Cinquecentenario. Raffaello manager dell’«arte totale»

 

Avvenire

Dal libro di Marco Bussagli, Raffaello, che esce in questi giorni da Giunti in grande formato (pagine 320, euro 85) anticipiamo alcuni brani dedicati alla filosofia con cui l’urbinate organizzò in modo modernissimo la sua bottega. Mentre il V centenario della morte va a chiudersi, questo volume ripercorre storia, mito e temi del genio che fu formidabile disegnatore, pittore di quadri e di affreschi e anche architetto. Diviso in due sezioni, la prima svolge un percorso storico-critico , mentre la seconda presenta letture di opere e dettagli pittorici.

Se esiste una figura del Rinascimento che assomma in sé le varie caratteristiche di una superstar dei tempi moderni, questa è Raffaello Sanzio. Rispetto agli altri due giganti dell’epoca, Leonardo e Michelangelo, infatti, il pittore urbinate ha una personalità che lo avvicina a quella dei grandi divi del cinema o della musica di questo secolo o di quello appena trascorso. La solarità di un successo che arrise all’artista fin da giovane e la felice condizione di un aspetto di riconosciuta avvenenza sono peculiarità che non possiamo ritrovare, per esempio, in Michelangelo, la cui fisicità condizionò la vita del grande artista sfociando in un tormento interiore che non trova riscontro nell’esistenza di Raffaello. Amato dal genere femminile, ricco e incline a godersi i piaceri della vita, il Sanzio fu un vero imprenditore, oltre che un grande artista (…).

Raffaello prima di Bernini e Bernini prima di Le Corbusier. Fu infatti l’architetto francese l’ispiratore della celebre frase pubblicata nella Carta di Atene del 1952 divenuta lo slogan dell’architetto triestino Ernesto Nathan Rogers che della sua arte diceva: «Dal cucchiaio alla città». È questa la chiave di lettura per cogliere l’impostazione che il Sanzio dà alla sua idea di bottega: non solo un apparato che supporti la produzione del maestro, ma una struttura in grado di fare fronte a tutte le esigenze di mercato e culturali a esso connesse, con una diversificazione delle competenze all’interno di una stessa regìa, quella di Raffaello. In realtà, l’artista urbinate aveva avuto esempi importanti e concreti cui ispirarsi, a cominciare dalla bottega paterna di Giovanni Santi... L’altro modello che aveva ben presente era, come è ovvio, quello del suo secondo maestro, Pietro Vannucci, un artista che era un vero e proprio impresario… La sua bottega si sperimentò in imprese epocali come quella della Sistina che, tuttavia, si era configurata con modalità ben diverse da quelle più tradizionali, nel senso che il pittore si era misurato con altri maestri di ugual levatura che aveva dovuto coordinare. Un modello non troppo dissimile da quello che avrebbe poi messo a punto negli anni il Sanzio, paradossalmente negli stessi luoghi. (…)

Dietro tale percorso, però, c’era una visione teorica che non è difficile far risalire, prima di tutto, proprio a Giovanni Santi, in quanto uomo di teatro, e poi a Vasari che le conferì la sua dimensione ufficiale. Studi ormai storici riconducibili alle ricerche di Alfredo Saviotti hanno attribuito al padre di Raffaello la messa in scena teatrale dei giorni dal 26 al 30 maggio 1475, organizzata per festeggiare l’anniversario di nozze di Costanzo Sforza e Camilla d’Aragona, che si erano celebrate a Pesaro un anno prima. Il testo ci è pervenuto nel manoscritto (Pal. 286) oggi conservato presso la Biblioteca nazionale di Firenze. Che poi Giovanni Santi avesse davvero intrapreso un’attività teatrale è testimoniato dalla lettera di Capilupi che descrive la festa di teatro organizzata per le nozze, nel febbraio del 1488, di Guidobaldo da Montefeltro ed Elisabetta Gonzaga. Da tutto questo si evince come il Santi avesse ben chiara, già lui, l’idea di quella che potremmo definire 'arte totale'. Nel prevedere e coordinare lo spettacolo, infatti, l’eclettico artista, in qualità di autore del testo e, verosimilmente, pure scenografo nonché, forse, perfino regista, sperimentò la dimensione concreta dell’arte totale che aveva, come corollario, la necessità di cedere parte delle competenze ad altri. Del resto, l’approccio critico di Giovanni Santi è quello di chi vuole dimostrare la parità della pittura e della scultura nei confronti della letteratura, ossia elevare due arti meccaniche al rango di arti liberali. Un’idea che, in certo senso, implica la declinazione del processo creativo con la cessione di quote del piano generale a competenze altrui, in un’ottica di confluenza delle singole arti in un unico disegno. Non mera esecuzione, ma progettazione. In armonia con questo pensiero critico si pone l’apporto di Vasari e della concezione di quelleda lui definite 'arti congeneri'. È, infatti, nel suo Proemio all’Introduzione alle tre arti del disegno, premessa, a sua volta, alle celebri Vite, che lo scrittore aretino vuole confutare l’idea che sia la scultura ad avere un maggior numero di 'arti congeneri' come oreficeria, glittica, cesello, e via di questo passo. Per farlo, Vasari compie una serie di passi e riflessioni, spiegando «che la scultura e la pittura per il vero sono sorelle' perché, come l’architettura, 'la più universale' delle arti, sono tutte 'nate di un padre che è il disegno ». È a questi scenari che s’ispira l’azione artistica del Raffaello maturo (...).

Quella di Raffaello, però, è una presa di coscienza graduale che prende le mosse da un’impostazione tradizionale della bottega, come quella degli esordi, con la collaborazione di Evangelista di Pian di Meleto e di Timoteo Viti, ridotta al lumicino rispetto ai fasti di Giovanni Santi. Da qui il maestro inizia il suo cammino e, con tanto lavoro, cresce all’ombra del ricordo del padre, per arrivare a vette eccelse. Varrà la pena di ricordare, in questo senso, il suo intervento nella cappella Chigi in Santa Maria della Pace a Roma dove, accanto alla finestra che sovrasta l’arcosolio decorato da Raffaello, Viti eseguì un altro affresco su disegno del maestro, con quattro Profeti identificati da altrettante scritte, ossia Abacuc, Giona, David e Daniele. Tuttavia, la prima occasione che vide concretamente al lavoro una bottega in grado di far fronte a committenze importanti fu quella che operò nelle Stanze di Giulio II. Crebbe, allora, intorno al maestro,un gruppo di pittori le cui competenze finirono pian piano per emergere, fino a trasformare i rispettivi titolari di ciascun personale know-how (come si dice oggi) in altrettanti maestri, come Giulio Romano, Giovan Francesco Penni e, come s’è visto, il'vecchio' Timoteo Viti. Nasceva così, fra gli estremi della necessità del mercato e quelli della novità critica e cosciente dell’arte totale, quel rivoluzionario concetto di progetto corale che si sarebbe poi sviluppato anche con Bernini, sfociando nell’idea del 'bel composto', ossia nell’unità tematica e visiva di architettura, scultura, pittura e decorazione.

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