Picasso aveva diciassette anni in più di Calder, ma, dice oggi il nipote del genio spagnolo, Bernard Ruiz-Picasso, i due avevano molte cose in comune, a cominciare dal fatto che i loro padri erano artisti di formazione classica, per arrivare poi al culto appassionato di entrambi per il circo. In effetti, sulle serate vissute da Picasso al circo Medrano abbiamo un resoconto preciso di Fernande Olivier, fascinosa e intelligente modella che dal 1904 posò e visse una relazione con l’artista, che si protrasse per sette anni. Nelle sue memorie di quel settennato Fernande ci parla anche della passione quasi infantile di Picasso per il circo, del piacere che provava a respirarne gli umori e gli odori, quelli del legame stretto fra uomini e bestie, essenziale unione della vita circense; e se proviamo a immaginare che cosa siano quelle forme astratte e spesso colorate che aleggiano nel vuoto in cui Calder le ha immaginate, ecco che potremmo intuire un volo dell’acrobata, una smorfia del clown e le sue misestravaganti e squillanti di colori accostati con una vena di follia. Partenza giusta, questa del circo e dell’arte classica, mentre si va da una stanza all’altra del Museo Picasso dove sono presentate una serie di opere del padrone di casa messe a confronto coi mobiles e altre sculture dell’americano che già all’inizio degli anni Trenta corteggiava a distanza lo spagnolo.
Il loro vero incontro – come ricorda in catalogo Alexander S.C. Rower, nipote di Calder e presidente dell’omonima Fondazione – avvenne al momento giusto nel posto giusto: l’Esposizione Universale che si tenne a Parigi nel 1937, dove Picasso presentò Guernica e Calder, sempre nel padiglione spagnolo, espose quasi dirimpetto Mercury Fountain. L’Expo del 1937 fu dominata dal confronto muscolare fra il padiglione tedesco, sulla cui facciata a torre svettava l’aquila germanica, e il padiglione sovietico al cui vertice era collocata la gigantesca statua Operaio e kolchoziana di Vera Muchina: venticinque metri di acciaio inossidabile che in cima mostrava le mani delle due figure che stringevano falce e martello. Picasso esponeva il quadro che, nato da tutt’altra ispirazione, era diventato l’atto d’accusa contro i nazisti che bombardarono la città basca. Un quadro imbarazzante, soprattutto per la Spagna franchista che cercava l’appoggio di Germania e Italia. E infatti suscitò aspre critiche anche fra i commissari del padiglione spagnolo. Calder gli oppose quella poesia vagamente surreale e sospesa a sua volta a un vuoto semantico che corrisponde al ludico movimento di forme astratte nel vuoto fisico, ma, in questo caso, con l’apporto dinamico e vitale dell’acqua (come dovrebbe essere per una fontana).
Si potrebbe però ipotizzare una fontana dove il vuoto corrisponde alla negazione visiva dell’acqua, di cui tuttavia si senta il suono del movimento e del suo defluire dentro forme che la celano come una macchina alchemica. (Vedi certi totem di Plessi). Forse sarebbe piaciuta a Duchamp, che nel 1917 aveva intitolato una sua operaFountain senza che l’acqua vi scorresse dentro: come si dice in catalogo, nel 1957 a proposito dell’atto creativo Duchamp ricordava che esso prende una strada imprevista e nuova quando lo spettatore si trova in presenza di «un fenomeno di trasmutazione: col cambiamento della materia inerte in opera d’arte, una vera transustanziazione» dove allo spettatore tocca il compito di determinare il punto di equilibrio dell’opera. Mercurio è il dio dell’instabilità e anche il minerale che liquefatto si rende quasi irriducibile a una forma stabile. La fontana di Calder è oggi visibile in un paesino spagnolo, Almadén, celebre per le sue miniere di mercurio, che sfrutta fin dall’antichità.
Alexander Calder, «Josephine Baker IV» (1928 c.,
© Calder Foundation)
Entrati nelle sale del Museo Picasso ci si rende conto subito di una differenza che sempre distinguerà la concezione plastica dei due grandi artisti, vicini ma anche inconciliabili, e pro- prio per una ragione di sostanza. Picasso è quasi insuperabile nel solido, la sua pittura e anche la sua scultura nascono dal totem, e quando si appellano alla tradizione iberica, è alle forme romaniche dell’affresco tragico e solenne degli affreschi catalani del “Cristo pantocratore” che risalgono alla superficie, coi rossi terra bruciata, i gialli girasole e marrone intenso, gli azzurri asciugati e resi più impenetrabili all’occhio dalla calcinazione del sole meridiano. Calder è come se andasse col retino a catturare nell’aria le sostanze volatili che il malagueño ha espulso dalle sue forme totemiche con un processo di surriscaldamento che ha forgiato corpi contundenti. Picasso ha fatto della sua natura tragica il fuoco che porta alla luce ogni volta dall’officina quel condensato di mito, storia e ricerca del nuovo che approda al volume e alla densità materica.
Dipinto di Picasso, «Coppia» (1970-71, Parigi, Centro Pompidou) e Calder, «Senza titolo» (1956,
© Calder Foundation)
Sintomatica la sua Donna incinta del 1959 (che deve assai più di quanto non si pensi, alla scultura che Degas fece sullo stesso tema): in mostra è sovrastata da un mobile di Calder di qualche anno prima appeso al soffitto: tanto è primitiva, magna mater, la scultura di Picasso, quanto è astrale la giostra di forme ritagliata nel vuoto da Calder. Ma l’intesa fra i due si svela anche nello scambio delle parti: come nella filiforme Figura di Picasso che doveva diventare un monumento per Apollinaire, all’apparenza leggero nella forma ma vincolato al gioco architettonico dei baricentri; e la figura dell'artista americano, di ferro imbullonato e colore rosso, apparentemente pesante, ma comica come un ridente pagliaccio che potrebbe ricordare l’Auguste. Così, per restare nella metafora circense, che Calder elaborò tra il 1926 e il 1931 in varie opere di cui Ugo Mulas ci ha lasciato una galleria fotografica ( Cirque Calder, Corraini 2014), è proprio di quegli anni l’Acrobata realizzato con filo e tondini di ferro che sembra far coincidere i suoi movimenti con la scrittura nel vuoto; ma anche Picasso all’inizio degli anni Trenta realizza varie versioni dell’Acrobata dove le figure si snodano in forme che non sono surreali bensì contorsioni plastiche che brutalizzano le regole della fisica fino a diventare un corpo che, dopo l’Uomo vitruviano e leonardesco, e persino dopo il Modulor di Le Corbusier, si disarticola fino a negare ogni residuo di geometria post euclidea. Picasso combatte nel corpo l’horror vacui, Calder lo libera dalla sua antropometria per farne un gioco che richiede allo spettatore di oltrepassare il limite dove realtà e costrizione della natura sono totalmente trasfigurate e cambiate di peso. Un gioco contro il nulla.
da Avvenire
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