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Rassegna a Perugia. Arte. Bolle di sapone. Il gioco e la vanitas

«Le conquiste di Napoleone» (disegno satirico d'epoca, particolare).
Avvenire

Un bus nella periferia di Milano viaggia apparentemente tranquillo con a bordo cinquantuno ragazzini. All’improvviso l’ombra della tragedia si stampa sulla vettura: l’autista, senegalese, minaccia di uccidere tutti i bambini come gesto cruento verso la politica del governo italiano su chi arriva dal mare: «Oggi da qui non esce vivo nessuno», dice, dopo aver cosparso di benzina il bus. Tutto sembra appeso a un filo, ma la prontezza di alcuni ragazzini del bus che non si sono fatti prendere dal panico e l’intervento delle forze dell’ordine sventa l’epilogo funesto. Tutti vivi e fieri del modo con cui sono stati protagonisti nello sconfiggere la minaccia (con tanto di comparsate televisive del tipo “che fenomeni!”). Sarebbe quasi un apologo a lieto fine se non fosse tutto vero. Tre giorni dopo mi trovo sulla strada verso Perugia quando una persona a me cara mi invia un sms tristissimo dove mi dice che due ragazzi di Bologna, due fratelli di una famiglia keniota da molti anni in Italia, sono morti cadendo dall’ottavo piano di un condominio nella periferia. Andavo a Perugia per vedere la mostra di cui oggi parlerò, il cui tema “figurativo” sono le bolle di sapone come simbolo della relazione tra vanitas arte e scienza e come “forma dell’utopia”. Il fatto è che all’origine di quel gioco, che prese piede proprio fra i bambini, quando nel XVI secolo si diffuse il sapone in Europa, c’è un’allegoria tragica: quella dell’uomo bolla che già lo scrittore latino Marco Terenzio Varrone, nella seconda parte del II secolo a.C. aveva così sentenziato: «L’uomo è una bolla, tanto più se è vecchio» e a lui s’ispirò Erasmo diciassette secoli dopo quando negli Adagia ribadiva: «Homo bulla est», motto che, scrive nel catalogo (Silvana) Veruska Picchiarelli stilando la scheda del dipinto di anonimo olandese Quis evadet?, avrebbe fatto da viatico all’iconografia dell’uomo bolla che si affermerà proprio in quel secolo, il Cinquecento. 
Questo lo schema iconografico riassunto dalla studiosa: «Un putto sorridente intento a soffiare bolle di sapone, apparentemente ignaro di essere condannato a durare poco più delle sfere iridescenti prodotte nel suo gioco, come ammonisce l’iscrizione “Homo bulla” vergata alle sue spalle». Il titolo dell’opera infatti chiede: “chi sarà risparmiato?”. La domanda, pensando ai due fatti da cui ho iniziato questa nota, è raggelante. In un caso tutti salvi, nell’altro due ragazzini che fanno un volo di quasi trenta metri e si schiantano al suolo (e forse, come pare, per un fatale incidente, occorso perché, messi in punizione dal padre, stavano cercando di “evadere” attraverso la fuga rocambolesca da un balcone). In un caso, dunque, l’esile filo di fumo che siamo regge il peso del fato mentre nell’altro si spezza. Un segreto scritto nell’iconografia antica delle bolle di sapone. 
Nella mostra di Perugia un bel dipinto attribuito all’olandese Gerrit Dou, attivo in pieno Seicento, raffigura Due ragazzi che soffiano bolle di sapone di cui, come scrive Carla Scaglioni, esiste una replica databile circa alla metà del secolo, che aveva a pendant il ritratto di un fumatore (tabacco e sapone arrivarono in Europa più o meno contemporaneamente tra XV e XVI secolo). Per questo, osserva la studiosa, la valenza allegorica sembra certa e allude alla transitorietà della vita e alla vanitas dei godimenti terreni. L’accostamento fra bolle di sapone e fumo «elementi inconsistenti e fugaci, legati alla metafora della dissoluzione della materia (e del corpo) e quindi della morte» non è affatto casuale. Dou, da almeno mezzo secolo, è considerato l’inventore di questo soggetto dei due ragazzini (e varianti) che poi ha ispirato altri pittori arricchendosi di molteplici elementi iconografici. E il tema incontrò parecchio il gusto dell’epoca e a seguire, se è vero che, come osserva ancora Carla Scaglioni, se ne trovano altri esempi fino agli inizi del Settecento. In mostra lo si ritrova in un dipinto di Domenicus van Tol, dove compare in primo piano un cane addormentato, e in quello di Pieter Cornelisz proveniente dagli Uffizi.
Karel Dujardin, «Ragazzo che soffia bolle di sapone» (1663, particolare)
Karel Dujardin, «Ragazzo che soffia bolle di sapone» (1663, particolare)
D’impostazione diversa, ma splendido per contrappunto fatale fra la bolla di sapone tenuta da un ragazzo nella mano sinistra e quella, ancor più grande, collocata nella valva di una conchiglia su cui si regge in equilibrio, il quadro di Karel Dujardin. Ispirato probabilmente al Cristo Bambino stante sul Globo di Antoon Van Dyck, è un’«allegoria della transitorietà e della brevità della vita umana». Dujardin, olandese che soggiornò negli ultimi tre anni di vita in Italia, dove morì a Venezia, era pittore colto, forse anche membro dell’Accademia di pittura di Haarlem, come ricorda Veruska Picchiarelli; il sorriso del ragazzino dai capelli biondi con tanti boccoli, osserva la studiosa, è un segno manifesto della sua incoscienza: «volgendo le spalle al porto e allontanandosi dalla riva, egli ride mentre gioca a soffiare bolle di sapone e non si accorge delle minacciose nuvole all’orizzonte e del mare sempre più increspato, ad annunciare una tempesta della quale è scontato l’esito». 
Ma ecco la morale: il fascino iridescente dei colori corruschi che la superficie della bolla cattura, incanta e spinge l’uomo, per amor di meraviglia e di bellezza, a sfidare la propria precarietà, quasi dimenticandosene. Più o meno nella stessa epoca Newton studiava le rifrazioni dei raggi sulle bolle di sapone, approfondendo i problemi dell’ottica e segnando la strada all’utilizzo sperimentale delle lamine saponate che nell’Ottocento, come ricordaMichele Emmer, saranno un modello empirico per affrontare vari problemi matematici e fisici. Ma non è qui che la bolla di sapone trova la sua piena collocazione nella conoscenza; essa resta allegoria della nostra finitezza e dell’essere la vita una realtà soffice, delicata e quasi inafferrabile nel suo alito; allo stesso modo della materia lieve da cui nasce, gonfiandosi di un respiro, il miracolo di una bolla che sotto la luce riflette il mondo sul quale si eleva. È davvero il miracolo della vita, la sua eterea ma potente sostanza pneumatica, che dovrebbe spingerci non soltanto ad avere di essa una considerazione retta sulla prudenza, per quanto protesa nell’azzardo, ma anzitutto a proteggerne la durata. Quanto più l’essere è fragile tanto più è prezioso e il modo di trattarlo deve esserne consapevole.
Cagnaccio di San Pietro, «Bolla di sapone» (1927)
Di quello che era un “caso serio” vestito di un’apparenza ludica si è persa con l’avanzare della modernità e con l’imporsi delle forme pubblicitarie la sostanza tragica, che pure resta intonsa nel significato simbolico (i bambini giocano con la meraviglia, ma anche loro vedendo le bolle che salgono verso il cielo e a un certo punto scompaiono vanificando la materia di cui son fatte, provano rammarico, ed è giusto che sia così, che generi in loro un dispiacere infantile da allontanare subito dopo con un nuovo soffio dentro la cannuccia). Tra Otto e Novecento le bolle di sapone diventano attributo di leggiadre signore, come fanno vedere i dipinti di Ranvier e Carcano, o le réclame di saponi industriali, dove magari (è il più spiritoso e meno scontato) Lancillotto trafigge una bolla che tuttavia pare immune dal suo fil di spada, come si vede nella pubblicità del sapone Paff-Seife disegnata da Maga. C’è ancora un’ombra di tragicità invece nel dipinto di Max Beckmann immerso nella pesantezza di un pensiero triste e malinconico; che diventa humour nero nella pipa da cui esce una grande bolla in Ce qui manque à nous tous di Man Ray (e qualcosa, forse, fa eco l’ampolla da chimista cui Duchamp impose il titolo Aria di Parigi). Durezza contro fragilità: la bolla di sapone ingaggia la sua lotta vittoriosa nel segno della libertà che vola oltre i muri, nella fotografia di Günter Zint Il ragazzo che vive nei pressi del Muro( 1963). Il bambino col suo alito genera decine di bolle, mentre sul Muro si vedono in grande le lettere KZ: era già la sigla di un campo di concentramento berlinese nel quale le SS rinchiudevano prigionieri destinati a fare il lavoro di sgombero delle macerie dopo i bombardamenti. Nella storia, come si sa, tout se tient, e una bolla di sapone può essere più forte di un muro di segregazione. 

Mostra / Reportage. Ellis Island, la porta del «nuovo mondo»... quando i migranti eravamo noi

Ellis Island, la porta del «nuovo mondo»... quando i migranti eravamo noi
avvenire

Annie Moore arrivò il 1° gennaio 1892 dopo una lunga traversata sull’oceano. Si era imbarcata due settimane prima su una nave a vapore partita da Cork, nell’Irlanda meridionale. Quel giorno, nell’isoletta alle porte di New York, si respirava aria di festa. Il centro immigrazione era stato appena inaugurato e si preparava ad accogliere i primi emigranti in arrivo dal Vecchio Continente. Possiamo immaginare lo stupore e la felicità di quella 17enne irlandese quando il capo degli ispettori, John Weber, le consegnò una moneta d’oro da dieci dollari aprendole le porte del sogno americano. Una statua in bronzo all’interno del Museo nazionale dell’immigrazione di Ellis Island la ricorda oggi come la prima emigrante arrivata qua alla ricerca di una vita migliore. Dopo di lei sarebbero sbarcati altri dodici milioni di uomini, donne e bambini in gran parte europei, tantissimi dei quali italiani. 
Annie Moore è diventata un simbolo di quell’emigrazione epocale iniziata nella seconda metà dell’Ottocento, sebbene uno studio recente abbia accertato che negli Stati Uniti non trovò mai la fortuna che cercava. Trascorse il resto della sua vita in povertà in un sobborgo di New York e morì poco più che 40 enne a causa di un attacco cardiaco, dopo aver seppellito cinque dei suoi undici figli, sfiniti dalle malattie e dalla denutrizione. 
Per oltre sessant’anni Ellis Island è stata la porta d’accesso al “nuovo mondo” e visitandola oggi è quasi impossibile non volgere il pensiero a chi, anche ai giorni nostri, è costretto a intraprendere viaggi simili, e vede spesso i suoi sogni sfociare nella disillusione. Un secolo fa questa era l’isola della speranza, nota anche comel’isola delle lacrime perché in tanti vi conobbero umiliazioni, deportazioni, respingimenti. Le famiglie qui potevano ricongiungersi oppure finire fatalmente divise da un destino crudele. 
La Statua della Libertà è così vicina che sembra quasi di poterla toccare. I grattacieli di Manhattan spiccano all’orizzonte lasciando immaginare la carica emotiva di chi arrivava qui dopo un’interminabile traversata oceanica. L’edificio principale di Ellis Island, in mattoni rossi con quattro torrette all’esterno, è stato interamente restaurato e aperto al pubblico nel 1990 e ospita oggi l’unico museo statunitense che documenta la storia dell’immigrazione dall’era coloniale ai giorni nostri. Ogni anno viene visitato da oltre quattro milioni di persone perché quasi la metà degli attuali abitanti degli Stati Uniti ha almeno un familiare passato dalle sue stanze.
Nel 1892 questa isoletta artificiale costruita con i detriti degli scavi della metropolitana di New York venne trasformata in un centro di ispezione per i migranti in arrivo negli Stati Uniti. Cinque anni dopo l’edificio principale finì distrutto da un incendio ma fu ricostruito e ampliato con nuovi spazi aggiunti per adeguare l’isola al crescente transito di persone provenienti da ogni parte del mondo. Le loro storie, in gran parte anonime, prendono forma al primo e al secondo piano con una serie di mostre fotografiche di grande impatto. Le sale e le stanze oggi adibite a spazi espositivi ricostruiscono esperienze di vita vissuta facendo ascoltare le voci registrate dei protagonisti e mostrando piccoli oggetti d’uso quotidiano come valigie, ceste, sacchi, utensili e abiti d’epoca.
«Sono venuto in America credendo che le strade fossero lastricate d’oro», recitava un famoso canto degli emigrati italiani, «ma quando sono arrivato ho visto che le strade non erano lastricate affatto e che toccava a me lastricarle». Ci sono stanze rimaste intatte da allora, come i dormitori nei quali sostavano i malati o le persone sottoposte a quarantena. Sempre al secondo piano si trova anche il luogo forse più evocativo dell’intero museo:l’enorme “Registry room”, la sala dove le persone attendevano con paura e trepidazione la chiamata degli ispettori per espletare l’ultima parte burocratica e ottenere finalmente il permesso di sbarcare. In quei lunghi interrogatori venivano loro richiesti i dati anagrafici, la professione, la destinazione, la disponibilità di denaro, gli eventuali carichi penali. E, non ultimo, l’orientamento politico. In poche ore si decideva il destino di intere famiglie
Il restauro ha ricreato un ambiente identico a com’era cento anni fa: l’imponente soffitto a volta in mattoncini bianchi, il pavimento color vermiglio, le bandiere a stelle e strisce issate sui parapetti. L’assenza delle panche dove sedevano gli emigranti in attesa di giudizio conferisce al grande salone ormai spoglio un’atmosfera di tragica ineluttabilità. Ma la “Registry Room” era soltanto l’ultima tappa di un lungo percorso che nella maggior parte dei casi si concludeva sui traghetti per Manhattan. Prima di arrivare lì i passeggeri di prima e seconda classe delle navi venivano ispezionati nelle loro cabine e scortati a terra dagli ufficiali dell’immigrazione. I più poveri, quelli che avevano viaggiato in terza e quarta classe, erano invece inviati sull’isola dove i medici li controllavano frettolosamente. 
Chi non superava gli esami veniva contrassegnato sulla schiena con un gessetto e sottoposto a ulteriori accertamenti. Una croce in caso di sospetti problemi mentali, altri simboli o lettere per disturbi quali ernia, tracoma, congiuntivite, patologie al cuore, ai polmoni o anche per una semplice gravidanza. Dai registri ufficiali risulta che appena il 2% degli emigranti sia stato respinto, circa un migliaio di persone al mese. Spesso venivano immediatamente reimbarcati sulla stessa nave che li aveva portati negli Stati Uniti e che in base alla legislazione americana aveva l’obbligo di riportarli nel porto dal quale erano partiti. Molti preferirono suicidarsi, piuttosto che affrontare il ritorno a casa. Le regole di esclusione erano spietate e imponevano che i vecchi, i ciechi, i sordomuti, i deformi e le persone affette da infermità, malattie mentali o contagiose non potessero accedere al suolo americano.
Il centro di Ellis Island era stato progettato per accogliere 500 mila persone all’anno, ma agli albori del secolo ne arrivarono circa il doppio, con oltre un milione di approdi nel solo 1907, l’anno più difficile. In seguito i decreti sull’immigrazione degli anni ’20 posero fine alla politica di «porte aperte» degli Stati Uniti e introdussero rigide quote d’ingresso basate sulla nazionalità. La Grande depressione del 1929 limitò drasticamente gli arrivi, che scesero dai circa 240mila del 1930 ai 35mila nel 1932. Ellis Island si trasformò a poco a poco da centro di smistamento degli immigrati a luogo di raccolta per deportati e perseguitati politici. Durante la seconda guerra mondiale vi furono rinchiusi italiani, tedeschi e giapponesi e anche in seguito venne utilizzata principalmente per la detenzione. La struttura venne chiusa definitivamente il 12 novembre 1954 e gli edifici in disuso andarono lentamente in rovina. L’ultima mostra fotografica racconta gli anni dell’abbandono e della successiva rinascita, con il lungo restauro che ha trasformato Ellis Island in un luogo imprescindibile della nostra memoria recente.

Arte. È mistero su che fine abbia fatto il Salvator Mundi attribuito a Leonardo

Il Salvator Mundi attribuito a Leonardo. Nel 2017 è stato pagato in asta 450 milioni di dollari

da Avvenire
Sembra essere stato inghiottito dalle sabbie del deserto il Salvator Mundi al centro di una molto controversa attribuzione a Leonardo e divenuto celebre soprattutto per essere stato battuto all’asta da Christie’s per 450,3 milioni di dollari nel 2017: un record assoluto.
L’opera è infatti attualmente “dispersa”. Il Salvator Mundi avrebbe dovuto essere esposto al Louvre di Abu Dhabi già a fine 2018. E nel 2019 sarebbe dovuto finire appeso alle pareti del museo madre parigino, ma da mesi non vi è più traccia di lui.
Secondo quanto riportato dal “New York Times”, proprio il Louvre francese non sarebbe in grado di “rintracciare" l'opera e che nemmeno ad Abu Dhabi sanno dove possa essere finita. Nulla anche dal presunto compratore (ufficialmente anonimo), il principe Bader bin Abdullah bin Mohammed bin Farhan al-Saud, divenuto Ministro della Cultura saudita. Anche il dipartimento culturale degli Emirati si rifiuta di rispondere alle domande, così come l’ambasciata saudita a Washington.
Disperati gli esperti che hanno avvallato la mano leonardesca nel dipinto. «Tragico» ha detto Dianne Modestini, professore all’Istituto di Belle Arti della New York University che ha restaurato la tavola: «Privare gli amanti dell’arte dal vedere un capolavoro di tale rarità è profondamente ingiusto». Lo storico dell’arte di Oxford Martin Kemp ha descritto il Salvator Mundi come «una sorta di versione religiosa della Gioconda in cui è presente una forte affermazione dell’inafferrabilità del divino». E nemmeno lui ha idea di dove sia.
La scomparsa del Salvator Mundi, così misteriosa da far dire al New York Times che si tratta di un “intrigo internazonale”, è però destinata a riaccendere la disputa sulla sua autenticità leonardesca, alimentando le voci sul timore del nuovo proprietario di un controllo pubblico. I contratti per le case d’aste includono una garanzia di autenticità di cinque anni.