ADDIO A CAMILLERI, L'ITALIA PIANGE IL PAPÀ DI MONTALBANO



31 MILIONI DI COPIE. NIENTE CAMERA ARDENTE, FUNERALI PRIVATI Andrea Camilleri è morto all'ospedale Santo Spirito di Roma dove era ricoverato da un mese. L'autore geniale dei libri del commissario Montalbano aveva 93 anni. Per volontà della famiglia non ci sarà camera ardente e il funerale si svolgerà domani in forma privata. Regista di teatro, funzionario Rai, poi il boom da romanziere a 60 anni: cento libri, 27 su Montalbano, un fenomeno da 31 milioni di copie. 'Il commissario finirà con me', disse. Ascolti record per la serie tv con Luca Zingaretti, vista 1,2 miliardi di telespettatori. Tutta Italia piange la morte del maestro. Mattarella: 'Ha avvicinato gli italiani ai libri'. Conte: 'Un maestro che ha saputo parlare a tutti'. La notizia fa il giro del mondo. 

«Nacque il tuo nome da ciò che fissavi» 18-24 agosto 2019 | Fiera di Rimini XL edizione Meeting per l’amicizia fra i popoli

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Quello a cui stiamo assistendo nel nostro tempo è qualcosa di nuovo, di inedito: non bastano più le parole abituali per afferrarlo, e le analisi con cui si è cercato per tanto tempo di capire la crisi – o meglio le diverse crisi – del nostro mondo sembrano armi spuntate.
Da un lato una capacità stupefacente di costruire, manipolare e controllare la realtà attraverso un potere tecnologico sempre più diffuso; dall’altro un sempre più profondo smarrimento riguardo al senso per cui ciascuno di noi sta al mondo e alla società che si vuole costruire. E così, paradossalmente, alla potenza della tecnica, che muove ormai l’economia e la politica globali, si accompagna l’impotenza endemica della povertà – povertà di beni e soprattutto di significato – che dilaga nel mondo.
Ma qual è la novità che urge? Essa sta nella realtà più nascosta e apparentemente più scontata, ma al tempo stesso più essenziale e decisiva di tutto il resto: l’io di ciascuno di noi.
È in questa realtà del soggetto umano il punto infuocato del mondo intero, quello da cui dipendono ultimamente tutti i macrofenomeni della storia. Ma la grandezza e l’inquietudine dell’io, in ciascuno di noi, sta nella sua autocoscienza, nella possibilità – sempre aperta – di cercare e di scoprire ciò per cui vale la pena vivere e costruire. Qui sta il punto d’appoggio per vivere tutto: è grazie ad esso, alla consistenza della nostra coscienza, che possiamo affrontare le sfide della storia.
Per questo la domanda più interessante, e insieme la più pertinente al nostro presente, è: ma da dove nasce l’io? Da dove viene il “volto” di ciascuno di noi? Cosa dà peso e significato irriducibile al nostro “nome” proprio? Perché senza volto non si può guardare niente e non si può godere di niente; e senza nome ci si riduce al niente di una massa indistinta.
È la domanda acutissima e insieme disarmata che Nicodemo rivolse a Gesù: «Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?». E la vecchiezza non è solo e tanto quella dell’età, ma è soprattutto quella del cuore e dello sguardo. Come nasce, e come può rinascere di continuo il volto di una persona?
I versi da una poesia di Karol Wojtyla, che danno il titolo al Meeting 2019, mettono a fuoco il fatto – sperimentato da tutti, almeno nei momenti più importanti e decisivi della vita – che il proprio “nome”, cioè la propria consistenza umana nasce da quello che si fissa, e cioè dal rapporto con un altro da sé, con ciò da cui ci si sente chiamati ad essere. L’immagine cui la poesia si riferisce è quella della Veronica che fissa Cristo mentre passa con la croce. Ma tanti incontri evangelici raffigurano questa dinamica: come quello di Zaccheo che si sente guardato da Gesù e viene chiamato per nome: «scendi in fretta, vengo a casa tua!».
L’io può rinascere solo in un incontro, come quello del bambino con la sua mamma o di una persona grande con un'altra persona amata o con un amico. Un incontro pienamente umano, perché apre all’io una prospettiva di bellezza, un desiderio di pienezza, un’urgenza di verità e di giustizia che da solo non si sarebbe mai sognato.
In ogni incontro vero è come se ciascuno si sentisse “preferito”: proprio lui, proprio lei. Sembra la cosa più fragile e più esposta al caso; ma è l’esperienza più potente che possiamo fare, l’unica che può farci restare in piedi di fronte alle sfide del tempo. Non è anzitutto in uno sforzo di volontà o in una coerenza etica, che potranno essere affrontati l’incertezza e la confusione esistenziale che segnano la nostra epoca. Nessuna tecnica per la “cura di sé”, nessuna riflessione avrebbe la forza generativa di un incontro: solo una preferenza su di sé può strapparci dal nulla.
In uno dei punti più acuti del Senso religioso don Giussani scrive: «In questo momento io, se sono attento, cioè se sono maturo, non posso negare che l’evidenza più grande e profonda che percepisco è che io non mi faccio da me, non sto facendomi da me. Non mi do l’essere, non mi do la realtà che sono, sono “dato”. È l’attimo adulto della scoperta di me stesso come dipendente da qualcosa d’altro. [...] Si tratta della intuizione, che in ogni tempo della storia lo spirito umano più acuto ha avuto, di questa misteriosa presenza da cui la consistenza del suo istante, del suo io, è resa possibile. Io sono “tu-che-mi-fai”. [...] Allora non dico: “Io sono” consapevolmente, secondo la totalità della mia statura d’uomo, se non identificandolo con “Io sono fatto”. È da quanto detto prima che dipende l’equilibrio ultimo della vita»
Accorgersi di “essere”, aver coscienza che si è “chiamati” ad esistere è l’esperienza più sconvolgente per tutta la cultura – dalla scienza all’economia, dalla politica all’arte: da essa dipende la possibilità stessa di un nostro impegno serio nella realtà.
Nell’edizione del Quarantennale il Meeting vuole offrire questo come il contributo più prezioso della sua storia e del suo impegno presente: solo l’incontro con persone “vive” può riaprire l’io di ciascuno di noi a tutte le dimensioni del mondo.
https://www.meetingrimini.org/edizione-2019/

Erbette, che bontà!! Al castello di Senarega



La torta Pasqualina, i pansoti, il minestrone genovese:
piatti della tradizione cucinati da mamme e nonne, che come base hanno erbe spontanee, tipiche del territorio ligure. A renderle peculiari è proprio il clima della nostra regione: l’ambiente soleggiato, l’influenza delle montagne e del mare, formano un mix unico.

Fin dall’antichità venivano utilizzate in cucina, inizialmente considerate un cibo povero, oggi ristoranti e osterie tipiche le propongono nei piatti della tradizione riportando alla vita l’antico sapere dell’utilizzo delle materie prime provenienti dalla terra. Prodotto principe è il Prebuggiùn (o Preboggión), a base di circa 7 erbe spontanee considerate “povere” ma molto gustose: la borragine, la malva selvatica, il ravanello selvatico, la pimpinella, la grattalingua comune, la silene rigonfia e il grespino comune.

Parte della bellezza della natura è proprio avvicinarsi agli antichi saperi: una passeggiata può rivelarsi fonte di grandi scoperte. E’ proprio quello che succede al castello di Senarega ormai da un anno: grandi e piccini vengono accompagnati da un esperto conoscitore delle piante locali, imparando a riconoscerle, raccoglierle e successivamente cucinarle, seguendo le ricette dei nostri nonni.

segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone - Turismo Culturale

Torino. De Chirico e «l'antichità come futuro»

De Chirico e «l'antichità come futuro»
da Avvenire
Facciamo l’appello. Una mostra su Giorgio de Chirico è in corso fino al primo settembre a Genova a Palazzo Ducale. Finita questa, il 25 settembre è preannunciata da settimane una grande retrospettiva “tutto De Chirico” a Milano, nelle sale di Palazzo Reale, a cura di Luca Massimo Barbero, che radunerà circa cento opere anche da grandi musei stranieri. Nei primi mesi di quest’anno alla Fondazione Magnani Rocca è stata messa in scena l’accoppiata De Chirico-Savinio, un vecchio mantra che ripete e insinua il dubbio se Alberto non sia, in fondo, pittore più importante di Giorgio (certo fu un gigantesco scrittore, critico teatrale, musicologo e altro ancora). Alla fine dello scorso anno ha visto la luce la corposa (e faticosa: oltre cinquecento pagine) ricostruzione semiotica e analitica dei valori estetici delle immagini metafisiche di De Chirico, condotta da Riccardo Dottori e pubblicata dalla Nave di Teseo. Infine, questa mostra della Galleria d’Arte Moderna di Torino su De Chirico e la sua influenza sull’arte contemporanea (“Giorgio de Chirico. Ritorno al futuro”; fino al 25 agosto), in particolare l’ultimo De Chirico, quello più svalutato dalla critica, che si condensa nella categoria della Neometafisica. Si può considerarlo il conatus di De Chirico, una sorta di divertito gioco postmoderno che diventa metalinguismo riferito alle proprie fasi artistiche precedenti, dal periodo ferrarese della Metafisica (ma anche prima, in realtà, per esempio la formazione durante l’infanzia greca e poi il soggiorno parigino) fino alla citazione, i manichini e i gladiatori, ai ritorni su se stesso, ai depistaggi, al disinvolto esercizio della firma. Come dirà Andy Warhol, che lo amava particolarmente proprio per questa libertà che sconfina talvolta nella contraffazione di sé, «ripeteva i suoi dipinti di continuo». In mostra, una foto di Gorgoni del 1972 li riprende a New York rivelando nel chiaroscuro le loro contrapposte personalità: ironica e istrionica.
Prima di affrontare lo spunto che ci offre la mostra torinese curata da Lorenzo Canova e Riccardo Passoni, è giusto domandarsi che cosa possa significare questa concentrazione ravvicinata di mostre dedicate al pictor optimus. Indica forse che il pittore offre nuove suggestioni e ispirazioni? Non ne sono sicuro. Anche se la sua fantasia sontuosa e l’uso spregiudicato di una pittura che dall’eleganza scarta improvvisamente nella sciatteria, come accade appunto nella Neometafisica, può far pensare a un nume adatto al nostro tempo. L’affastellarsi di mostre in un tempo così contratto fa piuttosto pensare a un nuovo tentativo di sostegno del mercato di De Chirico, e magari proprio quei periodi che la critica ha spesso rifiutato. La critica, ma non gli artisti, come recita il motto – “Ritorno al futuro” – su cui si sdipana la mostra torinese. Scrive Canova che De Chirico ha decostruito il sistema dell’immagine stravolgendone i canoni tradizionali, «mettendo in crisi i suoi stessi codici fondativi». Se il primo De Chirico metafisico divide col dadaismo – come sostenne Maurizio Calvesi – «il recupero dell’oggetto così com’è», in realtà la categoria che opera trasversalmente sull’intero percorso creativo di De Chirico è proprio quella del metalinguismo, l’idea che la finzione sia a sua volta la finzione di una coscienza di quello che si sta facendo. Per De Chirico l’oggetto dipinto è inevitabilmente di testimone di qualcosa che sopravvive come dettaglio muto, è il reperto che ci parla dell’ultima Thule, dell’isola perduta (o che va a perdersi): l’arte stessa, travolta dalle distruzioni di un mondo che sembra non rendersi conto di ciò che produce: vuoto, morte, rovine, cancellazioni di ciò che ricordava alla nostra umanità quanto avevamo saputo osare anche contro il volere degli dèi. Attraverso De Chirico – scrive Canova – i contemporanei hanno riscoperto «uno scenario dove la rappresentazione iconica, esclusa e dannata per lungo tempo, si riproponeva come una nuova possibilità di salvezza per un’arte che doveva confrontarsi con la potenza visiva della comunicazione contemporanea». Ma è proprio su questa china che è discesa, fino a perdere la propria identità, l’arte contemporanea, divorata dalle regole della comunicazione.
Attenzione però, Canova parla di rappresentazione iconica, cioè di qualcosa che rimanda a una tradizione, ma in sé non è meno concettuale di altre esperienze che dominano la scena degli anni Settanta, quando De Chirico batte i soldoni della sua Neometafisica (e permea persino l’Arte Povera, come si capisce anche dalla foto di Claudio Abate su Kounellis- Apollo). Questo, in realtà, De Chirico lo pensava fin dagli anni Dieci: come definire, altrimenti, dipinti come Il canto d’amore del 1914 oggi al MoMA oL’incertezza del poeta del 1913 oggi alla Tate Gallery? La Neometafisica è dunque una dichiarazione aperta di ciò che negli anni Dieci e Venti era sottinteso: di che cosa parliamo quando parliamo d’arte? La mostra di Torino si avvale, per le opere del pittore, dei prestiti della Fondazione De Chirico e vi accosta opere di artisti contemporanei degli ultimi decenni del Novecento, che rendono davvero evidente e sorprendente l’influenza che il pittore ha giocato sulle loro menti. Non si tratta qui di discutere la qualità pittorica dell’ultimo De Chirico, ma di riscontrare la citazione che egli induce nel-l’altro: Mimmo Rotella gli rende omaggio con una grande lamiera nel 1988 rievocando la musa inquietante e lo intitola eloquentemente De Chirico; Emilio Tadini, Concetto Pozzati, Mario Schifano negli anni Settanta disseminano teste di manichini e muse in contrappunto al loro immaginario; Warhol lo celebra nell’82 con le Muse inquietanti quadruplicate e attraversate da intersezioni grafiche che rendono astratto (cioè reale) il senso dell’immagine dechirichiana; di grande impatto le “mediazioni” di Valerio Adami ( Pour Vous Madame, Pour Vous Monsieur, 1964), Philip Guston ( Wall, 1971) e Alessandro Mendini (Senza Titolo, 1986); un po’ troppo autoreferenziali i gladiatori di Salvo del 1978. Se in Interno metafisico con mano di David del 1968 De Chirico sembra ridurre un brano di anatomia michelangiolesca a un feticcio iconico, in realtà alcuni suoi notevoli disegni degli anni Cinquanta ne testimoniano l’attrazione forte per il genio toscano. E di seguito, quasi come trait-d’union fra i due, troviamo esposti alcuni smalti di Tano Festa che rendono più esplicita questa liaison artistica. Metafisico ma dechirichiano per sottrazione d’immagine è il grande pittore Fabrizio Clerici; poetico ma secondo il teatro d’ombre di matrice avanguardistica e tedesca è l’Oasi d’ombra di Gino Marotta; lontani, su una verticale zenitale, i parallelepipedi cementizi di Giuseppe Uncini; del tutto liberi da ogni ossequio al maestro, anzi con un intento competitivo, i due autoritratti (a trent’anni di distanza fra loro) di Luigi Ontani; allusivo rimando filosofico alla pittura di De Chirico, infine, La caduta del mondo di Giulio Paolini e di “pesante” contrappunto stilistico l’ala appesa a un telaio vuoto con la tela a sua volta appesa al chiodo, l’opera Senza titolo di Claudio Parmiggiani del 1988.
Altri ancora sono gli artisti esposti, in una mostra che persuade, più di ogni dimostrazione sui documenti, riguardo all’influenza della “Musa De Chirico” sulla scena artistica di fine secolo scorso. E il titolo della mostra potrebbe forse fare pendant con quello di un celebre saggio di Rosario Assunto del 1973, che fu uno dei testi filosofici fondanti del postmoderno italiano e del ritorno alla pittura, L’antichità come futuro. Una ipotesi che manca dall’agenda critica contemporanea (sempre che i critici di oggi dispongano ancora di un’agenda).