfide incomprensioni, che non impedivano a Longhi di ammettere le qualità straordinarie del pittore, venne qualche anno dopo anche la risposta di Rodolfo Pallucchini con un memorabile saggio, La giovinezza del Tintoretto, dove scioglieva l’odio di Longhi in ampie dosi di balsami e unguenti critici. Una lettura che oggi viene, in certo senso, ripresa e sviluppata dalla mostra dell’Accademia, propedeutica all’altra sezione sul Tintoretto maturo a Palazzo Ducale. Un duplice omaggio, cui sovraintende Gabriella Belli, che mette in luce soprattutto l’autonomia mentale e visiva di Tintoretto: si affaccia al mondo della pittura immerso nella realtà veneta, dove Tiziano domina per la virtuosa naturalezza del colore che dissimula sottopelle classicità e orgogliosa abilità esecutiva; poi, assimilando Vasari, media con la tradizione toscana del disegno senza soccombere, anzi come se pagasse volontariamente pedaggio per dimostrare a tutti che poteva anche farne a meno (ma gli fu assai utile per sciogliersi dal giogo tizianesco).
L’antipatia di Longhi sembra nascere da questa commistione fiorentina e veneziana del Tintoretto giovane che il critico probabilmente giudicava kitsch: la chimera Michelangelo- Tiziano, per capirci, che ingessava il naturalismo del colore veneziano rendendolo simile a un manichino. In fondo il punto in questione, che si può verificare sulle opere degli anni di formazione, quelli tra i Trenta e i Quaranta del secolo, è come Tintoretto assimili e si emancipi dai toscani (Schiavone, Sustris, Francesco Salviati, Vasari) spiccando il volo verso la sua misura. Una mente imma- ginifica come la sua, che fin dall’Autoritratto giovanile esposto a Palazzo Ducale e proveniente da Philadelphia, lascia intuire l’enorme determinazione e la forza con cui osservava il mondo (non fosse lui, si potrebbe considerarlo quasi un ritratto caravaggesco), era lecito pensare che tentasse il dritto per dritto nella direzione che aveva intuito come fuga verso la libertà e della grandezza espressiva. Ed è alla fine degli anni Quaranta che imbocca la strada che ne fa uno dei pittori rinascimentali che più hanno squarciato l’orizzonte della modernità. Una giovinezza, quella di Jacopo Robusti – per dirla con le parole di Longhi – «colma in principio di idee bellissime per favole drammatiche da svolgersi entro la scenografia di luci e ombre rapidamente viranti». Perché solo “in principio” e non et nunc, et semper, et in saecula saeculorum? Amen. Perché a questo in effetti Tintoretto aspira e ci promette. La ricerca di un movimento che non è solo interno alla forma, ma totale, senza distinzioni fra dentro e fuori; come nello strepitoso quadro Susanna e i vecchioni del Kunsthistorisches di Vienna, che ogni volta che lo guardo mi pare il distillato ante litteram di tutte le idee di spazio dina- mico – terza quarta quinta dimensione –, dei secoli moderni. E si rafforza in me la convinzione che Tintoretto fosse molto molto avanti sui tempi: che in lui si trovino i germi di Caravaggio e Rembrandt, di Serodine e Ribera, ma anche Géricault, Courbet e Manet, per non dire, se stiamo alla questione spazio-temporale, del Picasso post cubista nelle sue addizioni primitiviste e plastiche fra le due guerre. Un azzardo critico? Può darsi, ma non così tanto poi. Basti pensare, per esempio, al Cristo che nella Cena di Emmaus (1543) conservata a Budapest, stringe in pugno il pane da spezzare come fosse il cranio su cui Shakespeare fa confessare ad Amleto il suo dubbio.
A Palazzo Ducale sono esposti alcuni disegni di nudo provenienti dalla Courtauld Gallery di Londra e dal Museo Boijmans Can Beuningen di Rotterdam nella cui sprezzatura grafica, la segmentazione del tratto, lo spasmo che comunicano come l’impulso elettrico nel corpo dell’anguilla cui si sia recisa la testa, si avverte una verità esistenziale che ce li rende contemporanei, aderenti al nostro sentire. E va ricordata l’altra notazione di Longhi, quando scrive che Tintoretto predisponeva un teatro di manichini col quale metteva alla prova i suoi «canovacci luministici». Non siamo già alla camera oscura del Caravaggio? Saranno vent’anni e più da una mostra ferrarese ideata da Andrea Emiliani all’insegna del “parlar disgiunto” di Torquato Tasso in contrappunto pittorico con Tiziano. E se la mostra celebrava la Trasfigurazione proveniente dalla veneziana chiesa di San Salvador, tutta l’energia nello spazio espositivo si staccava da Tiziano per confluire nell’Ultima cena del Tintoretto, che aveva l’ampiezza e la terribilità di un sisma dentro il ventre dell’universo, un bouleversement totalche annunciava l’apocalisse. L’impostazione della grande tela, conservata a Venezia nella chiesa di San Giorgio Maggiore, stravolge tutte le tradizionali composizioni del tema: la lunga tavolata a cui siedono gli apostoli attorniati da altri servitori alacremente all’opera, corre in diagonale per tutto il dipinto, e Cristo non è in primo piano ben visibile allo spettatore, ma in fondo all’estremo opposto, a braccia aperte come punto cardine di tutte le forze che muovono i “manichini” umani in attesa della fine dei tempi. Tintoretto sembra dirci che l’Ultima cena precede il Golgota nell’orologio che segna il tempo della fine. Bisogna notare, a proposito di anticipazioni, gli angeli che sembrano procombere sulla scena, come poi accadrà in Caravaggio (per esempio, Le sette opere di misericordia o il Martirio di san Matteo).
Una rivoluzione annunciata già nella grande tela San Marco libera lo schiavo dal supplizio della tortura (1548) che rappresenta il punto di non ritorno dalle esperienze di formazione e inaugura il cammino travolgente del Tintoretto ormai sicuro dei propri mezzi e del proprio orizzonte, che eccelle in tutti i generi: nel ritratto, nelle scene sacre e mitologiche, nei quadri che celebrano i potenti di Venezia (i numerosi affreschi di Palazzo Ducale e il celebre, vastissimo, Paradiso che è un’allegoria sacra ma anche del governo regale e temporale), e persino nei dettagli di “cose” e “animali” che dispone nello spazio. Un innovatore nella ritrattistica, i cui fondi scuri illuminarono certo Caravaggio quando passò da Venezia. Dalle proprie effigie che ci consentono di misurare la cognizione di sé che il pittore aveva col trascorrere degli anni (fino a quel dipinto del 1588, pochi anni prima della morte, dove ha ormai l’aspetto di un vecchio saggio sul cui volto si è impressa, filo di barba su filo di barba, una vita febbrile e combattiva, da sciamano del visibile), ai numerosi ritratti di signori, potenti e nobildonne, fra i quali è difficile dimenticare il Ritratto di una vedova proveniente da Dresda.
da Avvenire

Ritrovate a Como 300 monete d'oro romane

Scavi in un cantiere, ritrovate a Como 300 monete oro romane © ANSA

E' un 'tesoro' di 300 monete d'oro d'epoca romana in un'anfora, perfettamente conservate, probabilmente del IV secolo d.C. o di prima epoca bizantina, quello venuto alla luce mercoledì pomeriggio a Como, a circa un metro di profondità, durante lo scavo sull'area di un ex cinema e, prima, ex convento, per la realizzazione di una palazzina in via Diaz, in pieno centro storico.
    Della vicenda si sta occupando la Sopraintendenza ai Beni archeologici di Milano, che ha fermato i lavori nel cantiere nel punto del ritrovamento, del potenziale valore di milioni di euro. "Como è stata fondata dai romani ed è naturale trovare reperti, ma questo potrebbe essere uno dei tesoretti romani più importanti mai ritrovati" ha spiegato al quotidiano il presidente della società Archeologica di Como Giancarlo Frigerio. "La zona del ritrovamento ospitava le abitazioni private dei nobili romani, l'anfora potrebbe essere stata nascosta nei muri della casa per evitare furti, probabilmente all'epoca delle invasioni".
   
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Scoperto il segreto dell'olio extravergine di oliva, rilascia una proteina proteggi-cuore

Scoperto il segreto dell'extravergine, rilascia una proteina protettiva © Ansa

Ecco perché l'olio extra-vergine fa bene al cuore e alla salute cardiovascolare in generale: aumenta una proteina nel sangue - chiamata ApoA-IV - che tiene a bada le piastrine, le cellule che servono a evitare emorragie ma che, se si aggregano impropriamente, possono portare a trombi (bloccare la circolazione del sangue) e quindi anche all'infarto o all'ictus.
Lo rivela una ricerca pubblicata sulla rivista Nature Communications. I livelli di ApoA-IV nel sangue aumentano con l'ingestione di cibi che contengono grassi insaturi come, appunto, l'olio extra-vergine.
Esperti del canadese St. Michael's Hospital a Toronto hanno dimostrato che ApoA-IV riduce la capacità delle piastrine di aggregarsi e formare pericolosi trombi che occludono le arterie.

I ricercatori hanno scoperto l'esatto meccanismo con cui la molecola si lega a un recettore sulle piastrine impedendo loro di aggregarsi. Il meccanismo è importante perché è anche protettivo cont orla formazione delle placche di arterosclerosi, perché anche questo processo è legato alla funzione delle piastrine. Secondo gli esperti le nuove conoscenze acquisite su ApoA-IV potrebbero portare a nuove terapie preventive e protettive per la salute cardiovascolare.
   
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Turismo. Maleducazione, incidenti. E se la montagna chiude?

Il massiccio del Monte Bianco visto da Saint-Gervais-les-Bains

Il massiccio del Monte Bianco visto da Saint-Gervais-les-Bains
«La montagna è fatta per tutti, non solo per gli alpinisti: per coloro che desiderano riposo nella quiete come per coloro che cercano nella fatica un riposo ancora più forte». Quando, nel 1914, ha scritto “Alpinismo acrobatico”, Guido Rey, alpinista e tra i massimi scrittori di montagna, certo non pensava che un secolo dopo ci sarebbe stato bisogno di mettere il “numero chiuso” al Monte Bianco, per contenere l’assalto di alpinisti-turisti, spesso impreparati, che si avventurano verso i 4.810 metri della vetta d’Europa, magari in pantaloncini e scarpette da passeggio. Una massa di gente che, con impressionante frequenza, si caccia nei guai. Soltanto quest’estate si sono contati circa settanta morti sull’intero arco alpino, mentre da maggio a settembre, il Soccorso alpino ha recuperato 125 vittime.
Una vera e propria strage che in Francia cercano di prevenire contingentando gli accessi a sentieri e ghiacciai. Ma è davvero possibile e, soprattutto, è giusto chiudere le montagne, anche per una ragione di sicurezza? Montagna e libertà salgono ancora in cordata, oppure il binomio è messo in crisi dall’aumento imponente dei fruitori delle Terre alte? «La montagna è libertà, ma l’altra faccia della libertà è la responsabilità», ricorda Vincenzo Torti, presidente generale del Club alpino italiano, che ha recentemente attivato un Osservatorio sulla libertà in montagna.
«Anche la montagna – ricorda Torti – è attraversata dalle mode e questo fa sì, per esempio, che tutti si concentrino su poche mete. Come Cai, invece, cerchiamo di educare a una fruizione consapevole della montagna, anche attraverso la promozione di cime alternative, magari meno conosciute ma non per questo meno affascinanti, con l’intento di distribuire gli appassionati sul territorio. Ed evitare ingorghi pericolosi. Per chi si caccia nei pasticci ma anche, è bene ricordarlo, per chi è poi chiamato a recuperare questi sprovveduti, come i nostri tecnici del Soccorso alpino».
Contrario a qualsiasi ipotesi di chiusura è la guida alpina e scrittore Alessandro Gogna, che sul suo gognablog. com, ha spesso affrontato il tema della libertà in montagna ed è stato tra gli ideatori dell’Osservatorio del Cai. «Mettere dei divieti, delle limitazioni alla frequentazione cambia i connotati stessi della montagna – osserva Gogna –. Da luogo selvaggio, contrapposto e alternativo alla vita cittadina, si trasforma in qualcosa d’altro, perdendo, appunto, la sua caratteristica principale che è la libera espressione di chi la vive. Per questo rifiuto e respingo qualsiasi limitazione della libertà in montagna.
Piuttosto, sono per una forte azione culturale che faccia capire che il Monte Bianco non è alla portata di click. Anziché reprimere, serve educare». Nel frattempo, però, qualche contromisura bisogna pur prenderla, almeno per «organizzare» un alpinismo che, secondo Reinhold Messner, è definitivamente cambiato, diventando a tutti gli effetti turismo di massa. «Sul Monte Bianco – spiega il Re degli Ottomila – ogni giorno centinaia di persone salgono, in fila, sulla pista che porta alla cima. Questo non è più alpinismo, in senso classico, ma diventa, appunto, “alpinismo da pista”. Che, come avviene, per esempio, nello sci, deve essere organizzato e regolamentato.
Altro è, invece, l’alpinismo tradizionale, di avventura e scoperta nella natura, dove ci deve essere posto per tutti e che deve essere liberamente fruibile da tutti. Sono contrario alla chiusura delle montagne, ma dico anche la montagna non regge più la massa enorme di gente, spesso impreparata, che la vuole salire. Per questo condivido la decisione della Francia, che ha scelto di limitare l’accesso per aumentare la sicurezza».
Avvenire

A Noto, nasce la friggitoria gourmet “Mar ricriu”, per fritture da asporto.



L’imprenditore Francesco Nifosi: Il mix di farine per la panatura e i prodotti rigorosamente a km 0, alla base del successo del locale.

Dallo scorso 20 luglio, la città di Noto in provincia di Siracusa, patria del barocco siciliano, si è arricchita di una nuova realtà gastronomica: la friggitoria gourmet “Mar ricriu”, situata in pieno centro storico.
In cucina lo chef Mattia Nastasi, giovanissimo, solo 28 anni, ma già conosciuto in tutta Europa per le sue innovazioni culinarie.
Per la pastella del suo fritto di pesce, fiore all’occhiello del “Mar ricriu”, assolutamente da non perdere, lo chef Nastasi, utilizza un impasto di due farine di mais e riso, in proporzioni “segrete”, che rendono la frittura non solo molto saporita, croccantissima e digeribile, ma anche bella da vedersi nei colori del sole siciliano. “L’attenta preparazione della panatura – affermano con orgoglio i proprietari, gli imprenditori Andrea Moltisanti e Francesco Nifosi - che avvolge i gioielli del mare appena pescati, la fa da padrone, ed un occhio di riguardo è riservato alla presentazione di tutte le nostre leccornie”.
Il locale specializzato soprattutto in fritto da asporto servito nel tradizionale “coppo”, offre ai clienti che desiderano soffermarsi, anche un patio interno dove poter gustare le specialità della friggitoria.     
 “ Si può amare od odiare – dice Moltisanti- ma la scottante frittura di pesciolini, calamari del mediterraneo, seppioline e gamberetti accompagnate da bollicine che siano di un ottimo vino frizzantino bianco o di una spumeggiante birra artigianale tutto rigorosamente a km zero, bisogna assaggiarla…”
 Per la frittura è usata la massima attenzione: tutto è gluten free e rigorosamente senza olio di palma..
 ‘Mar ricriu”  ha pensato anche ai più piccoli con un menù a loro dedicato, con le specialità    “’ Pe picciriddi”  come ad esempio i classici nuggets di pollo panati, amatissimi dai bambini o la mitica “  ‘turciniata” una patata tagliata a spirale con buccia.
 A completare il viaggio nel gusto fra il Barocco  di Noto e il concetto gastronomico di ‘Mar ricriu”  c’è il dessert, in siciliano, i cosiddetti “cosi aruci” che si sposano benissimo con un ottimo passito siciliano, come quello proprio prodotto a Noto o di Pantelleria.
Anche se è nata solo da pochi giorni, la friggitoria gourmet “Mar ricriu”, è diventata un punto di riferimento per i buongustai locali e della Provincia e per i numerosi turisti che durante tutto l’anno affollano la città del barocco.
https://www.facebook.com/marricriu/

A Tulsa (Usa) sorgerà Centro Bob Dylan, con oltre 100 mila oggetti artista

Bob Dylan © ANSA

TULSA - Un centro di documentazione in onore di Bob Dylan sarà costruito a Tulsa, negli Stati Uniti, e conterrà oltre 100 mila oggetti, che hanno accompagnato la vita personale e artistica del cantautore, premio Nobel 2016 per la Letteratura. Ad annunciarlo ufficialmente le autorità della cittadina dell’Oklahoma, citate dalla stampa locale. Il centro, che aprirà nel 2021, esporrà manoscritti, appunti, lettere originali del grande artista, oltre che film, video, fotografie, documenti e effetti personali, registrazioni di concerti e di prove in studio, strumenti musicali.
La struttura sarà edificata nel centro artistico di Tulsa, in Martin Luther King Boulevard, vicino al Centro di Woody Guthrie (altro immenso cantautore) e della cultura indiana americana, e sarà totalmente dedicata allo studio di Bob Dylan e della sua importanza culturale nella storia degli ultimi sessant’anni. Ospiterà mostre permanenti e temporanee e collaborerà con due istituti già esistenti: l’Archivio di Bob Dylan, ospitato ora all’Helmerich Center for American Research, sempre a Tulsa e accessibile solo agli studiosi, e l’Istituto per gli Studi di Bob Bylan all’Università di Tulsa.
Bob Dylan, nel 2016, ha scelto Tulsa come sede per i suoi archivi, in quanto la città aveva costruito nel 2013 il Centro Woody Guthrie. “Sono felice – aveva detto – che i miei archivi hanno finalmente trovato una casa, insieme ai lavori di Woody Guthrie e al prezioso materiale delle tribù degli indiani nativi americani. Per me ciò ha un grande significato e costituisce un motivo di onore”.

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La Visitazione di Pontormo alla Morgan

Pala d'altare del maestro del manierismo dopo NY al Getty © ANSA
 NEW YORK -   Uno dei più importanti dipinti del manierismo italiano, la Visitazione di Jacopo Pontormo della Pieve dei Santi Michele e Francesco a Carmignano, è arrivato negli Usa. Organizzata in collaborazione con gli Uffizi di Firenze e il J.Paul Getty Museum in Los Angeles, la mostra "Pontormo: Miraculous Encounters" ha aperto oggi alla Morgan Library di New York ponendo fino al 6 gennaio la pala d'altare nel contesto di altre opere di Maestro Jacopo, dell'iconografia della Visitazione, le sue origini, l'interpretazione e il mecenatismo. Alta più di due metri, la Pala ritrae l'"incontro miracoloso" tra Maria e Elisabetta, ambientando la scena biblica nelle strade della città dove Maria era andata a trovare la cugina. Eliminati tutti gli aspetti della narrazione, il pittore si concentrò sull'abbraccio delle due donne affiancate dalle rispettive ancelle. Sullo sfondo, attività quotidiane di vita cittadina, due commercianti che chiacchierano, una donna che stende i panni dalla finestra di un palazzo, un asinello che fa capolino da dietro un angolo: "Tutti dettagli emersi con chiarezza nel restauro di Daniele Rossi", spiega all'ANSA Bruce Edelstein, professore della New York University a a Firenze e co-curatore della mostra. Rossi, lo stesso restauratore che è tornato a far brillare Pontormo nella Cappella Capponi di Santa Felicita a Firenze, ha riportato in luce elementi spirituali e materiali di un incontro che si staglia sullo sfondo di un paesaggio metafisico ante litteram: secondo gli esperti della Morgan, ricorda opere ben più contemporanee, da de Chirico a Bill Viola nel video The Greeting (1995). Tranne una puntata a Firenze per le mostre medicee del 1980, la Visitazione non era finora mai uscita dalla Pieve per cui era stata commissionata dalla famiglia Pinadori, oppositori dei Medici. Ha viaggiato negli Usa grazie al fatto che è stato necessario restaurarla. Con la grande tavola, sono in mostra da oggi a New York l'unico disegno preparatorio conosciuto e il "Ritratto di Giovane con il Cappello Rosso" riscoperto nel 2008 in una collezione privata londinese. La Visitazione resterà negli Usa fino alla primavera avanzata: sarà esposta al Getty di Los Angeles dal 5 febbraio al 28 aprile. E intanto ieri, proprio dalla Casa Italiana Zerilli Marimò della New York University, è partito un crowdfunding, per aiutare i carmignanesi a riabilitare l'intero complesso della Pieve, creando un polo Pontormo fuori da Firenze.  
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Arte. Bathus, un enigma fra tempo sospeso e sfrontata innocenza


Balthus, «La rue» (1933, particolare)
Balthus, «La rue» (1933, particolare)
Come si guarda un quadro di Balthus? La domanda non è oziosa, perché è nei fatti il cuore della pittura stessa di Balthus, quell’elemento che lo sposta dalla banale contrapposizione tradizione-avanguardia e lo colloca nel pieno della modernità. A quale tentazione dobbiamo resistere o cedere? Il riconoscervi l’espressione di una pulsione morbosa, persino pedofila, com’è stato a volte insinuato (ipotesi per altro rigettata dall’artista)? Il negarla in favore di soluzioni formali, filosofiche, estetiche? È il nostro sguardo o quello dell’artista? L’ambiguità inestricabile è la trappola tesa attraverso una pittura magnetica e magistrale da Balthus con pazienza sorniona – lui che nel-l’autoritratto del 1935 si autoproclama “re dei gatti” – trasformando ogni sua tela in uno specchio (un altro refrain del suo repertorio visivo) che restituisce il profondo.
La Fondazione Beyeler a Basilea fino al 1° gennaio 2019 propone una mostra – quaranta quadri, tra cui punti fermi come La toilette de Cathy e La Rue del 1933, La jupe blanche (1937), Les Enfants Blanchard (che fu acquistato da Picasso) del 1937, Thérèse e Thérèse revant (1938), Les Beuax Jours (194446), La Partie de cartes(1948-50), il monumentale Passage du Commerce-Saint-André (1952-54), La Chambre turque ( 1965-66) – che attraversa l’intera carriera del pittore, il cui vero nome era Balthasar Klossowski de Rola. Sebbene sia nato a Parigi (nel 1908) e a Parigi avrebbe nella maturità frequentato i principali artisti, scrittori e intellettuali, la sua formazione e le sue scelte culturali lo incardinano nell’asse che dalle regioni centrali scende verso l’Italia. I genitori sono di origine polacca; trascorre l’infanzia tra Berlino, Berna e Ginevra; il poeta Rainer Maria Rilke è amante della madre e mentore del giovane Balthasar; il viaggio in Italia che compie a metà degli anni 20, dove scopre Piero della Francesca e Masaccio è per lui di fondamentale importanza. Anche per una sorta di snobismo aristocratico rifiuta le avanguardie per ancorarsi alla nobiltà della tradizione con lo stesso spirito modernista che si riconosce in Italia a pittori come Casorati e Carrà. In un certo senso gran parte del suo lavoro può rientrare nella famiglia del realismo magico; e se Balthus appare interessato a quella naïveté incongrua e bambocciante del Doganiere, seppure virata di segno, che tanto affascinò gli italiani, sono indubbi negli anni 30 i punti di contatto con la cruda ipersensibilità dalla Nuova Oggettività tedesca.
Il fatto è che la pittura di Balthus è estremamente colta e insieme personalissima: ai corpi come solidi di Piero si intrecciano rimandi a Poussin, al Quattrocento tedesco, Manet e Cézanne, le bionde veneri di Tiziano, diffusi echi caraveggeschi, moltissimo Picasso (esplicito omaggio all’amico pittore è Le Rêve II del 1956-57) o ancora Matisse… Sono illuminazioni iconografiche, spunti stilistici, colori e patine. Il puzzle di citazioni allestito da Balthus nei suoi quadri è completato da rimandi all’infanzia e soprattutto alla dimensione magica, a partire dall’amata Alice in Wonderland di Lewis Carroll (una storia simbolica e misteriosa di iniziazione e passaggio) ma anche le illustrazioni popolari dei racconti di Struwwelpeter, raccolta nota in Italia come Pierino Porcospino, dove – come nella migliore tradizione della fiaba tedesca – il moraleggiante si intreccia con il fantastico e l’orrore. A fronte della vastità della cultura visiva, i dipinti di Balthus sono costruiti su un lessico curiosamente ridotto che si definisce subito, fin dalla fine degli anni 20, in figurine che da marginali finiscono per diventare protagoniste del quadro, in un complesso meccanismo di autocitazioni. È per esempio il caso dei bambini reclinati nell’atto di giocare ai bordi di una fontana o mentre raccolgono una palla da tennis nell’erba che diventeranno i motori formali delle grandi composizioni, applicati come in un sistema di permutazioni anche al di là del primitivo rimando all’infanzia, come ad esempio per il baro della Partie des cartes.
Balthus dipinge solo bambini o anziani. Salta l’età di mezzo. I suoi corpi rallentano fino a sfiorare l’immobilità. È l’eco di Piero, ma la luce non è cristallina quanto invece melanconica e l’umore intorbidito. Le sue figure più che fuori dal tempo (non si pongono in una posizione metafisica) si collocano in una sospensione del tempo, un istante la cui durata è estesa fino al punto di sfuggire alla legge fisica. Una lentezza applicata da Balthus al suo lavoro, che procedeva con estrema calma. «Davvero lentezza e ritardo, e la pazienza a essi associata – scrive Raphaël Bouvier nel suo testo in catalogo – giacciono al cuore della sua pratica artistica». In sette decenni di carriera le tele di Balthus sono solo 450 circa. Ma soprattutto quello eternato è spesso un momento di apparente instabilità o scomodità. Pierre Klossowski parla di «immobile pantomima», indicando una matrice teatrale nel lavoro del fratello, ma è centrale e pervasiva anche la dimensione del sogno, dove i limiti dello spaziotempo saltano e le regole vengono sovvertite. Balthus, come ricorda Bouvier, «definisce le immagini ge- neralmente in termini temporali, come l’incapsulamento di “un’innocenza che viene finalmente colta, un momento strappato dal disastro del tempo che passa”». L’artista era nato il 29 febbraio: «L’ho sempre notato con un pizzico di ironia, – diceva – come un marchio di stranezza ». Un fatto sottolineato da Rainer Maria Rilke, che così scriveva al giovane pupillo: «A mezzanotte un varco sottile si apre sempre tra il giorno che è finito e quello che comincia, e una persona molto agile e capace di scivolarci dentro riuscirebbe a sfuggire al tempo. È lì mio caro B..., che tu dovresti insinuarti nella notte del 28 febbraio ». La frase di Rilke dovette restare impressa nell’artista. Il fatto è che Balthus dipinge esattamente quel punto in cui una cosa non è più e non ancora, esattamente come nella luce del crepuscolo, quando non è più giorno e né è già notte, il tempo è sospeso. Balthus sembra dipingere le sue bambine proprio nel passaggio in cui infanzia e pubertà coincidono e quindi si annullano reciprocamente. Anche questo è un momento di sospensione: della vita.
Bathus, «Thérèse» (1938, particolare)
Bathus, «Thérèse» (1938, particolare)
L’innocenza delle bambine di Balthus è in un certo senso preadamitica: non conosce il bene e il male, il lecito e l’illecito, il morale e l’immorale – non perché non li compiano (un bambino può uccidere una lucertola con un sadismo che lascia interdetto un adulto) ma perché non ha la coscienza dell’atto. L’innocenza dei bambini non è ingenuità, è uno stato di immunità. I gatti che fanno capolino nei quadri, alter ego del pittore, sono una presenza diabolica come il serpente nel giardino: ma insidiano le bambine o lasciano cadere la goccia del dubbio sul nostro sguardo e quindi sulla nostra coscienza? La sospensione del tempo può essere sospensione di giudizio? Lentezza, mistero, ambiguità, noia, carattere: nell’essere un nodo inestricabile i quadri di Balthus sono allora tutti autoritratti. C’è l’artista nella figura volitiva di Thérèse, protagonista di un dittico superbo. Bambina altezzosa e sfrontata, magnetica e inquietante, innocente e tentatrice Thérèse è la pittura stessa di Balthus.