Il Sacro Monte Calvario di Domodossola. Un luogo in cui la spiritualità rosminiana dialoga con la natura, il silenzio e l’arte

Sorto nella prima metà del XVII secolo per volontà di due cappuccini del convento di Domodossola, Gioacchino da Cassano e Andrea da Rho, venne dedicato alle tappe della passione di Cristo. Il percorso in ascesa, che collega l’antico borgo di Domodossola al Colle di Mattarella, fu pensato con l’intenzione devozionale di rappresentare, idealmente e fattivamente, la salita al Calvario.

Le sue vicende costruttive, condizionate da altalenanti momenti, furono caratterizzate, a seguito delle soppressioni napoleoniche, da una fase di abbandono del complesso, divenuto dapprima una caserma militare e caduto in un progressivo declino.

La sua rinascita iniziò a partire dal 1828 quando il conte Giacomo Mellerio, figura ossolana di grande rilievo, convinse l’abate roveretano Antonio Rosmini a scegliere il colle di Mattarella come luogo di fondazione dell’Istituto della Carità, cui oggi appartengono i rosminiani.

Gli anni successivi videro i Rosminiani sempre più coinvolti nella gestione del Calvario e promotori della costruzione di alcune cappelle rimaste irrealizzate. Tra gli artisti di maggior fama Dionigi Bussola, protostatuario del duomo di Milano, fu certamente il più grande e coinvolgente autore con i capolavori delle cappelle della Croce (XII) e della Deposizione (XIII), modellate all’interno del Santuario del SS. Crocifisso, e del Cristo morto nel Sepolcro (cappella XIV); dopo il Bussola l’altro grande statuario fu lo scultore milanese Giuseppe Rusnati, noto per la sua attività al Sacro Monte di Varese.

La parte superiore del complesso sacro si snoda tra le ultime cappelle e i giardini del Belvedere realizzati attorno ai resti delle mura del castello di Mattarella, articolato edificio la cui storia archeologica affonda in età romana, longobarda e medievale; da lì la bellezza delle Alpi e il panorama sulla Val d’Ossola non può che catturare l’attenzione dei pellegrini e dei visitatori, mentre all’interno del convento si può visitare la cella del beato Rosmini.

Il Sacro Monte Calvario è oggi sede del Centro Spiritualità Rosminiana e del Noviziato Italiano e, oltre a seguire la formazione dei novizi dell’ordine, offre a tutti una valida occasione di riflessione ed esperienza interiore in un contesto dove la spiritualità dialoga in maniera ottimale con l’arte, il silenzio e la natura, con possibilità di passeggiate lungo itinerari di grande gradevolezza come l’antica “Via dei torchi e dei mulini”.

Il Sacro Monte, di proprietà dei padri rosminiani, è amministrato, per la parte del complesso monumentale e naturalistico ed unitamente agli altri sei Sacri Monti piemontesi, dall’Ente di gestione dei Sacri Monti (Ente strumentale della Regione Piemonte), e dal 2003 fa parte del sito seriale UNESCO “Sacri Monti del Piemonte e della Lombardia”.

FONTE: turismo.chiesacattolica.it

(segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone - Turismo Culturale)


Grand Tour fra le eccellenze Unesco, nuova frontiera del turismo

 

GENOVA - Ripartire dal modello ottocentesco del "Grand Tour", che portava in Europa, soprattutto in Italia, i rampolli delle famiglie aristocratiche in un lungo viaggio di formazione, fatto di scoperta delle città, delle persone e di un modo di vivere.

E' la nuova tendenza emersa oggi dai lavori della decima Borsa del turismo culturale, che proseguirà anche domani, e la sesta edizione di Mirabilia Food & drink, a Palazzo Ducale a Genova. Le 18 camere di commercio, accomunate dalla presenza sul proprio territorio di almeno un sito Unesco, riunite nell'associazione Mirabilia Network (Bari, Basilicata, Caserta, Chieti-Pescara, Genova, Irpinia-Sannio, Marche, Messina, Molise, Pavia, Riviere di Liguria, Sassari, Sud Est Sicilia, Treviso-Belluno, Pordenone-Udine, Umbria, Verona e Venezia Giulia) si candidano ad essere le tappe del percorso, partendo proprio dal nuovo concetto di turismo, più slow.

Andrea Granelli, fondatore e presidente di Kanso, esperto di innovazione e digitalizzazione, spiega la formula: "Dobbiamo ridomandarci perché la gente viaggia, e credo che il Grand Tour sia un grande viatico - dice -. Non è solo intrattenimento: è viaggio di apprendimento e di scoperta, che si salda con un altro gande fenomeno, lo smart working, perché cercare luoghi dove lavorare meglio è qualcosa a metà fra lavoro ed esplorazione di un luogo". Oggi quasi il 52% delle vacanze viene scelto via internet, ricorda Andrea Prete, presidente di Unioncamere: "La pandemia ha alimentato una nuova attenzione ai luoghi più vicini, alla sostenibilità, alla ricerca di ambienti più riservati e di esperienze di viaggio più libere e fuori dagli schemi".
    Le camere di commercio riunite in Mirabilia "stanno già lavorando per offrire un unico menu". E con Mirabilia c'è "la volontà di dimostrare che esiste un turismo possibile, sostenibile che accompagna cultura ambiente cucina e paesaggio, un modo più lento, più riflessivo e formativo di fare turismo.
    Abbiamo portato a Genova 400 fra venditori e compratori di questo nuove forme di turismo" aggiunge Luigi Attanasio, presidente della Camera di commercio di Genova. 

Ansa

Viaggiatori più ottimisti in cerca di fuga, sette tipi 2023

 

ROMA - I viaggiatori di tutto il mondo si sentono molto più ottimisti riguardo ai viaggi nel 2023 rispetto al 2022 e, nonostante l'attuale instabilità avvertita a livello globale, quasi tre quarti (72%) di loro sostiene che varrà sempre la pena viaggiare.

Booking.com ha commissionato una ricerca su oltre 24.000 viaggiatori in 32 paesi e territori, abbinandola ai propri dati come piattaforma digitale leader nel settore, per rivelare sette previsioni di viaggio.

Il ritorno alle cose essenziali, in oasi di pace. Quasi la metà dei viaggiatori globali (44%) e il 40% degli italiani desidera esperienze di viaggio più essenziali e vacanze "off-grid", ovvero completamente autosufficienti, scollegati dalla rete elettrica e idrica per fuggire dalla realtà (viaggiatori globali 55%; viaggiatori italiani 50%), e per staccare la spina provando a vivere solo con lo stretto necessario (viaggiatori globali 44%; viaggiatori italiani 40%).
    Inoltre, nel 2023, le persone non vedono l'ora di viaggiare per imparare nuove tecniche di sopravvivenza (viaggiatori globali 58%; viaggiatori italiani 45%).
    2. Viaggi virtuali . Quasi la metà (43%) dei viaggiatori globali e un terzo (31%) degli italiani, sostiene che l'anno prossimo proverà la realtà virtuale per cercare ispirazione per le proprie vacanze. I partecipanti alla ricerca (viaggiatori globali 35%; viaggiatori italiani 25%) hanno dichiarato di desiderare un'esperienza di viaggio di più giorni nella realtà virtuale o artificiale. 3. Fuori dalla comfort zone. La metà (50%) dei viaggiatori di tutto il mondo e più di un terzo (35%) degli italiani vuole immergersi in una cultura completamente diversa. Questo significa scoprire posti con lingue e tradizioni del tutto nuove (viaggiatori globali 51%; viaggiatori italiani 46%) o visitare città meno note con attrazioni inesplorate (viaggiatori globali 30%; viaggiatori italiani 35%). Le comuni mete turistiche non fanno più gola. 4. Vacanze nostalgiche. Nella lista dei desideri ci sono fughe nostalgiche (88%) che permettano di rivivere tempi passati felici. C'è un forte desiderio (anche tra i millennial e tra la Generazione Z, che non ha mai vissuto questi tempi) di immergersi nel romanticismo di un'era pre-digitale. Quasi un quarto (23%) dei viaggiatori globali e il 19% degli italiani è alla ricerca di esperienze che evochino ricordi emotivi (finti) di giorni passati. 5. La pace dei sensi al primo posto. I viaggi nel 2023 porteranno la cura della mente, del corpo e dell'anima a un livello superiore, un approccio totalmente immersivo e senza limiti per raggiungere la pace e il piacere, compresi alcuni modi meno convenzionali per sentirsi felici. Finalizzati al benessere della mente, i viaggi per meditare e ritrovare sé stessi sono sempre popolari, sia tra i viaggiatori globali (44%) che fra gli italiani (35%). Il 40% (38% degli italiani) sogna di vivere momenti di pace in un rifugio immerso nella tranquillità e il 42% (37% degli italiani).
    6. Viaggi business: meno lavoro, più divertimento. Ora che la maggior parte delle persone non deve più lavorare necessariamente dall'ufficio, è sempre più diffusa la tendenza a trascorrere le vacanze staccando del tutto la spina. Un'alta percentuale (66%) vuole che i propri viaggi nel 2023 non contemplino assolutamente il lavoro. Sebbene il 49% dei viaggiatori globali, e il 44% degli italiani, non sia interessata a lavorare quando è fuori casa, prenderebbe in considerazione la possibilità di fare un viaggio business o partecipare ad un retreat aziendale. Infatti, i viaggi business torneranno all'ordine del giorno nel 2023. 7. Risparmiare, ma non sulle priorità. Circa la metà dei partecipanti alla ricerca (50% a livello globale, 49% a livello locale) sostiene infatti che investire in una vacanza rimanga una priorità assoluta.
    Arjan Dijk, Senior Vice President e Chief Marketing Officer di Booking.com commenta: "Se gli ultimi anni ci hanno insegnato qualche cosa, una di queste è che il viaggio non deve essere dato per scontato. La ricerca sulle previsioni di viaggio di quest'anno mostra una serie di comportamenti paradossali intenzionali che ci permetteranno di vivere più serenamente in un contesto di incessante instabilità. Indica anche che la voglia di viaggiare è un modo per cercare momenti di felicità e di evasione, per contrastare la dura realtà mostrata dai notiziari. L'obiettivo di Booking.com per il prossimo anno e oltre sarà quindi continuare a rendere più facile per tutti trovare la propria oasi di felicità nel viaggio, in modo più personalizzato e connesso". 

Ansa

L'anniversario. «Così Luigi Ghirri ha aperto un nuovo continente per la fotografia»

Reggio Emilia celebra i 30 anni della morte con una mostra sul tema del paesaggio in miniatura. La curatrice Campioli: «C'è un prima e un dopo Ghirri in fotografia»
Luigi Ghirri, "Rimini 1977". L'opera è esposta a Reggio Emilia nella mostra “In scala diversa”

Luigi Ghirri, "Rimini 1977". L'opera è esposta a Reggio Emilia nella mostra “In scala diversa” - Archivio Eredi Luigi Ghirri

Luigi Ghirri, “Rimini 1977”. L’opera è esposta a Reggio Emilia nella mostra “In scala diversa” – Archivio Eredi Luigi Ghirri

Non aveva neppure 50 anni Luigi Ghirri quando scompare all’improvviso nel 1992 a causa di un infarto. Ma in due decenni soltanto ha tracciato un corso inedito della fotografia attraverso un costante riesame del suo codice, uno smontaggio e rimontaggio dei meccanismi linguistici dell’immagine che lo avvicina, specie nella prima metà della sua carriera, agli artisti concettuali e che poi si proietta sulla parte più celebre e apparentemente più accessibile del suo lavoro, quella sul paesaggio.

A Reggio Emilia, in occasione del trentennale della morte, la mostra “In scala diversa. Luigi Ghirri, Italia in Miniatura e nuove prospettive” (Palazzo dei Musei, fino all’8 gennaio), a cura di Joan Fontcuberta, Ilaria Campioli e Matteo Guidi, riunisce per la prima volta tutte le fotografie realizzate all’interno dell’Italia in Miniatura di Rimini, un parco tematico progettato da Ivo Rambaldi e inaugurato nel 1970, dove la sagoma dello Stivale racchiude le riproduzioni di monumenti e località.

È un vero snodo nel lavoro di Luigi Ghirri. Vi troviamo condensati tutti i temi da lui affrontati, a partire dal “regno dell’analogo”, dove la concretezza del reale è data proprio dalla moltiplicazione nella sua immagine, ma anche i futuri sviluppi. «Ghirri presenta la serie In scala per la prima volta nel 1979 ma sappiamo che è tornato nel parco più volte negli anni seguenti – spiega Ilaria Campioli, curatrice della sezione di fotografia di Palazzo dei Musei –. L’Italia in Miniatura gli appare come un banco di prova dove testare la sua idea di fotografia e un luogo di sintesi. Evidentemente era un luogo illuminante. Nei testi è molto chiaro: il parco è un atlante tridimensionale. Allo stesso tempo emerge in queste immagini un tema chiave del Ghirri futuro come quello della soglia. Ghirri osserva che il parco è così esplicitamente finto da essere il solo strumento capace di richiamare l’esperienza del reale. È come se riconoscesse in questi modelli il dispositivo della fotografia, che è a sua volta una miniaturizzazione fisica del mondo. Fontcuberta sostiene che al parco Luigi Ghirri stia fotografando la fotografia».

Ma è anche da qui che si deve guardare il Ghirri più noto di Viaggio in Italia. Ghirri sembra sia dovuto arrivare al paesaggio, da cui solitamente un fotografo inizia, mettendo prima a registro il problema della fotografia. Nel parco trova il momento in cui paesaggio e fotografia coincidono, e questo gli consente di affrontare con piena libertà il campo aperto. «E lo fa con un nuovo approccio. L’Italia di questo parco è quella dei grandi atlanti fotografici Alinari: l’Italia del monumento, dell’eccezionalità isolata dal contesto. È una geografia per aneddoti. Quando esce, Ghirri fotografa quello che sta nel mezzo. Si vede la libertà acquisita nel fatto che da San Pietro in miniatura si sposta a luoghi che nessuno ha mai fotografato. Per Ghirri il paesaggio non era un’esperienza di bellezza, ma di appartenenza. E tutt’altro che malinconica, come spesso si pensa. È il cambio di sguardo che coinvolge una generazione di fotografi che non a caso coinvolti da lui in progetti realizzati in gruppo in una condivisione di intenti: Barbieri, Chiaramonte, Guidi, Jodice, Basilico…».

Nell’indice dei nomi di Niente di antico sotto il sole (Quodlibet), che raccoglie i suoi testi, Bob Dylan è il nome più citato dopo gli amatissimi fotografi americani. «Spesso si sottolinea il legame di Ghirri con gli scrittori, a partire da Gianni Celati, e la letteratura. Ma io credo che fosse più forte quello con la musica. In un’intervista con Lucio Dalla dice che le fotografie sono come le canzoni: piccole e fragili. Nel suo identikit fotografico si vede un grande scaffale pieno di lp. Ma è un tema ancora inesplorato. Io credo che il rapporto con la musica sia stato in avere, mentre in quello con la scrittura in dare. Penso ad esempio all’idea, così dylaniana, della pianura e del viaggio».

La mostra presenta stampe vintage incorniciate alle pareti e nelle vetrine gli scatti provenienti dai negativi dell’archivio custodito nella Biblioteca Panizzi: «Sono oltre150mila negativi. Ghirri ha fotografato moltissimo, specie per quegli anni. In accordo con gli eredi stiamo progettando mostre che esplorano l’archivio con uno sguardo diverso, considerandolo come qualcosa di vivo. Per entrare nei suoi processi creativi ». Una pratica per altro rispettosa del metodo di Ghirri che non ha mai eseguito ritratti ma ha preferito rappresentare le persone attraverso le cose sedimentate negli spazi in cui vivono: «Gli ultimi lavori, come quelli dedicati a Morandi, sono tutti in interno. Sembrano aprire vie nuove: dove sarebbe andato? Non si considerava il fotografo della grande opera. Non avrebbe mai voluto essere trasformato in un simulacro. Le sue immagini oggi sono imitate, copiate. La rete pullula di “immagini alla Ghirri”. Questo è un modo per spezzare un processo in cui non si sarebbe mai riconosciuto ».

Eppure all’estero Ghirri non è ancora noto in modo universale: «Francia a parte, Ghirri in generale fuori dall’Italia è conosciuto troppo poco e in modo incompleto. Molti fotografi stranieri che arrivano qui a Reggio Emilia per Fotografia Europea lo scoprono quasi per la prima volta. Ed è incredibile che il MoMA non gli abbia mai dedicato una mostra. È un sintomo della difficoltà storica di inquadrare Ghirri».

Ma a 30 anni dalla morte è impossibile sottovalutarne l’eredità: «Quando inizia a lavorare c’erano due modi di fare fotografia: il fotogiornalismo e la fotografia artistica in bianco e nero. Ghirri inaugura una terza via, e oggi molti fotografi vi sono dentro. Senza l’immediatezza e la facilità di muoversi in simbiosi con la scrittura e la musica, oggi non avremmo i giovani che lavorano con gli scienziati o usano le immagini che arrivano dai telescopi… Non è un caso che molti all’inizio, anche colleghi importanti, non lo capivano. Non era scontato. È stato in grado di creare una strada che non sta neppure in mezzo, ma oltre. Con la sua massa di immagini ha aperto un continente nuovo per la fotografia. Forse a Ghirri sta stretta la definizione di fotografo: prima ancora è un artista che usa l’immagine».
Avvenire

Arte sacra. Milano si prepara a celebrare 800 anni di Regola francescana

Il Museo dei Cappuccini organizza due mostre per l’occasione: da ieri in esposizione la “Sacra Conversazione” di Lorenzo Berrettini, proveniente dalla chiesa delle Suore Clarisse di Cortona



Ottocento anni della Regola di san Francesco d’Assisi. E ottocento anni di presenza clariana e francescana a Milano. Per ricordare e celebrare queste ricorrenze le famiglie francescane organizzano un percorso lungo un anno che unisce arte, storia, cultura, testimonianza e spiritualità.
Il 29 novembre 1223 infatti, Papa Onorio III approvò la Regola di vita di Francesco d’Assisi e dei suoi frati; nello stesso anno, antichi documenti attestano la presenza a Milano di Suore Clarisse, seguaci di Chiara d’Assisi. Otto secoli dopo, il Museo dei Cappuccini ospita due mostre. La prima è stata inaugurata ieri: “Si è fatto nostra via: la strada di Chiara e Francesco”, che vede l’esposizione della lunetta di Lorenzo Berrettini del monastero delle Clarisse di Cortona. La tela, restaurata per l’occasione, ha lasciato per la prima volta la sua sede; attorno a questa sono esposti dipinti della collezione permanente dei Beni Culturali Cappuccini della Lombardia legati sempre alle figure di Chiara e Francesco.

«Ci emoziona farci presenti tra voi anche soltanto con alcune parole. La venuta al Museo dei Cappuccini di Milano della “Sacra Conversazione” di Lorenzo Berrettini, custodita nella nostra chiesa, è stata e continua ad essere l’esperienza del dono di legami, legami che hanno il sapore buono dell’amicizia»: è questo il messaggio giunto a Milano da parte delle Suore Clarisse di Cortona. L’opera rappresenta la Vergine Maria che porta in braccio il piccolo Gesù; ai due lati sono raffigurati san Francesco e santa Chiara inginocchiati, impegnati in un dialogo lui con il Bambino e lei con la Madonna.
«Gli eventi che il museo organizza, compresa questa esposizione straordinaria, sono fatti per raggiungere non solo gli appassionati d’arte ma anche gli interessati al francescanesimo. L’idea del museo è infatti restituire la natura dei frati, raccontare cioè la loro storia a partire da un’opera d’arte, che è anche la storia della comunità che in quell’epoca fruiva dell’opera» ha dichiarato Rosa Giorgi, direttrice del museo e curatrice della mostra, che resterà aperta al pubblico fino al 14 gennaio prossimo. Al suo posto, dal 18 marzo al 17 giugno 2023, sarà allestita la mostra intitolata “Si è fatto nostra via: la Regola e la vita”, che renderà visibili al pubblico le antiche pergamene che attestano la prima presenza delle Clarisse a Milano.

Nel corso dell’anno saranno organizzati incontri di preghiera e testimonianza di fede sui diversi aspetti della vocazione francescana. Il primo nel giorno dell’anniversario dell’approvazione della Regola: martedì 29 novembre si terrà “Fratelli e Sorelle sulla via del Vangelo”, organizzato dai Frati Minori del convento Sant’Angelo. Si passerà poi al 2023: il giorno 8 febbraio i Frati Minori Cappuccini del convento del Sacro Cuore animeranno “Seguendo Cristo in povertà e carità”; poi il 20 aprile ci sarà “Chiamati all’annuncio del Vangelo” con i Frati Minori Conventuali del convento Beata Vergine Immacolata e Sant’Antonio. Gli ultimi due appuntamenti saranno il 6 giugno e il 14 settembre. Nel primo caso le Sorelle Povere di Santa Chiara ospiteranno nel loro monastero “Nella preghiera luogo di incontro e dialogo”, invece il secondo incontro sarà organizzato dal Terzo Ordine Regolare di san Francesco presso il convento Santi Patroni d’Italia e si intitolerà “Al cuore della vocazione francescana”.
A chiusura di un anno di celebrazioni e ricordi si terrà una messa conclusiva dell’Anno centenario presieduta dall’Arcivescovo Mario Delpini: l’appuntamento è per il 4 ottobre 2023 (giorno di san Francesco) nella Basilica di Sant’Ambrogio.
Menzione a parte per “Tracce di Storia francescana a Milano”, un convegno di studi che si terrà al Centro Francescano Rosetum il giorno 6 maggio, dalle 9.30 in poi.
Avvenire

Arte. Leonardo: il “Salvator Mundi” avrà un museo in Arabia Saudita

Martin Kemp, lo storico dell'arte al quale si deve l'attribuzione a Leonardo da Vinci, ha affermato di essere stato invitato a discutere del progetto, destinato a essere realizzato in due anni

Un particolare del Salvator Mundi attribuito a Leonardo

Un particolare del Salvator Mundi attribuito a Leonardo - Ansa

Il Salvator Mundi attribuito a Leonardo da Vinci sarà esposto in un museo che si sta costruendo in Arabia Saudita e che dovrebbe essere inaugurato entro un paio di anni. Lo ha annunciato lo storico dell'arte britannico Martin Kemp, professore emerito dell'Università di Oxford, tra i maggiori specialisti di Leonardo e al quale si deve la controversa attribuzione del dipinto, intervenendo al Cheltenham Literary Festival.
Il "Salvator Mundi" è nascosto alla vista del pubblico da cinque anni: la sua posizione e il suo status sono sconosciuti da quando è stato venduto all'asta da Christie's a New York nel 2017 per 450 milioni di dollari, dopo che era stato venduto a un consorzio di mercanti d'arte a New Orleans nel 2005 per soli 1.175 dollari.
Kemp ha reso noto di essere stato convocato in Arabia Saudita per ispezionare il dipinto su invito del principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman Al Saud, che dice stia costruendo una galleria d'arte in cui esporre il dipinto leonardiano. Il quadro è stato ufficialmente acquistato all'asta da Badr bin Abdullah, ritenuto vicino al principe ereditario Bin Salman.
Dal 2017 voci non confermate hanno collocato il dipinto in un deposito in Svizzera o a bordo dello yacht personale di Mohammed Bin Salman.
Il dipinto è stato messo all'asta nel 2005 presso la casa d'aste St. Charles Gallery di New Orleans, negli Stati Uniti. Fu consegnato dalla fondazione dell'uomo d'affari di Baton Rouge Basil Clovis Hendry Sr. Il quadro era stato pesantemente sovradipinto, facendo ritenere a molti specialisti che fosse solo una copia dell'opera originale. L'opera restaurata è stata successivamente presentata in una grande mostra su Leonardo alla National Gallery di Londra nel 2011.
L'Arabia Saudita aprirà il prossimo anno il Wadi AlFann, un enorme complesso culturale vicino alla città di Al Ula. La curatrice britannica Iwona Blazwick, ex direttrice della Whitechapel Gallery di Londra, sta consigliando il regno su iniziative culturali in qualità di consulente. Interpellato da "The Art Newspaper" se si tratti del museo che ospiterà il "Salvator Mundi", Martin Kemp non ha risposto.
Avvenire

La mostra al Meis di Ferrara. La linfa vitale che scorre da Sukkot ai Vangeli

La simbologia della festa si ritrova nei testi cristiani: tende, luce, acqua. Echeggia anche in episodi come la cacciata dei mercanti e l’incontro con Nicodemo
Uno dei pannelli conservati all’Abbazia di Praglia

Uno dei pannelli conservati all’Abbazia di Praglia - Maurizio Cinti

Avvenire
Le feste ebraiche nei primi secoli del cristianesimo esercitarono un notevole fascino sui giudeo-cristiani e anche sui cristiani provenienti dal paganesimo, e la fede cristiana in modo più o meno consapevole è tuttora innestata sulle radici ebraiche, che non cessano di trasmetterle una linfa vitale. Ciò vale in particolare per la grande festa di Sukkot. La predicazione di Yehoshua il Galileo, Messia crocefisso, rabbi proveniente da Nazareth osannato dalle folle ma osteggiato da autorità religiose, viene situata - specialmente dal Vangelo secondo Giovanni - nel quadro dei tre principali pellegrinaggi che hanno in Gerusalemme il loro centro: Pesach, Shavuot e Sukkot, festa quest’ultima che nel corso dei secoli si era idealmente congiunta con Hannukah e la Dedicazione del Tempio a opera di Giuda Maccabeo. La Mishnah e il Talmud dedicano ampio spazio a Sukkot, perciò possiamo conoscerne numerosi dettagli, che ci permettono di comprendere molte espressioni di Gesù secondo i Vangeli, inquadrandole nel loro originario 'ambiente vitale' o Sitz im Leben. All’epoca di Gesù la 'grande festa' autunnale di Sukkot - detta in greco nei Vangeli Scenofegia dei Tabernacoli ( Tende) o delle Capanne - si era già molto arricchita di significati cosmici e storici, liturgici e religiosi, politici, escatologici ed ecumenici, innestati su antiche tradizioni cananee. Il popolo che compiva il terzo pellegrinaggio, nell’atmosfera gioiosa dei raccolti e delle vendemmie, ricordava contemporaneamente le difficili condizioni del deserto, la proclamazione della Torah, la consacrazione del Tempio, l’epopea nazionale, l’inizio di un nuovo anno salutato quasi come una 'Pasqua d’autunno', l’attesa del Messia. Gesù stesso, assiduo ai pellegrinaggi prescritti dalla Torah (Es. 23; Lev. 23; Deut. 16), prendeva parte alla festa che, al suo tempo, si celebrava in un tripudio notturno di luci, musiche e acque zampillanti, aperta su orizzonti messianici e universali inclusivi di tutti i popoli secondo le profezie dei giorni ultimi e del giardino di Eden in Aggeo e Zaccaria. Il maestro venuto dalla Galilea a più riprese è presentato come sorgente di acqua viva: alla Samaritana (Gv. 4), alla piscina di Siloe (Gv. 9), alla conclusione di Sukkot (Gv. 7) e, infine, sulla croce (Gv. 19,34-35). Simili espressioni evocano le immagini del pozzo traboccante che segue il popolo nel deserto come in Tosefta Sukkah (3,3) e in Targum Numeri (21,17), e del fiume di acque vive profetizzato da Ezechiele e Zaccaria. In coincidenza con uno dei solenni atti celebrativi a Sukkot, mentre un sacerdote attingeva con una brocca d’oro alla piscina di Siloe l’acqua destinata alla libazione sull’altare dei sacrifici (Mishnah, Sukkah, 4,9), la scena che potremmo immaginarci si svolgeva forse nel modo rappresentato nell’affresco nella sinagoga di Dura Europos, con il pozzo le cui acque fluiscono verso le dodici tende delle tribù d’Israele. Tali acque, sgorganti dall’altare in virtù di questo atto cultuale al culmine di Sukkot, assumevano una straordinaria pregnanza, evocante le acque della Creazione e della Redenzione o nuova creazione, come in Ezechiele 47 o in Apocalisse 22. Tra i gesti e le parole di Gesù sparsi nei quattro Vangeli canonici, che possiamo collegare più o meno direttamente alla festa, ne consideriamo alcuni riguardanti i temi caratteristici delle tende o capanne, della luce, dell’acqua. La sukkah, in greco skené, in virtù di una ricchissima simbologia biblica rinvia alle tende di Abramo e Sara, del Convegno con Mosè e il popolo, di Davide e, infine, alla Dimora nel Tempio di Gerusalemme. Nel Vangelo le tende sono anche menzionate con insistenza nell’episodio della Trasfigurazione, denso di riferimenti e allusioni simili a un midrash, quando Simon Pietro propone d’innalzare sul monte tre capanne per Gesù, Mosè ed Elia, un episodio riferito con cura ben tre volte dagli evangelisti (Mt. 17; Mc. 9; Lc. 9). Il vertice di questa simbologia della sukkah si tocca nel Vangelo secondo Giovanni che, proponendo un ardito collegamento tra Shekhinah e Skenè, annuncia che il Lògos o Verbo eterno pone la sua tenda tra gli uomini (Gv. 1), come Sapienza fattasi 'carne e sangue', amante dell’umanità secondo Proverbi 3 e 8. Il tema della luce, che pure si radica fin nella prima pagina della Creazione e accompagna le manifestazioni divine a protezione e guida del popolo a Pesach e nel deserto, è un altro dei segni grandiosi della rivelazione divina che opera la salvezza d’Israele. I profeti, specialmente Isaia, vengono citati nel Vangelo secondo Matteo come prova della grande luce splendente su tutti i popoli (Mt. 4,16), e la città luminosa che attira a sé con la sua luce (Mt. 5,16) sembra un rimando chiaro a Sion e al Tempio, risplendente delle luci notturne di Sukkot, quando diventerà meta di tutti i popoli e fonte di pace universale (Zacc. 14; Is. 2). Più volte Gesù sottolinea che «la luce è venuta nel mondo» (Gv. 3,19; 9,5) e l’evangelista lo chiama «la luce vera» (Gv. 1,9; 8,12). Il terzo tema è l’acqua, come già si è detto, non meno importante per il rinvio alle acque primordiali, elemento essenziale per la vita di piante, animali e uomini, divenendo simbolo della Parola di Dio e della Torah, sorgente di vita. Gesù promette che donerà un’acqua «che zampilla per la vita eterna» (Gv. 4,14), e a Cana di Galilea si manifesta con un primo segno a partire dall’acqua mutata in un vino straordinariamente delizioso, che pare alludere al vino di Sukkot e dei tempi messianici (Gv. 2). Egli ancor più esplicitamente affermerà, nell’ultimo giorno di Sukkot: «Chi ha sete venga a me, e beva» (Gv. 7,37), e poco dopo invierà il cieco nato a lavarsi a Siloe per acquistare la vista (Gv. 9,7). Oltre a questi temi principali che fanno riferimento più o meno esplicito a Sukkot, altri se ne possono individuare come possibili spunti per ulteriori approfondimenti. Solo a titolo di esempi, la cacciata dei mercanti dall’atrio del Tempio o il discorso notturno tra Gesù e Nicodemo. I mercanti vengono cacciati dal Tempio durante una Pasqua, secondo l’evangelista Matteo, al termine del ministero pubblico di Gesù (Mt. 12,17; Mc. 11,15-19; Lc. 19,45-48), mentre il Vangelo secondo Giovanni (2,1322) narra questo episodio all’inizio della predicazione di Gesù. Ora, la cacciata dei mercanti - gesto molto significativo rimanda a profezie messianiche universalistiche (Is. 56,7) tipiche anche della festa di Sukkot, e più in particolare alla profezia di Zaccaria (14,21), quando, adempiendo il pellegrinaggio di Sukkot con la partecipazione di tutti i popoli pagani, non ci saranno più 'Cananei' nel Tempio, perciò si potrebbe anche ipotizzare che il tempo e il luogo più adatto per tale gesto profetico sia stato non Pasqua, bensì appunto Sukkot, o forse entrambe le feste. Quanto all’incontro notturno di Nicodemo con Gesù, lungamente descritto da Giovanni, esso si conclude ancora una volta con l’affer-mazione di Gesù: «La luce è venuta nel mondo» (Gv. 3,19), una dichiarazione che poco sopra abbiamo già commentato e che allude alle luci festose, caratteristiche sia di Sukkot sia della più recente festa di Hannukah. La conoscenza e l’esperienza di questa festa - come in genere delle feste d’Israele - offrono anche alla fede cristiana spunti per approfondimenti vitali, facendo riscoprire, dopo i secoli dell’antisemitismo, una fraternità di gioiosi sentimenti condivisi.
Sukkot è una delle principali ricorrenze del calendario ebraico: fa riferimento all’episodio biblico in cui gli ebrei rimasero nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto, celebra la permanenza e sopravvivenza nel deserto grazie alla provvidenza del Cielo e la precarietà della vita, rappresentata dalle capanne. Da oggi al 5 febbraio 2023, con “Sotto lo stesso cielo”, mostra a cura del direttore Amedeo Spagnoletto e Sharon Reichel, il Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah (Meis) di Ferrara approfondisce la festa e le sue molteplici sfaccettature. L’esposizione è dedicata agli aspetti religiosi, tradizionali e alla stretta connessione tra natura ed espressioni artistiche che questa ricorrenza genera, con un percorso originale che invita i visitatori a partecipare attivamente. Ancora oggi, le famiglie ebraiche costruiscono nei giardini delle sinagoghe o nelle terrazze delle loro case le capanne con tetti coperti da frasche dentro le quali trascorrono tutti e sette i giorni di festa, condividendo i pasti con numerosi ospiti. La ritualità è contrassegnata dal lulav, composto da un ramo di palma, tre rami di mirto, due rami di salice e un cedro, utilizzato durante le preghiere con affascinanti significati simbolici. Il presidente del Meis Dario Disegni sottolinea «l’eccezionalità delle dieci tavole dipinte che decoravano una sukkah della fine del XVIII o XIX secolo, provenienti dall’Abbazia di Praglia». La mostra presenta infatti dieci pannelli lignei decorativi, prodotti in area veneziana di una sukkah (capanna) della fine del XVIII o del XIX secolo, di proprietà dell’Abbazia di Praglia: opere d’arte di valore inestimabile sopravvissute alla loro natura effimera e rimaste per questo inaccessibili al grande pubblico. Sui dieci pannelli spiccano decorazioni con soggetti biblici, accompagnati da scritte in ebraico, le festività ebraiche di Pesach e la costruzione della sukkah (Sukkot). Altri illustrano diversi personaggi come Abramo, Isacco e Rebecca, Giacobbe, Rachele, Giosuè, Re Davide, Mosè ed Elia. I pannelli che componevano la capanna venivano smontati ogni anno e riassemblati il successivo; per questo, le sukkot dei secoli passati sono andate disperse e perse a causa della loro natura temporanea e portatile. Quella di Praglia è tra le poche preziose testimonianze sopravvissute. Non mancano, rimarca Disegni, «numerosi appuntamenti didattici riservati alle scuole, un momento di profonda condivisione fra le culture e conoscenza reciproca». I pannelli a muro, la grafica e un video con animazione Lego raccontano come costruire una sukkah perfetta; cesti contenenti pezzi dei famosi mattoncini saranno poi a disposizione dei visitatori, invitati a costruire la propria capanna: un’attività rivolta sia ai bambini che agli adulti. Anticipiamo in queste colonne il contributo di Pier Francesco Fumagalli, viceprefetto della Biblioteca Ambrosiana, direttore delle classi di studi sull’Estremo Oriente dell’Accademia Ambrosiana e docente di Lingua e cultura cinese all’Università Cattolica, al catalogo della mostra.

La mostra a Parma. Goya e Grosz: quando la ragione dorme gli artisti vegliano

A Palazzo Pigorini si intrecciano si intrecciano i Capricci e i Disastri della guerra di Goya e una dozzina di tele (di cui una inedita) e un cospicuo gruppo di opere grafiche di Grosz
George Grosz, “A Piece of My World II The Last Battalion”, 1938

George Grosz, “A Piece of My World II The Last Battalion”, 1938 - George Grosz Estate. Courtesy Ralph Jentsch Berlin

Avvenire
Francisco Goya e George Grosz. Sembra l’uovo di Colombo, eppure nessuna mostra aveva affiancato il pittore spagnolo dell’illuminismo e l’espressionista tedesco. Accade per la prima volta a Parma dove si intrecciano – nei fatti una doppia personale in contrappunto – i Capricci e i Disastri della guerra di Goya e una dozzina di tele (di cui una inedita) e un cospicuo gruppo di opere grafiche di Grosz, tutte successive alla stagione Dada. A dare senso al progetto "Goya - Grosz. Il sonno della ragione" (fino al 28 gennaio) sono «la satira sociale dirompente, l’impegno politico, il rilievo morale e l’estrema innovazione formale che accomunano le opere dei due grandi pittori», spiegano in catalogo i curatori della mostra a Palazzo Pigorini (tra l’altro a ingresso gratuito) Ralph Jentsch e Didi Bozzini. Ma passando per le sale è chiara la fratellanza tra i due artisti che ambiscono con il loro lavoro a incidere sulla società e sul loro tempo ma che soprattutto avvertono e restituiscono contraddizioni e tragedie che appartengono come una costante all’uomo. Come chi si affida a ciarlatani invece che a scienziati e mistificatori invece che a politici. E la follia della guerra, dove l’uomo mostra il suo volto di lupo. Eppure non è un progetto nato sull’onda dell’attualità, bensì prima della pandemia. La cronaca l’ha raggiunto. Il percorso propone la sequenza integrale dei Caprichos, proveniente da Parigi, in una prova freschissima, tra le prime uscite dal torchio e con un prestigioso pedigree: venne infatti acquistata da Delacroix dietro consiglio di Baudelaire, al quale si deve per altro la riscoperta di Goya e la sua proiezione come elemento seminale della modernità. Seguendo Victor Stoichita, Bozzini riconosce nei Capricci, pubblicati il 6 febbraio 1799, l’ultimo Mercoledì delle ceneri del secolo, un grande carnevale. Questa mascherata, come in un comic novel ante litteram, mette in scena un mondo alla rovescia: ma solo in apparenza perché offre invece il ritratto di un’aristocrazia ignorante e inetta, un clero reazionario, un popolo superstizioso.
Si capisce bene allora la maschera sdegnosa dell’autoritratto (in vesti giacobine: in costume, sostanzialmente) che apre la serie e che nel bozzetto riporta questa didascalia: “Il mio vero ritratto, di umore nero e in atteggiamento satirico”. Goya nei Capricci ha una vis comica, per quanto acre, assente in Grosz. Goya interpreta l’adagio di chi castigat ridendo mores – un’espressione d’altronde non così antica a quei tempi: venne infatti composta da Jean de Santeuil nella seconda metà del Seicento per il busto di Arlecchino sul proscenio della Comédie Italienne a Parigi. Sempre nel carnevale, dunque, siamo. Il Goya pittore di corte interpreta anche il joker che si permette di sottolineare vizi e peccati. Sa di poter contare sulla protezione dell’aristocrazia progressista e più sopra ancora del re, alla quale infatti ricorre quando l’Inquisizione si mette alle sue calcagna. Ma Goya è fiducioso in un progresso. La sua satira asseconda – con un talento shakespeariano per il fantastico unito all’ironia dello scettico – una lettura senza sfumature dell’uomo: la luce dell’elemento razionale contro il buio dell’irrazionale che lo ricaccia nella sfera della bestialità. La storia gli farà cambiare idea. Lo rendono evidente i Disastri della guerra, dove l’elemento morale resta fortissimo ma ha perso ogni manicheismo: tutto accade alla luce del sole perché è buio anche il pieno giorno. E il fantastico ha ceduto il passo a un realismo che supera in fantasia ogni incubo. Da qui parte Grosz, che del Novecento assorbe e anticipa disillusione e disincanto. Il suo attacco alla società è frontale, senza vie di uscita. Prima è la Germania di Weimar. Quindi quella hitleriana, che Grosz seguirà a New York, dove è accolto a braccia aperte (ma non esiterà a metterne alla berlina le contraddizioni), dopo la fuga da Berlino nel gennaio 1933, appena prima che il Führer avvii la macchina totalitaria. Grosz appare sempre in anticipo, capta il disastro incipiente quando nessuno ancora lo vede. La sua satira è cupamente acida, anche a fronte di una tavolozza non di rado di consistente splendore cromatico e vibrata sulla tela con pennellate dense (fondamentale ad esempio per la pittura di Baselitz, e non solo la prima). Ma mentre avanza la storia Grosz è proiettato nel post-apocalisse. La terra è l’inferno, l’uomo è ridotto ai bisogni primari. «Senza dubbio – scrive in una lettera dagli Stati Uniti nell’agosto 1933 – i miei fogli sono tra le cose più forti che siano state dette contro questa particolare brutalità tedesca. Oggi sono più veri che mai e in futuro – in tempi, perdona la parola, più 'umani' – verranno mostrati proprio come oggi si mostrano le opere di Goya…».