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Il Turismo e la Smart Technology



La Smart Technology, applicata al turismo, sta cambiando il modo in cui vediamo il mondo, dalle app delle compagnie aeree fino ai servizi negli hotel. Immagina una stanza d’albergo così smart che trasmette in wi-fi 5G attraverso il proprio sistema d’illuminazione, ti permette di caricare il tuo smartphone appoggiandolo semplicemente sul tuo comodino, e ha una macchina del caffè che si ricorda che tipo di miscela hai preso l’ultima volta, prima di preparartene uno esattamente uguale quando senti la necessità di un’altra dose di caffeina. Anche se potrebbe sembrare fantascienza, questo tipo di tecnologia è già in fase di test in alberghi e aziende turistiche in tutto il mondo, per migliorare il modo in cui viaggiamo. I viaggiatori si stanno facendo furbi nei modi in cui ricercano, prenotano, e fanno esperienza dei loro viaggi. Negli scorsi anni, le aziende turistiche sembravano spesso spaventate dal fatto che i propri clienti fossero armati di informazioni e competenze acquisite dal web, ma col tempo hanno intuito che ciò poteva essere a loro vantaggio e si sono organizzate per fornire il migliore servizio possibile. Ormai è sempre più in crescita il numero di hotel ‘smart’, alberghi in grattacielo incentrati sul design, fino ad arrivare a pionieristici hotel hi-tech, presenti nelle catene sparse per il mondo. Si utilizzerà la tecnologia in maniera intelligente per semplificare l’esperienza dell’ospite e per dare un tocco più familiare, ma si deve evitare di adottare la tecnologia fine a se stessa, o di usare sistemi hi-tech, app, o altri sistemi che possano complicare più che facilitare la «guest experience». La battaglia per il turismo più intelligente si estende oltre la terraferma e i cieli. Anche le navi da crociera stanno cominciando a offrire braccialetti intelligenti ai propri ospiti. In un eco di tecnologie già introdotte nei parchi a tema, i bracciali possono funzionare come chiavi delle stanze, e immagazzinare i dettagli della carta di credito o di debito per effettuare acquisti online. Per attrarre una nuova audience, e per offrire un’esperienza di viaggio più snella e in definitiva più gradevole, le crociere di linea stanno utilizzando tecnologie moderne on-board. L’app a supporto, può anche essere utilizzata per prenotare escursioni, cene, e attività a bordo. Un’altra faccia della medaglia sono tutti i siti e le app che con clamore annunciano l’uso dell’hi-tech per offrire viaggi a basso costo. Bene, non ci resta che navigare e trovare le migliori soluzioni all’avanguardia come per esempio, quello dell’Henn Na Hotel, entrato nel Guinness dei primati in quanto primo hotel interamente gestito da robot. Inaugurato nel 2015, l’hotel si trova nella prefettura di Nagasaki, in Giappone, e può contare su un personale di quasi 200 robot dalle sembianze di uomini. Gli umanoidi sarebbero in grado di parlare fluentemente 6 lingue e di svolgere tutte le mansioni legate all’accoglienza dei clienti: trasportare le valigie, dare informazioni sulla camera o sulle località turistiche, e gestire le prenotazioni. Io fin che posso continuo a farmi vacanze normali, approfittando, dei territori ancora naturali come Reykjavik in Islanda, dove mi piacerebbe trascorrere la prossima vacanza. Buon viaggio a tutti.

Guido Cristofaro

(I-TALICOM)
Segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone - Turismo Culturale

Il ritorno degli europei in Tunisia traina il turismo

Il ritorno degli europei in Tunisia traina il turismo

Non si arresta la ripresa turistica della Tunisia. Il numero dei visitatori in arrivo al 10 agosto scorso ha raggiunto i 5 milioni e 438mila con un incremento del 12,8% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

I dati arrivano dal ministero tunisino del Turismo e dell’Artigianato che precisa come questo risultato sia dovuto principalmente al ritorno degli europei (+18,8% a fine luglio), in particolare inglesi (+110,3%), francesi (+18%), tedeschi (+6%) e russi (+0,9%).

Si registra anche un aumento dei turisti maghrebini, cresciuti del 12,4% rispetto allo stesso periodo del 2018, in particolare del +15% quelli provenienti dall’Algeria e del +26,3% i libici.

Le entrate finanziarie derivanti dagli ingressi turistici sono aumentate del 44,2%, raggiungendo i 3,16 milioni di dinari tunisini (circa 1 milione di euro). Le notti in hotel a fine luglio hanno fatto registrare un aumento del 13,3%.

L’obiettivo del ministro del Turismo tunisino, René Trabelsi, è superare i 9 milioni di visitatori entro fine anno.
lagenziadiviaggi.it

segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone Turismo Culturale

Viaggi e Spiritualità. Alla scoperta della Bibbia

Nel III secolo a.C. ad Alessandria d’Egitto 72 saggi tradussero per la prima volta il testo biblico in una lingua diversa dall’ebraico: così la versione dei Settanta rese universali le Scritture
Una pagina del Codex Vaticanus che riprende la Bibbia dei Settanta scritta in lingua greca

Una pagina del Codex Vaticanus che riprende la Bibbia dei Settanta scritta in lingua greca
da Avvenire
Vige nella tradizione ebraica l’usanza del siyum: quando si finisce di studiare un intero trattato del Talmud si fa una festa. Lo stesso quando si porta a compimento un’opera importante, che ha richiesto tempo e molte energie. Dovremmo fare ora un bel siyum perché abbiamo tra le mani l’ultimo volume della versione italiana, con greco a fronte (testo fissato da Alfred Rahlfs nel 1935), della Septuaginta, nome tecnico con cui è conosciuta la prima traduzione della Bibbia dall’ebraico in greco. Fu compiuta nel III secolo avanti Cristo, da ebrei che vivano in Alessandria d’Egitto allora sotto il dominio della dinastia ellenizzata dei Tolomei, in controllo anche della terra di Israele e di Gerusalemme. L’intera opera in quattro volumi (circa cinquemila pagine) è interamente edita dalla Morcelliana di Brescia. Venne progettata quindici anni fa dal filologo e storico Paolo Sacchi, dell’università di Torino, e il primo volume ossia ilPentateuco (la Torà vera e propria) vide la luce nell’estate del 2012. Seguono nel progetto i due tomi dei Libri storici, poi il volume dei Libri poetici (più noti come Sapienziali), e in questi mesi l’ultimo, forse il più difficile da tradurre, il volume dei Profeti. In quest’impresa di enorme valore culturale e religioso si è cimentato il meglio dei nostri studiosi italiani (grecisti, semitisti e storici del Vicino Oriente antico): da Sacchi a Paolo Lucca, da Corrado Martone a Luca Mazzinghi, da Pier Giorgio Borbone a Liliana Rosso Ubigli, da Piero Capelli ad Anna Passoni Dell’Acqua, e con loro un gruppo di giovani talenti che hanno non solo tradotto ma anche controllato, annotato e commentato ogni minimo dettaglio di questa Bibbia in greco sanza la quale, il giudizio è puramente storico, il cristianesimo non sarebbe mai nato.
Nella sua introduzione generale (che ogni lettore non devozionale della Bibbia dovrebbe conoscere) Paolo Sacchi si chiede che senso abbia oggi questa “traduzione di una traduzione” e perché cimentarsi con il greco, visto che ormai da tempo, si potrebbe dire dall’epoca di Girolamo, le traduzioni dell’Antico Testamento (più propriamente detto Tanakh) tendono a essere fatte a partire dall’originale ebraico. Delle molte risposte possibili, lo studioso torinese sceglie quella forse meno intuitiva ma più profonda: la Septuaginta non è solo una “traduzione” della Bibbia ebraica, ne è già una prima «interpretazione » (così la definisce nel I secolo Filone Alessandrino, il filosofo ebreo che tentò di coniugare gli insegnamenti e le leggi di Mosè con la metafisica di Platone). Attraverso questa traduzione il tesoro della rivelazione custodito dal testo ebraico si aprì e fu reso accessibile per la prima volta in un’altra lingua, destinata a diventare universale, almeno nella sfera occidentale del mondo: la lingua colta della poesia omerica, della filosofia e della scienza. Non fu un passaggio scontato. L’ebraico era considerato lingua sacra, dunque intoccabile, e l’esigente monoteismo etico che la Torà di Israele veicolava non sembrava affatto traducibile nella lingua degli dèi olimpici e dei sofisti ateniesi. Per legittimare questa traduzione, agli occhi degli stessi ebrei della diaspora, occorreva avvolgerla in un “miracolo”. E tale fu considerato l’evento straordinario, narrato dalla Lettera di Aristea (scritto anonimo del II secolo a.C.) e poi dallo stesso Filone, che spiega il nome di questa traduzione,Septuaginta appunto la Settanta, e come essa sia stata “ispirata” da Dio stesso e dunque non inferiore al testo ebraico.
Narra la storia che il re Tolomeo di Alessandria volesse una traduzione delle leggi sacre agli ebrei per la sua grande e (poi) proverbiale biblioteca e che ne commissionasse una copia tramite il direttore Demetrio direttamente al sommo sacerdote del Tempio di Gerusalemme. Questi gliela mandò, ma insieme a ben settantadue saggi traduttori, sei per ognuna delle dodici tribù di Israele, i quali, rinchiusisi nell’isolotto di Faro, produssero la famosa traduzione in una versione fedele ossia, come credeva con certezza Filone, perfettamente corrispondente all’originale ebraico. Una variante della storia (del mito) vuole che ognuno traducesse per conto proprio e che alla fine tutte le settantadue versioni concordassero nei dettagli. Ecco come il “miracolo” sancì il valore religioso della traduzione. E poiché settanta era il mitico numero ebraico dei popoli e delle lingue della terra, il testo venne subito rinominato semplicemente la Settanta. Questo testo fu divenne così d’uso comune tra gli ebrei ellenizzati che poco e nulla sapevano ancora di ebraico; in questa veste greca circolava nelle sinagoghe della diaspora mediterranea, cui si rivolse all’inizio la predicazione di Paolo di Tarso; questa è la Bibbia che, uscendo dal mondo ebraico, raggiunse e conquistò i non ebrei alla causa del Dio di Israele.
Certo, filologicamente e storicamente questi passaggi sono stati più complessi, assai meno lineari di quanto si dica, e i traduttori commentatori della nuova versione in italiano non mancano di puntualizzarli. Le domande abbondano: esiste davvero concordanza tra ebraico e greco? Su quale sefer ovvero rotolo ebraico venne fatta quella prima trasposizione in greco? In quanti decenni (e dove) venne completata la traduzione del Tanakh? Davvero esisteva un solo “testo originale” da tradurre o invece ne circolavano diversi e niente affatto concordanti? Perché, se la Settanta era considerata una versione ispirata da Dio, alla fine del IV secolo Girolamno (e con lui papa Damaso) vollero una traduzione in latino, la Vulgata, fatta di nuovo consultando l’ebraico? Se solo in parte abbiamo risposte soddisfacenti a queste domande, resta il fatto che la storia della Bibbia comincia, almeno fuori da Israele, con l’avventura di questa affascinante traduzione. Essa spiega tra l’altro la discrepanza tra i libri del Tanakh, ossia il canone della Bibbia ebraica (chiuso nel I secolo d.C. circa) e i libri dei diversi canoni della Bibbie cristiane: copta, greco-orientale, latino- cattolica, protestante. E ciò a dispetto del fatto che tale Bibbia greca fosse usata anche dagli ebrei nella terra di Israele, ad esempio nella scuola di Jochanan ben Zakkaj, il più autorevole “fariseo” (nel senso più positivo del termine) che a Yavne aprì una scuola di Torà fondando il giudaismo rabbinico come lo conosciamo ancora oggi.
Come ha spiegato a suo tempo Francesca Calabi, esperta di giudaismo ellenistico, «solo nel II secolo la Settanta venne abbandonata dal mondo ebraico sulla base di molti dubbi circa la fedeltà all’originale». Inoltre in greco molte espressioni erano state adattate a una diversa sensibilità culturale e snaturate rispetto all’ebraico e molti antropomorfismi erano stati interpretati o meglio rimossi (ad esempio «camminare con Dio» era divenuto un «compiacere Dio»; l’attributo divino «uomo di guerra » fu reso addirittura con «colui che distrugge le guerre»; l’ordine dei dieci comandamenti era stato modificato; quello dei profeti pure, e via elencando). Dal II secolo fu chiaro che la “setta” dei giudeocristiani usava la Settanta come unico testo di riferimento e da quel momento i maestri di Israele la rifiutarono. Si fecero allora nuove traduzioni in greco del Tanakh, più fedeli all’ebraico, ma ormai la Settanta era già divenuta fuori da Israele semplicemente “la Bibbia”, con la sua diversa ripartizione dei libri, con le aggiunte e con tutte quelle modiche (si pensi alla «giovane donna» trasformata in «vergine » in Isaia 7,14) che serviranno da legittimazione teologica al Nuovo Testamento. Ecco perché conoscere la Settanta è fondamentale per capire la storia della cultura occidentale.
L’editrice Morcelliana ha appena completato la pubblicazione della traduzione italiana de “La Bibbia dei Settanta” nota anche comeSeptuaginta o LXX (con testo greco a fronte) in quattro volumi, sotto la direzione di Paolo Sacchi e la cura redazionale di Marco Bertagna, nella collana Antico e Nuovo Testamento. Il primo volume è ilPentateuco, corrispondente alla Torà ebraica, curato da Paolo Lucca, uscito nel 2012 (pp.1022). Il secondo volume dei Libri storici, corrispondente più o meno ai Profeti anteriori nel Tanakh, è stato diviso in due tomi, a cura di Pier Giorgio Borbone, apparsi nel 2016 (pp.1656). Il terzo volume porta il titolo di Libri poetici (vi sono degli scritti sapienziali del Tanakh, ma anche testi che non fanno parte del canone ebraico), uscito nel 2013 a cura di Corrado Martone e Paolo Lucca (pp.1232). Il quarto e ultimo libro è quello dei Profeti ovvero Profeti posteriori nel Tanakh, uscito ora a cura di Liliana Rosso Ubigli (pp.1184, euro 78).

Grandi opere. Rothko e il viaggio al termine della luce

Una delle pareti laterali all’abside della Rothko Chappel a Houston

Quando diciamo che abbiamo fotografato l’inizio dell’universo oltre tredici miliardi di anni fa, usiamo una espressione impropria: il telescopio Hubble ha raccolto l’energia elettromagnetica che permea l’universo, detta anche radiazione cosmica di fondo, e l’ha tradotta in immagini grazie a una tecnologia sofisticata. Quello del telescopio insomma è un “occhio commutato” o virtuale. Molto prima che Hubble venisse costruito, un pittore francese, Paul Cezanne, riferendosi a un suo prodigioso collega, ebbe a dire: «Monet non è che un occhio, ma buon Dio che occhio!». Fra queste due parentesi, mi pare di vedere Mark Rothko che lavora alacremente e visionariamente alle sue grandi tele, frutto di strati e velature sovrapposte, finché la densità visiva si fissa in un colore che si spegne e al tempo stesso arde di luce profonda. Perché, mi sono chiesto spesso, davanti ai grandi quadri di Rothko qualcuno si scandalizza fino alla più beffarda delle frasi e qualcun altro si commuove fino alle lacrime? Rothko forse non piangeva mentre si predisponeva a dipingere (come gli antichi pittori di icone che si preparavano pregando nelle lacrime) ma c’è da credere che dentro, il suo animo irascibile si intenerisse di amore per quanto stava facendo.
Chi ha visto un dipinto di Rothko della maturità, chi si è recato alla Cappella di Houston, difficilmente eviterà un moto di stupore leggendo ciò che scrisse di sé: «Sono un materialista. I miei quadri sono fatti di cose». Questo realismo lascia senza parole, come dopo aver visto i suoi quadri. Dire quello che non si può dire: Wittgenstein sosteneva che si doveva tacere, ma può darsi che si possa dissimulare il silenzio girando nei dintorni di ciò che si dovrebbe affrontare con parole troppo strette. Come scrive Alessandro Carrera, docente di letteratura all’Università di Houston, la Rothko Chapel, il capolavoro, l’opera d’arte totale (non in senso wagneriano ma come unicum compiuto di un genio), è un caso tipico di questa impasse che ti «prende alla gola, costringe a una reazione, non la si dimentica nemmeno se la si rifiuta». Mark Rothko non voleva essere un grande pittore ma soltanto un genio. Può sembrare paradossale, la speranza di un ego dilatato, ma capiremo che non è così. Alessandro Carrera cerca di farcelo comprendere in un saggio che sfida l’indicibilità di Rothko: Il colore del buio (il Mulino, pagine 140, euro 12, in libreria da giovedì prossimo). Il libro non ha un sottotitolo che precisi il confine, ma si parla prevalentemente della Cappella di Houston. Oggi la Rothko Chapel è temporaneamente chiusa per lavori di ristrutturazione che riguardano anzitutto il lucernaio al centro del tetto. Un’opera d’arte voluta e puntigliosamente pretesa da Rothko così come la vediamo oggi, la cui forma in pianta è la sintesi di un ottagono e una croce greca.
La Cappella riaprirà nel 2021, per il cinquantesimo di fondazione, dopo che saranno stati eseguiti alcuni lavori interni e nell’area esterna, dove è prevista la creazione di un padiglione per i visitatori, di una nuova centrale termica e di altri spazi per un costo complessivo di circa trecento milioni di dollari. Siamo in Texas, quindi senza girarci intorno diciamo che c’è di mezzo il petrolio. Committenti della Cappella furono John e Dominique de Menil, marito e moglie, petrolieri e cattolici, pronti a soccorrere i disperati e a promuovere l’arte, influenti su varie istituzioni, come la University of St. Thomas dove l’edificio, inizialmente per il culto cattolico, doveva sorgere. Si videro costretti a rinunciare al loro proposito e allora decisero di realizzare l’opera, che avevano affidato nel 1964 a Mark Rothko, per loro stessi, poco distante dalla Menil Collection, museo di arte contemporanea e moderna il cui edificio venne progettato da Renzo Piano. Cambiando luogo, la cappella non fu più soltanto cattolica ma aperta a tutte le fedi, «immanenti, trascendenti e trascendentali » scrive Carrera. Uno spazio sacro ecumenico, per così dire. Ci sono foto che vi mostrano fedeli musulmani prostrati in preghiera, ma anche tavole rotonde per convegni di vario genere. Incaricato del progetto fu Philip Johnson – l’architetto americano più influente nelle mode dell’architettura per sessant’anni, da quando promosse nel 1932 la di- scussa mostra dell’International Style, alla nascita del Postmodern, per poi abbandonare timpani e colonne sostenendo il decostruttivismo di Libeskind, Gehry & C. –; Johnson si trovò davanti un osso duro, perché Rothko non era mai contento, soprattutto di come l’architetto risolveva la questione della luce.
L’artista aveva in mente il suo studio a New York, dove la luce filtrava da un “lucernaio” centrale, «l’occhio del tetto» scrive suggestivamente Carrera a proposito della Cappella, e poi aggiunge: «Johnson, che a Houston era di casa, sapeva che la luce del Texas è più forte di quella di New York e che il riverbero sui pannelli, di qualunque tinta Rothko li volesse dipingere, sarebbe stato ben diverso da ciò che il pittore vedeva mentre li preparava». Alla fine Johnson si ritirò dall’impresa e oggi sappiamo che aveva ragione: i lavori che si stanno iniziando nella Cappella riguardano proprio la sostituzione dell’attuale “lucernaio” (che è tra l’altro il risultato nel tempo di vari interventi e compromessi per schermare la luce) e si pensa di sostituirlo con uno nuovo, studiato dalla George Sexton Associates, rispettoso dell’idea di Rothko ma con vetri speciali che avranno immediatamente sotto dei deflettori in alluminio dipinto per filtrare la luce, però dando l’impressione che non vi siano diaframmi fra noi e la sorgente luminosa. La soluzione è improrogabile, perché col tempo la luce troppo forte del Texas ha cominciato a intaccare il colore dei grandi pannelli che sono a dominante nera e poi «porpora, orlati di marrone, ma anche guizzanti di blu, viola, grigio e verde scuro, a seconda delle variazioni della luce che filtra dal soffitto, e ancora di più a seconda del tempo che decidiamo di passare in quel luogo». Il tempo necessario alla “rivelazione” vien da dire, quando il velo sacro improvvisamente si apre e mostra la visione.
Carrera scrive che Rothko non ha niente a che fare con l’icona, sebbene le sue origini siano a Est, ai confini russi. Eppure, le sue opere silenziose e mute, il loro tacet che improvvisamente può ravvivarsi di una luce misteriosa, mi ricordano il tema dell’iconostasi cui Florenskij ha dedicato un saggio celebre. Si tratta, però, di capire cosa ci sia oltre quello “schermo” che protegge e anticipa la visione. Dio o il nulla? Il Novecento ci ha abituati a questa domanda (con risposte spesso poco chiare). Ma per comprendere quella “rivelazione” Carrera ha dovuto osservare il comportamento di quelli che entravano nella Cappella – ogni anno visitata da centomila persone da tutto il mondo – e studiare l’effetto che aveva su di loro, o per così dire il transfert di cui erano destinatari. Rothko godeva della massima libertà perché Dominique de Mehil – grande cultrice delle forme spirituali, si pensi all’opera di studio che ha incoraggiato sulla Cappella di Vence di Matisse – lo appoggiava in toto. E come accade soltanto poche volte nella vita di un artista, Rothko vide nella Cappella di Houston la grande occasione per celebrare la “religione della luce” «in ogni suo apparire – commenta Carrera –, inclusa la sua assenza, incluso il nero». Ho avuto una esperienza simile davanti ai neri di Pierre Soulages. Esiste una lunga tradizione del nero come impenetrabile luminosità, metafora della notte oscura di san Giovanni della Croce, evocato anche da Carrera, oppure diaframma protettivo dello sguardo, la divina caligine del Cusano, perché rivolgere gli occhi verso ciò che è più luce della luce, rende ciechi. Quel movimento di sistole e diastole dal nero allo splendore luminoso, Soulages lo ha reso nelle vetrate per l’abbazia di Sainte-Foy di Conques: nessuna iconografia, solamente linee nere che indicano tensioni e forze mosse da una energia spirituale, non meno ineffabile e sacra di quella che Rothko condensa nei suoi monocromi. Non le vide mai installate le sue gigantesche tele, Rothko; morì prima, togliendosi la vita nel 1970 dissanguandosi. Io credo che quel suicidio celi qualcosa di folle e di mistico, il raggiungimento di un limite. Non so se si possa considerare atto disperato o qualcosa di più estremo: approdo alla soglia dello spazio ideale da sempre desiderato, che Carrera chiama «la stanza perfetta».
Certamente, i quattordici grandi pannelli che Rothko dipinse – stesso numero della Via Crucis, senza esserlo (era di cultura ebraica, Rothko) – sono l’immagine di una “perfezione” raggiunta col massimo di silenzio. Unanalogon divino, vien da dire. Un deserto che mette tutto a tacere, aspira al disincanto, anche di se stesso. Carrera non è nuovo a riflessioni sulla luce. Ne ha trattato in un libro edito da Feltrinelli qualche anno fa, La consistenza della luce. Ma qui, dove il nero, il non colore, diventa un “viaggio al termine della luce”, come nella galleria goethiana, la visione di Rothko genera uno “spazio rovesciato”, neobizantino, anche e anzitutto nella sostanza: oro che nel sangue denso e profondo che si secca sulla tela scurendosi, assorbe l’energia luminosa che ricrea lo spazio (lo dilata e ci risucchia in un tempo rallentato, dove la ferma è condizione necessaria per invertire la direzione ed essere portati dentro il quadro nella sua totale anomia, non più dipinto o colore, né spazio, ma realtà pura che vibra delle nostre sensazioni). Un filosofo metafisico italiano, oggi poco studiato, Luigi Stefanini parlò per l’arte bizantina di “prospettiva tolemaica” (che ci porta dentro), e Rothko sembra dimostrare che anche senza immagini, senza narrazione e iconografia, inseguendo una strana immanenza pura del reale («non penso in termini di spazio»), si può raggiungere l’indicibile, il non astratto, qualcosa che non appartiene più all’arte e al tempo stesso la porta in alto dove lo spazio e il tempo si frantumano e si moltiplicano. Come in una camera degli specchi.
La Rothko Chapel con una comunità musulmana in preghiera
La Rothko Chapel con una comunità musulmana in preghiera

Turismo Religioso anche al Calvario di Domodossola: il fenomeno del turismo monastico


Il turismo monastico ha avuto un boom nel 2018, quando le richieste di ospitalità presso i monasteri sono raddoppiate rispetto all'anno precedente, grazie alla maggiore capacità delle comunità di monaci di mettersi online e fare web marketing. Perché vogliamo andare in vacanza in un monastero?


Che l’abito faccia il monaco è sicuro. Ma è possibile dire anche che il monastero fa il monaco? No. Anche perché sempre di più oggi i monasteri italiani, luoghi carichi di arte e storia, ma anche di immaginari collettivi che rimandano a opere letterarie e cinematografiche come Il nome della rosa, si stanno sempre più spopolando di monaci, che sono sempre più anziani e senza novizi, ma ripopolando di turisti cosiddetti spirituali. Insomma, il monastero non fa il monaco, ma fa il turista.
Il turista monastico

Sempre più persone, infatti, scelgono di passare del tempobreve nei monasteri della Penisola, per varie ragioni: disintossicarsi dal rumore del mondo, dalla frenesia, da modi di comunicare iper-rapidi e virtuali, ma soprattutto per motivispirituali e attività come la preghiera corale, i canti, il lavoromanuale.

I turisti monastici non sono solo credenti e fedeli, ma anchelaici, agnostici e persino atei, uomini e donne, ma anche ragazzi che hanno bisogno di sentire la spiritualità, vederla praticata, staccare dalle notifiche degli smartphone, immergersi nella semplicità, nella preghiera, nel silenzio e nella bellezza di luoghi curati e creati da chi invece la trascendenza l’ha proprio scelta, anche se si tratta ormai di una piccola manciata di persone votate alla contemplazione.
Monasteri di oggi

I monasteri sono passati da essere vere e proprie comunità economiche e organizzazioni sociali con un ruolo politico rilevante in passato, a essere costituiti da piccolissimi gruppi di monaci e monache che per lo più divulgano conoscenza (soprattutto libri, seminari), come nel monastero di Bose, curano il patrimonio monastico (la biblioteca, la pinacoteca, la chiesa etc) come nel monastero di S. Giulio sul lago d’Orta, nonché l’ambiente circostante attraverso coltivazioni biologiche, biodinamiche, e la produzione di artigianato (per esempio pizzi e ricami) o di beni alimentari (vini, marmellate, miele etc.) come al Dominus Tecum di Prad Mill e infine accolgono le anime curiose, in pena, o alla ricerca di qualche significato trascendentale. Questo accade non solo nei monasteri di tradizione cristiana, ma anche in quelli di altre tradizioni, che in Italia ormai vantano una storia pluridecennale: l’Ashram induista di Altare, il Monastero zen Shobozen Fudenji a Tabiano o quello di tradizione tibetana a Pomaia.

Negli ultimi anni infatti i monasteri spopolati si sono chiesti: Che ce ne facciamo dei posti letto inutilizzati e delle celle o stanze rimaste vuote?

La risposta è venuta spontanea: le si dà a disposizione dei laiciche vogliono vivere da monaci per qualche ora, giorno o settimana. Cosa si ottiene in cambio? Non tanto denaro (la permanenza in monastero prevede un’offerta libera o la totale gratuità), quanto il confronto, il dialogo, il prestigio: insomma la linfa vitale per comunità piccole, che sono a rischio di estinzione.

Così si è dato avvio a un nuovo modo di intendere la via monastica, cioè una via di mezzo tra la contemplazione e l’azione, una nuova apertura oltre i confini della religione e un costante scambio tra credenti e non credenti, praticanti e agnostici, tra asceti e convinti materialisti.

Secondo Fabio Rocchi, presidente dell’Associazione Ospitalità Religiosa Italiana, il turismo monastico ha avuto un boom nel2018, quando le richieste di ospitalità presso i monasteri sono raddoppiate rispetto all’anno precedente: erano il 14% del totale dei turisti religiosi, sono passate in un anno a rappresentare il 30% . Questo si deve probabilmente alla sempre maggiore capacità delle comunità di monaci di mettersi online e fare web marketing: alcuni dei monasteri citati sopra li trovate, per esempio, su Tripadvisor.
Il paese dei monasteri

I monasteri in Italia che offrono ospitalità sono circa 200. Di questi, 120 (con un totale di 5000 posti letto disponibili) consentono una vera e propria condivisione della vita monastica insieme alla comunità durante il soggiorno: ci si sveglia all’alba per le Lodi o la meditazione, si fa silenzio, silavora, si studia o si praticano le arti marziali, si cucina, si condivide, si prega, si ringrazia.


Il mese di giugno ha inaugurato il periodo di alta stagione dei monasteri, quello estivo, che – come per qualsiasi altra struttura turistica- rappresenta il picco di ospiti nelle foresterie monastiche italiane.

In più c’è un dato nuovo, cioè la quota delle richieste di ospitalità provenienti dall’estero: si tratta di turisti dallaScandinavia, dalla Germania, dall’Olanda e dal Belgio: nel 2017 i turisti di questi Paesi richiedenti asilo monastico rappresentavano il 7% del totale, per salire al 10% nel 2018 e al14% in questa prima parte del 2019. Sempre più persone dell’Europa centrale infatti sognano l’Italia medievale e monastica dell’opera di Umberto Eco, ma anche di praticare la meditazione buddhista tra le colline toscane.
La ricerca della felicità

Così i monasteri italiani sembrano promettere una breve felicità o un momento di pace attraverso l’astensione dal caosdel mondo, in luoghi meravigliosi e immersi nella natura, proponendo un viaggio soprattutto esperienziale attraverso il quale è possibile vivere (o fingere di vivere) davvero come un monaco Shaolin o un benedettino medievale, anche se solo per poche ore.
wired.it
segnalazione web di Giuseppe Serrone Turismo Culturale

L’ufficio turistico nell’ex oratorio

L’ufficio turistico nell’ex oratorio

Il Comune prende in affitto la chiesetta dell’oratorio della Santissima Trinità a Porto Levante, con l’obiettivo di realizzarvi il nuovo ufficio di informazioni turistiche della città.

Oggi, infatti, i rappresentati del Comune saranno nell’ufficio del notaio Penzo, ad Adria, per stipulare il contratto d’affitto con la parrocchia della Visitazione di Maria, con sede in via Marconi, e che rappresenta la curia di Chioggia, proprietaria dello storico edificio religioso. Il Comune, con una determina firmata nei giorni scorsi, ha già stanziato 500 euro per l’anticipo.

Poi, comunque, andranno fatti lavori di sistemazione all’interno della chiesetta, visto che - come si legge nella stessa determina - “versa in condizioni di marcato degrado e necessità quindi di un sostanzioso intervento di recupero e riqualificazione”, indispensabile per renderla utilizzabile per ospitare il nuovo ufficio turistico, che potrebbe essere utilizzato anche con “finalità di carattere museale”.
polesine24.it

I 90 anni Capannina con Arcuri e Calà, 'Ora puntiamo ai 100'

:I 90 anni Capannina con Arcuri e Cal, 'Ora puntiamo ai 100' © ANSA


FORTE DEI MARMI (LUCCA) - Tanta gente ieri sera alla Capannina di Forte dei Marmi (Lucca) per festeggiare il compleanno 90 anni del locale del 'patron' Gherardo Guidi, con madrina la bellissima Manuela Arcuri e Jerry Calà, diventato ormai da 23 anni anni animatore affezionato del locale, che ha visto la presenza anche di tanti giovani. La Capannina come ci tiene con orgoglio a sottolineare Gherardo Guidi "è il locale in attività più longevo del mondo" e "il compleanno dei 90 anni è stato l'evento dell'estate" in Versilia. Per Manuela Arcuri è stato un gradito ritorno nel locale fortemarmino: lei venne alla Capannina agli esordi della sua carriera ed è stata accolta con grande calore dal pubblico. Effervescente e coinvolgente nello stesso tempo lo spettacolo di Jerry Calà 'Sapore di mare', un cult per la Capannina che ha accompagnato la serata fino all'attesissima torta e allo spegnimento delle novanta candeline. "Adesso puntiamo ai 100 anni - dice Gherardo Guidi - un traguardo davvero suggestivo da raggiungere".

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7 luoghi segreti per scoprire la Puglia

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La Puglia è da sempre raccontata in tantissimi modi: da quelli standard, con le guide turistiche, a quelli più caratteristici e legati a un evento specifico, come la famosa Festa della Taranta che anima ogni anno tantissime città del Salento. E poi ci sono le vacanze dei vip, da cui ogni estate i giornali prendono spunto per mostrare le bellezze del territorio pugliese. Insomma, di metodi ce ne sono molti, ognuno adatto a esigenze diverse. Per gli appassionati dei festival e per chi non sa rinunciare a qualche appuntamento culturale neppure in vacanza, abbiamo stilato una piccola guida che segue il percorso di un famoso festival diffuso in valle d'Itria, da Martina Franca a Cisternino, da Egnazia a Locorotondo. Si tratta del Festival dei Sensi, grazie al quale potrete ascoltare le voci più autorevoli del panorama italiano e, al tempo stesso, scoprire luoghi incontaminati e bellissimi. Eccone alcuni.
 1. CAVA CONTI a Cisternino - I toponimi come località La Tufara e via delle Cave testimoniano con chiarezza come questa zona in cima ai monti di Cisternino sia luogo storico di estrazione di una pietra compatta detta tufo bianco o pietra gentile: da qui per secoli è stata estratta la calcarenite.
Onorina Pozio, nonna dell’attuale proprietario, aveva ereditato questa cava, cava Conti, dal padre Edoardo, componente di una delle famiglie più importanti di Cisternino. Anche dopo il suo matrimonio con l’avvocato Francesco Conti, di Locorotondo, la cava era stata lasciata in concessione ai mastri locali.
Il loro figlio, Giulio Cesare Conti, comandante del Battaglione San Marco, eroe di guerra pluridecorato, guida del corpo speciale Nuotatori Paracadutisti, nei primi anni ’50 si era reso protagonista di un’azione che lo aveva portato alla ribalta internazionale: quando l’Iran aveva nazionalizzato il petrolio e l’Inghilterra cercava di impedirne l’esportazione, Conti era riuscito a forzare il blocco portando fuori dal Golfo Persico le navi cariche dell’oro nero. Con la ricompensa ricevuta dal governo iraniano acquistò nuove macchine per ammodernare la cava e decise di condurla in proprio, dandole così nuovo impulso e individuando tra l’altro una piccola vena di onice. Con lo stesso stile deciso che aveva caratterizzato un po’ tutta la sua vita il Comandante mise mano al giacimento e ne fece un piccolo drappello che sfornava basolati in pietra, cordoli per marciapiedi, materiali e rivestimenti per le ville, e polvere con la quale si producevano mattoni anche nel tarantino.
Dopo la sua morte improvvisa, il figlio Francesco Conti, avvocato come il nonno, ha condotto l’attività estrattiva fino agli anni 2000, quando per vincoli ambientali e urbanistici la cava è stata dichiarata non più utilizzabile. Molte delle suggestive strade dei Sassi di Matera sono state lastricate con questa bella pietra il cui colore bianco latte tende rapidamente a suggestive imbruniture.

2. PARCO DEL VAGLIO a Locorotondo - Elegantissima residenza estiva nel punto più alto e panoramico, prospiciente l’intera Valle d’Itria, del tenimento di pertinenza della masseria in agro di Locorotondo, denominata “Parco del Vaglio” (anticamente Parco del Balì o Balivo, in quanto già di proprietà dell’ordine dei Cavalieri Gerosolimitani): accanto al nucleo originario costituito da un agglomerato di una trentina di trulli, sorge, corredata da ampio giardino, l’ottocentesca villa padronale che conserva intatte le sue prerogative originali anche con riguardo all’arredo.
3. MASSERIA CAPECE a Cisternino - La masseria Capece alla fine dell’800 fu comprata da Luigi Amati di Cisternino dalla famiglia Capece Minutolo di Napoli andando a completare l’estensione della confinante masseria Gianecchia, di proprietà della famiglia già dal 1500, acquisendo un agrumeto di notevoli dimensioni (50×50 m) e il frantoio che mantiene ancora oggi le sue fattezze originali. La masseria si compone di vari immobili, un tempo adibiti ad alloggi dei lavoratori e ricoveri per il bestiame. Caratteristico è l’edificio al centro della corte, con probabile funzione originaria di chiesetta. Nelle immediate vicinanze insistono due corpi, dei quali uno diroccato, l’altro con chiara destinazione a chiesa e arrecante la data del 1739 sulla porta di ingresso; vi è inoltre un’aia con basolato in pietra in buono stato di conservazione. Non distante dalla masseria è presente anche una zona con antica coltivazione a cava del “filetto rosso” di Fasano, aperta ai primi del 1900 e attualmente non più attiva.
 4. REGIA STAZIONE IPPICA a Martina Franca - Pietro Vito Marinosci, della omonima famiglia di macellai, aveva la sua rinomata bottega in città e macellava in un edificio che proprio qui porta iscritto il suo nome. Probabilmente fu lo stesso Comune a rilevare l’edificio e ad ampliarlo. La Regia Stazione Ippica, di proprietà del Comune di Martina Franca, fu istituita con Regio Decreto negli anni Venti, ebbe qui la sua sede, e quasi subito fu destinata alla selezione del cavallo murgese. Nel 1970 passò sotto la giurisdizione dell’Istituto Incremento Ippico di Foggia e fu gestita da palafrenieri con deposito di stalloni murgesi. Oggi, sottoposta ai vincoli Valle d’Itria e ai Decreti Galasso, è l’unica stazione ippica rimasta in Puglia. Il complesso attuale si estende per oltre 2.000 mq, comprende un corpo principale con corte interna, stalle e fabbricati successivamente aggiunti e un vasto terreno di pertinenza.

5. CIMITERO VECCHIO a Cisternino - La chiesa di Santa Maria di Costantinopoli fu edificata all’inizio del XVII secolo, in occasione del decreto borbonico che vietava le sepolture nelle chiese pubbliche, e venne utilizzata per le sepolture fino al 1918, anno in cui il paese si dotò di un nuovo cimitero. Fu allora che la chiesa venne ampliata e circondata da alte mura di cinta. Pregevole l’altare maggiore, realizzato in pietra locale da Mastro Pasquale Simone di Lecce in pietra locale e la collezione di ex voto, di particolare eleganza e originalità.
 6. MASSERIA FERRI a Ostuni - Le origini di questa Masseria, sita al confine tra Ostuni e Martina Franca, risalgono a circa tre secoli fa, quando intorno al 1718 fu concessa la formazione di un appoggio di Masseria, ossia un primo limitato nucleo agro-pastorale, esteso solo 3 tomoli.
L’area faceva parte, sin dal basso Medio-Evo, di un vasto feudo ecclesiastico, appartenuto prima a un convento benedettino e poi a un ordine monastico-cavalleresco. Si tratta infatti dell’Abbazia di San Salvatore di Pecorara, ossia del Monastero e della chiesa rurale omonimi, (ancora a fine Settecento restavano dei ruderi) della cui esistenza si ha notizia dal 1120 e di cui sono pervenute pergamene datate dal 1206 al 1304 contenenti i nomi di tre abati benedettini, soggetta al vescovo di Ostuni, e che aveva in dotazione un consistente patrimonio fondiario.
Il feudo di San Salvatore fu denominato nel XVIII secolo Difesa di San Salvatore e in data imprecisata passò poi in proprietà all’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme (dal 1530 detto Ordine dei Cavalieri di Malta).
Nel corso del Settecento, allo scopo di aumentare le rendite, l’ente proprietario preferì cedere parti del feudo in enfiteusi a privati, riscuotendo la decima sui raccolti prodotti: ciò fino all’abolizione del feudalesimo e degli enti ecclesiastici (1806-1809).
Nel feudo di San Salvatore, esteso 2449 tomoli -pari 2085 ettari, come testimoniato dalla misurazione del 1797- sorsero 25 masserie, prevalentemente possedute da martinesi.
Tra queste la masseria Ferro, intestata al Magnifico Domenico Goffredo detto Ferro da cui deriva l’attuale toponimo, con una estensione di 60 ettari di terreni “decimali”.
Decimali erano detti quei terreni su cui gravava il prelievo della decima parte dei raccolti da parte dell’ente concessionario.
Nel 1797, a seguito del matrimonio fra Donna Teresa Goffredo di Donato Antonio e Don Francesco Lella di Bonaventura , la masseria divenne proprietà della famiglia Lella, che tuttora la possiede. Accanto ai primitivi corpi di fabbrica settecenteschi il loro figlio Donato Lella fece edificare una comoda casa padronale -datata 1854, come si evince dall’iscrizione sul portale- con adiacente cappella dedicata alla Madonna delle Grazie.

7. PARCO ARCHEOLOGICO a EGNAZIA - Le prime notizie di Gnathia risalgono al 1561, quando Leandro Alberti accenna a i vestigi dell’antica città di Egnazia fra cespugli, urtiche e pruni, mentre del secolo successivo è la prima testimonianza del rinvenimento di sepolture con ricchi corredi funerari. A Francesco M. Pratilli, antiquario e studioso di archeologia, si deve, nel 1745, la prima pianta schematica della città in cui sono evidenziati i monumenti allora visibili, tra cui il criptoportico e la necropoli litoranea. La prima descrizione delle strutture antiche è contenuta, invece, nell’opera di Ludovico Pepe del 1882, interamente dedicata ad Egnazia, dove viene per la prima volta denunciata la pratica dello scavo clandestino. Anche per arginare questo fenomeno, Quintino Quagliati, Direttore dell’Ufficio scavi e del Museo Nazionale di Taranto, dà inizio alla fine del 1912 alle ricerche ufficiali, durate per tutto il 1913, su una lunga fascia che da Nord comprende parte della piazza mercato, un tratto della via Traiana, il settore residenziale a Sud della strada e la basilica meridionale. Indagini sistematiche hanno interessato la città dal 1963 al 1971 a cura degli Uffici ministeriali preposti alla tutela. A partire dal 2001, un programma di ricerca del Dipartimento di Scienze dell’Antichità e del Tardoantico dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, in stretta collaborazione con la Soprintendenza Archeologia della Puglia, ha indagato sistematicamente la piazza mercato, il quartiere a Sud della via Traiana, la basilica episcopale, l’area dell’acropoli e ha evidenziato per la prima volta il settore a Sud del foro con le terme.
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segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone Turismo Culturale

Enit "Wellness Destinations in Italy" è il tema delle destinazioni europee di eccellenza di quest’anno. I Comuni interessati a partecipare alla selezione, possono presentare la propria candidatura dal 1° agosto al 15 settembre

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Fino al 15 settembre, si apre il Bando per la candidatura ai premi del progetto Eden selezione 2019 “Wellness Destination in Italy”, cofinanziato dalla Commissione Europea ed incentrato sulle destinazioni di eccellenza legate al turismo del wellness.

Il progetto è rivolto ai Comuni che intendono promuovere la loro destinazione di eccellenza nel campo del turismo del benessere.

L'obiettivo del progetto EDEN è quello di focalizzare l'attenzione sulla diversità delle destinazioni europee e di valorizzare quelle emergenti in cui si stanno sviluppando nuove iniziative turistiche sostenibili.

Ogni paese partecipante sceglie una destinazione vincente e altri quattro candidati finalisti che entreranno a far parte della "rete di destinazione EDEN", finalizzata allo scambio di buone pratiche tra le destinazioni e al marketing di livello internazionale.

Con oltre 350 destinazioni EDEN da 27 paesi europei membri fino ad oggi, la rete EDEN è la più grande rete al mondo nel settore del turismo sostenibile.

Le destinazioni che si candidano dovranno offrire esperienze turistiche autentiche che sviluppino un prodotto sociale, culturale e ambientale sostenibile.

Il processo di selezione si articola due fasi: nella prima, tra il 1°agosto al 15 settembre, il Dipartimento del Turismo riceverà le domande dei comuni candidati, che saranno valutate sulla base dei template di candidatura del progetto.

Il Comitato Nazionale di Valutazione, presieduto dal Dipartimento del Turismo e costituito da ENIT, ANCI e Coordinamento Regionale per il Turismo, procederà all’esame delle candidature pervenute, sulla base di criteri europei e nazionali, nonché attraverso visite sul territorio. Successivamente il Comitato, selezionerà le destinazioni EDEN (1 vincente e 4 classificate) da segnalare alla Commissione Europea.

Il processo che porterà alla selezione di destinazioni turistiche di eccellenza nel campo del turismo del benessere avrà effetti moltiplicatori, connessi ad un incremento dei flussi turistici, a livello europeo, nazionale, regionale e locale:

- a livello europeo, la creazione di reti di destinazioni di eccellenza nei vari Paesi darà visibilità a destinazioni emergenti o ne accrescerà la visibilità per gli aspetti connessi all’offerta di un prodotto wellness;

- a livello nazionale, il progetto servirà a perfezionare le strategie di politica turistica, in quanto costituisce un esempio concreto di collaborazione tra varie amministrazioni, ad individuare nuove piste di riflessione per favorire la destagionalizzazione e la decongestione dei flussi turistici;

- a livello regionale e locale, le strategie elaborate e le politiche messe in atto dagli amministratori e dai responsabili della gestione delle destinazioni selezionate potranno costituire un quadro di riferimento per altre destinazioni che intendono promuovere le loro risorse turistiche nel contesto della sostenibilità.

Allegati da scaricare:





fonte: enit.it

segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone - Turismo Culturale

Meeting Nazionale del Turismo. Il Paese che vogliamo. Un turismo per tutti 13 e 14 settembre 2019 a Ferrara


Un evento rivolto ad enti, istituzioni, associazioni, aziende, università ed ai principali stakeholder dell'industria turistica nazionale. Conferenze, talk show, workshop, per un confronto tra esperti del settore. Obiettivo: sviluppare l'attrattività dell'Italia come meta turistica nel panorama mondiale Un confronto tra istituzioni e privati, promosso dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari, Forestali e del Turismo, con la collaborazione di #ENIT – Agenzia Nazionale del Turismo.

Una due giorni di dibattiti, tavole rotonde e sessioni tematiche, per dare spazio a tutte le idee innovative dei protagonisti del settore.

Inoltre, saranno presenti giornalisti, testimonial e personaggi del mondo dello sport e dello spettacolo, per dare un apporto innovativo ed una visione d'insieme del mondo del turismo oggi e dell'Italia come destinazione turistica completa.
Programma
Il Paese che vogliamo. Un turismo per tutti 13 e 14 settembre 2019 Teatro Comunale – Ferrara
Corso Martiri della Libertà, 5 13 settembre

Programma Evento in pdf >>> scarica da qui

fonte: www.turismo.politicheagricole.it/
segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone Turismo Culturale