Thomas Struth, “Chemistry Fume Cabinet, the University of Edinburgh” (2010)
Il momento estatico è il punto di crisi che il fotografo tedesco Thomas Struth insegue da molto tempo. Non riguarda l’evasione dalla realtà ma, come per una inversione di moto, la caduta a picco nella realtà. Per molto tempo Struth ha cercato il momento estatico fotografando ambienti museali frequentati dal pubblico. Dietro le sue immagini di grande formato, nelle quali lo spettatore può quasi “entrare”, si cela una sorta di spannung,direbbero i critici letterari, quel punto di massima tensione dove l’azione può precipitare, culminare in una sorta di scarto finale, che dovrebbe liberare la scena dallo stato di accadimento sospeso.
Spannung è un termine tedesco che contempla in sé l’attesa, e l’impazienza dell’attesa. C’è, se si vuole, anche una condizione di suspense. Ma è bene non dimenticare che quel vocabolo in uso nella critica letteraria indica lo stato risolutivo di una condizione narrativa, una sorta di fine catartica. Ecco, la catarsi è proprio ciò che manca in Struth, nella sua fotografia che precipita nella realtà, la rende vera oltre la sua stessa apparenza.
Perché in queste immagini non c’è racconto. La realtà è lì, la vediamo e la misuriamo con l’occhio, la percepiamo coi sensi, eppure il tempo moderno delle macchine ci insinua il dubbio su quanto tutto ciò abbia di oggettivo. Ma attenzione che la realtà oggi mente spesso; è artificiale; è finzione che, come dicono gli informatici, implementata può sviluppare dimensioni che vanno ben oltre la realtà che comprendiamo, alla quale appunto potevamo prendere le misure. La realtà di oggi è un misto di natura e manipolazione, e per questo è l’ultima frontiera del “politico”, quando è palese ormai a tanti che i nostri destini si giocano in gran parte sulla capacità di avere un controllo di ciò che le macchine hanno prodotto e produrranno in una progressiva separazione della nostra componente fisica da quella spirituale.
Thomas Struth, “Spettrometro a incidenza radente” (2010)
Thomas Struth ha vissuto l’ultimo decennio visitando centri di eccellenza tecnologica e scientifica dove la stessa parola avvenire è in sé un anacronismo, tanta è la velocità con cui il futuro si realizza oggi: laboratori di robotica, centri spaziali, sale di alta chirurgia e impianti di fisica nucleare che egli ha fotografato con attenzione maniacale alla nitidezza dei dettagli e a cui ha dato un titolo piuttosto forte: Nature & Politics.
Da alcuni anni Struth porta in musei e gallerie queste immagini di grande formato, e ora ne espone venticinque al Mast di Bologna. Sembra che tutto sia fermo, ma la verità è che dietro l’alta precisione con cui Struth pensa la sua fotografia si cela un conflitto di forze che riproduce in immagine il medesimo equilibrio dietro cui la natura «ama nascondersi». C’è però una differenza fondamentale: la stessa che distingue i processi naturali secondo leggi scritte dove tutto va a registro senza alcuna tragicità, per quanto invece all’occhio umano possa apparire drammatico. I rivolgimenti naturali, sebbene cruenti, non possiedono alcuna tragicità in sé stessi se non perché suscitano nella coscienza dell’uomo la questione dell’assurdo.
È quando l’uomo si trova esposto al naufragio di cui parla Lucrezio nel De rerum natura che il cataclisma naturale prende la forma, cosciente, della catastrofe e interroga il nostro stare al mondo, il nostro posto e il nostro diritto di intervenire con una diversa logica sullo svolgimento dei fenomeni naturali, applicando quellaratio che ci appartiene e ci distingue da altre forme viventi. La medesima ratio che diventa tragica di fronte all’abnorme che ci investe e ci minaccia.
Ma si arriva al punto in cui, come ci fa vedere Struth nelle sue fotografie “silenti”, la ragione applicata, la tecnologia, la logica della prassi e del fare, solleva questioni politiche, cioè dell’agire. Se Natura non facit saltus,la ragione umana invece salta più di un canguro e fa balzi da gigante senza talvolta aver interrogato la propria legittimità al salto. Non c’è dubbio che quel che Struth ci mostra nelle sue foto sia lo scheletro materiale di un progresso che mira a dare più potere e più efficacia all’agire umano, ma tra il fare e l’agire c’è la stessa differenza che passa fra arte ed etica, e in secondo luogo fra estetica e politica. Seguire la propria legge (natura) e darsi una nuova legge (politica), come in una rinnovata alleanza dove l’uomo si erge di fronte a se stesso nella veste di proprio creatore.
Vediamo una sala di chirurgia e ci rendiamo conto che essere operato da un’attrezzatura robotica, dove l’intervento umano, del chirurgo, è ormai demandato a una macchina, sicuramente potrà guarirci dal nostro male (lo speriamo): ma poi ci chiediamo se la precisione può bastare, e all’occorrenza sostituire l’intuizione che nasce in noi quando ci applichiamo a qualcosa che, per responsabilità e attaccamento al nostro compito, ci consente un di più di immaginazione che la macchina non sembra avere. E così via, nel ventaglio di situazioni tecnologiche che Struth documenta: centri di fisica nucleare, cantieri navali, laboratori chimici, apparecchiature laser...
La “bellezza”, se di questo si tratta, sta nella “trasparenza” che rende ogni dettaglio presente allo sguardo con quella forza plastica che un po’ mi ricorda la vividezza degli ingranaggi nel film Tempi moderni di Charlie Chaplin. Tuttavia, oggi l’uomo non rischia di finire nella macina delle carni, ma di assimilarsi alla macchina in un ibrido che le fotografie di Struth ci fanno intuire anche se in esse la presenza umana è quasi del tutto bandita.
Thomas Struth, “Centrale 3, Berlino” (2017)
L’essenza estetica di questa ricerca fotografica è riassunta, da una spaesata interrogazione di Urs Stahel, nel piccolo catalogo: quelle fotografie «pur essendo così nitide, precise e bilanciate, non sono mai in grado di trasmetterci informazioni precise». E ancora: tante singole parti in un groviglio di segni-meccanici, ma il «loro nesso sfugge alla nostra comprensione», segni «insoliti e incoerenti » come già in una precedente serie di fotografie che Struth ha dedicato alle foreste e alla giungla primordiale intitolandole Paradise, che in sé – se non altro – ci suggerisce il contrasto con quanto fa parte delle nostre memorie più consolidate fin dall’infanzia: che il paradiso sia un luogo dove la vita è piena e realizzata, liberata dal caos, dove la bellezza ha in sé qualcosa di idilliaco e antitragico. Così se in quella selva «non si distingue alcun ordine razionale» specularmente il regno della massima razionalità, quello tecnologico, è un «groviglio di cavi, sbarre, giunzioni, coperture metalliche, rivestimenti plastici e dispenser di nastro adesivo».
Struth vuole forse dirci che l’armonia, il segno politico di una città armoniosa, non nasce da un processo “artistico” (techne e ars si accomunano nella categoria del fare), ma nell’agire che riconosce allo strumento il posto che gli spetta, senza delegargli anche la scelta sul senso politico di quel fare, cioè non permettendo alla macchina di invadere l’ambito dell’etica fino a giustificare l’agire sulla base dell’efficienza e della precisione.
Il mondo è una macchina imperfetta, ed è supremamente etico che lo rimanga. Non è agli algoritmi che l’uomo deve delegare il proprio destino. Per non confondere la politica col dio progresso, che oggi s’identifica con una forma molto sofisticata – computativa – di darwinismo economico, rispetto al quale tutto diventa convenienza fra costi e ricavi. Struth ci presenta questi infernali grovigli tecnologici come nuove forme ipnotiche degli antichi colossi. Immagini illusorie che simulano la vita ma appartengono al regno dei morti.
Bologna, Mast
Thomas Struth Nature & Politics
Fino al 22 aprile
da Avvenire
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