Elettra è uno dei personaggi più ardui da comprendere della tragedia greca, e con Antigone e Medea rappresenta l’eroina irriducibile, dilaniata da odio e sete di vendetta. Vendetta fondata su giustizia, ma con un’equazione assolutamente barbarica. La meno moderata delle tre, la maga Medea, per punire il marito adultero uccide i suoi stessi figli. Anche la tragedia moderna, elisabettiana, conosce figure femminili perniciose, ma esistono differenze: Lady Macbeth, orrenda criminale, diviene tale dopo un patto con gli spiriti, cadendo preda del potere delle streghe.
Nella tragedia e nel mito greco altre donne più profondamente mi colpiscono: Penelope, Arianna, Eco, Cassandra, Andromaca. Certo, si potrebbe obiettare, prediligo grandi donne sconfitte, non quelle lottanti. No, sento più tragicamente vere, rispetto alle assetate di giustizia e vendetta, alle barbare, quelle lottanti e magari sconfitte, come Cassandra, o Andromaca, la moglie del grande Ettore, fatta schiava con le altre nobili troiane dai brutali vincitori greci. Ma Penelope invece vince, solo tornando a lei Ulisse può compiere il suo viaggio e il suo destino.
Arianna, abbandonata da Teseo che ha salvato dal Labirinto, è però visitata sull’isola di Nasso da Dioniso, il dio della rigenerazione e della vita, che, amandola ricambiato, la tramuterà in stella. Elettra cova un odio indomabile, poiché efferato è stato il comportamento della madre Clitennestra, che ne ha massacrato il padre – il grande Agamennone di ritorno vittorioso da Troia – in combutta con il vile amante Egisto, con cui vive e sguazza nella reggia di Argo. Mentre il figliolo Oreste, erede maschio del nobile Agamennone, è stato salvato da un’anima buona che lo ha allontanato dalla corte e dalla morte certa, Elettra è umiliata e ridotta al ruolo di schiava. Intuibile la difficoltà del-l’attrice che interpreta questo personaggio di Sofocle, e del regista che la deve guidare: Elettra non può essere una maschera infuriata, una donna primitiva posse- duta solo da odio, perché manifesta anche un animo femminile, amante della vita nel suo giusto equilibrio, e nobile, perché insofferente dell’ingiustizia.
Federica Di Martino riesce molto bene nell’impresa: la sua Elettra non è una maschera isterica, con la bava alla bocca, ma, grazie a un uso eccellente delle voce in sintonia con i movimenti del viso, del collo, del tronco, il suo dolore assume un’espressione di pietà di effetto quasi cinematografico. Nel vasto spazio del teatro (dove si sedettero Platone in rotta con Atene, e il grande Eschilo, offeso con Atene che gli aveva proferito, col broglio, la prima trilogia di Sofocle, sin da subito raccomandato e amico dei potenti, bravo ma inferiore agli altri due che iniziano con E…) riesce a recitare come se fosse in primo piano pur occupando sempre benissimo lo spazio scenico.
La regia di Gabriele Lavia esalta questa resa, come quella generale: una realizzazione felice sul piano spettacolare (nel senso buono del termine) e dinamico: tutto freme, sin dall’inizio, Oreste, il Pedagogo, Elettra, tutti i giustizieri sono animati da una furia attiva, implacabile, che li traduce in uno spettacolo dinamico, teso, efficace. Notevole davvero il ritmo iniziale in cui il Pedagogo insuffla in Oreste, appena giunto nella città dell’infanzia, uno spirito di azione greco, si deve agire agire subito, di sorpresa, rapidamente, poi ci sarà tempo per i ricordi dell’infanzia ad Argo.
Poi… sul cadavere di Clitennestra, che il giovane uccide rapidamente, e di Egisto, fatto fuori come merita. Brava, come detto, Federica Di Martino, in tutto tranne quando corre con un passo non da palcoscenico ma da palestra (in “circuito”): ma è una piccola pecca in una prestazione ottima. Forte e autorevole, certo trascinante la Clitennestra Maddalena Crippa, che io però, pur brava e sempre intensa, sento sempre come attrice un po’ padana; davvero efficaci, elettrizzati, il Pedagogo Massimo Venturiello, l’Oreste Jacopo Venturiello, tutti.
Nota negativa il coro, quasi imbarazzante: il coro in una tragedia greca è l’espressione di una dimensione profonda, tellurica, la voce dell’inconscio e insieme del poeta in vaticinio narrante. Qui nulla di antropologicamente imparentabile a un coro. Tante giovani rossoscuro vestite che si muovono semicoreograficamente, senza furore, senza vaticinio, senza un brivido dionisiaco. Per il resto, lo spettacolo di Lavia tiene, convince, si fa comprendere e persuade con energia.
Avvenire
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