Architettura: il sacro nasce dalla realtà

È come mettere l’anima dentro a un corpo, far stare una chiesa dentro ai materiali edili. Un ossimoro eccellente, due pietre focaie che, scartavetrate fra di loro, generano la scintilla o l’incendio celeste. La difficoltà odierna nel concepirle è evidente quanto affascinante. So che sul tema è appena terminato un convegno a Bose. Secondo Aimaro Isola è il sagrato a contare più della facciata. Forse sì, ma quando la calamita è potente e il sagrato, per dirla, sia quello della basilica di San Pietro. Certo, il sagrato può essere luogo di intersezione di varie culture ma rischia anche di poter diventare il cortile dei gentili, che è un fuori rispetto al dentro del tempio. La chiesa invece è un dentro-fuori, senza sancta sanctorum o iconostasi di separazione. 

Bella la cattedrale di Medellin, forse capitale mondiale della droga. Le porte della facciata e quelle laterali del tempio sono tenute spalancate e, nei luoghi circostanti, dal sagrato, ci si ritrova all’interno, in un tutt’uno che non separa appunto l’esterno dall’interno e viceversa, come esattamente un anello di Moebius. A proposito del sagrato, si può rammentare quando nell’Ottocento i “folli di Dio”, nella Santa Russia, arrivavano a sputare sui portoni delle chiese, immagino significando che non solo nei riti sta il nocciolo. Gli stessi folli si fermavano a pregare sulle porte dei postriboli, significando, credo, un potente bisogno redentivo. Delle due situazioni forse sarebbe stata necessaria una sintesi fraterna.

Leggo ora, su “Avvenire”, l’intervista all’architetto cileno Cristián Undurraga, che può fare a meno di croce e altare, perché più astratto è il luogo e maggiore è la spiritualità che vi abita. Mi pare che il restauratore del Palacio de la Moneda malponga la questione. Il silenzio lo si può incontrare dove c’è. Basta trascorrere una notte in una stazione ferroviaria di testa o una giornata in un cimitero per percepire un silenzio che però, in sé, è neutrale. Tocca al beneficiato indirizzarlo e farlo proprio. La spiritualità è un’altra cosa. È sufficiente un viaggio in metropolitana all’ora di punta per sentire il folto dei corpi umani, l’odore e persino l’ingenuità di coprirlo con l’artefatto dei profumi. 

Penso alla ressa di malati in barella negli atri dei pronto soccorso urbani. Se il cuore non è piccolo, questi luoghi mescolano i salmi del male e la loro spiritualità. No, i non luoghi non esistono, sono gremiti invece da anime corporali. E la croce? È ineliminabile, perché la relativa religione è l’unica che viene da un martirizzato, che si fonda sull’eterna pena di morte, privilegio mostruoso del genere umano. Temo che l’idea di una caverna, col suo primitivismo, di cui l’architetto cileno dice, non sia una buona soluzione. 

È una inutile regressione ai primordi dell’umanità, perché il bene e il male non hanno un calendario qualsivoglia. Per significare, a mio avviso, come i luoghi sacri, asettici non invoglino all’incontro con il Padreterno, mi pesa ancora troppo la chiesa progettata da Renzo Piano per Padre Pio. Riesce persino a cancellare la spiritualità naturale di quell’Appennino con questa ostentazione di arconi che mi sono parsi più idonei per una fiera espositiva di trattori agricoli che non per recitare il Padre Nostro.

Anni addietro pensai, occupandomi di linguaggio, che l’architettura religiosa è la lingua del religioso abitare. Allora, con un amico architetto, partecipai addirittura a un concorso per la progettazione di nuove chiese. Non lo vincemmo, ma scelsi come forma dell’edificio quella di un pesce, preso pari pari dalle stilizzazioni nelle catacombe. Il pesce di calcestruzzo era circondato da acqua. Il tetto era di vetro ed era il fondo di un acquario ricco di pesci. Stando in chiesa, si sarebbero visti i pesci volare. Si poteva anche tornare a un modello naturale ma solo perché già mediato dalla prassi della storia della buona novella. Se non sbaglio, altri hanno poi, autonomamente usato l’idea.
Ma oggi, oggi, perché si devono scolorire i colori per renderli neutri, abolire gli spessori per ottenere un mondo di carta velina? Se oramai viviamo accatastati, in comune con gli oggetti, perché rifugiarsi in uno spazio che non c’è? Allora, sgomitando tra i calcestruzzi fraternamente dilaganti, penso alle tante fabbriche dismesse. 

Ecco, forse sono facilitato in questa sensibilità, dal fatto di essere figlio di un operaio. Lì, fra le mura abbandonate dell’industria, il martello ha battuto infiniti chiodi, crocefissa infinita fatica. Riattare un edificio simile, e preferisco proprio la parola riattare a quella restaurare, darebbe una chiesa già quasi consacrata di per sé, grazie alla sua propria storia. Ho visto ospedali abbandonati, poi trasformati in scuole. Cosa di meglio di quel luogo di innumerevoli viae crucis per diventare chiesa o essere di già una chiesa? E ancora mi riferisco alla dismissione di edifici carcerari. Luoghi di disperazione, suicidi, violenza e redenzione. Anche questa tipologia fa parte di una trinità di opportunità con dentro un’eco di emozioni, che di per sé danno luogo alla scaturigine della verticalità religiosa. 

Credo l’architettura della chiesa debba essere un’acqua potabile, non un’acqua distillata o sterilizzata. Deve recare in sé la sua naturale flora batterica, non essere figlia dell’antibiotico che garantisce purezza al momento ma promuove resistenza nell’indomani. Ecco, sono soltanto appunti, aggiunti per una riflessione centralmente al di fuori al mondo dell’architettura e solamente colloquiale con la mensa senza tovaglia del vino e del pane. Abbozzi che si giocano sull’inciampo nella realtà, per non buttare nulla della fatica e del dolore della storia, perché è lì che è contenuta la nostrana gloria.
Avvenire

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