L’artista fiammingo era di casa nella città legandosi alle famiglie più potenti. Qui mette a punto la sua pittura rivoluzionaria che cambia le sorti dell’arte italiana
Nel 1622 ad Anversa, dove ormai era tornato a risiedere da tempo, Pieter Paul Rubens dava alle stampe un volume in folio dedicato ai Palazzi di Genova. È un omaggio alla città che aveva costituito per lui quasi una seconda patria durante la sua giovanile, rivoluzionaria permanenza in Italia (16001608). Il quarto centenario della pubblicazione è lo spunto per una mostra (fino al 22 gennaio), a cura di Nils Büttner e Anna Orlando, che racconta proprio il rapporto tra Rubens e Genova, tappa di un percorso che – ad esempio con “Superbarocco” a Roma – sta rifocalizzando la centralità del contributo genovese, spesso lasciato fuori mappa, a un’intera epopea estetica. Nelle sue molte visite a Genova, vi giunge la prima volta da Mantova dove è al servizio di Vincenzo I Gonzaga, il quale è legato mani e piedi ai banchieri della Superba, Rubens libera tutte le sue potenzialità. Il sillogismo non è esplicito ma possiamo ricostruirlo con facilità. Se Rubens è “invenzione” (anche) genovese allora lo è pure il barocco. Non è un azzardo. Le nostre storie dell’arte preferiscono una genealogia italica, ma è difficile capire Bernini come il prodotto della faticosa transizione del tardomanierismo romano. Se le date non sono un’opinione (le sue pale sono collocate sugli altari di Genova nel 1605 e di Roma nel 1602 e nel 1608, per intenderci a Caravaggio vivente mentre Gian Lorenzo è un bambino) è il fiammingo Rubens, e con largo anticipo, il padre del barocco italiano. Non a caso la mostra, che ha un punto di riferimento nel metodo di Francis Haskell, il primo a mettere al centro il rapporto tra arte e società e il ruolo della committenza, si dirama nella città, a partire dalla chiesa del Gesù – a due passi da palazzo Ducale, sede dell’esposizione – dove si trovano due capolavori rubensiani. D’altronde Rubens dovette trovare a Genova un clima familiare rispetto alla sua Anversa. Qui la dimensione mercantile e finanziaria restava il nerbo della città. Nonostante la trasformazione in aristocrazia e le pulsioni egemoniche interne, la sua classe dirigente non aveva generato una signoria, conservando invece il regime oligarchico della Repubblica, governato da un complesso equilibrio di poteri. Rubens è un acuto osservatore e nei Palazzi rileva che lo spazio urbano, specchio della struttura politica e sociale, definisce un unicum nella penisola – anche rispetto a Venezia (per altro all’epoca ormai ini contrazione, come anche la stessa Anversa, mentre Genova è all’apogeo), dove ad esempio manca lo scenario compatto di una Strada Nuova, manifesto del sistema gedenziate novese e della sua trasformazione in senso moderno in seguito alla riforma della Repubblica da parte di Andrea Doria nel 1528. L’artista fiammingo osserva come gli edifici rispecchino la classe dirigente, mentre Palazzo Pitti a Firenze, le fabbriche farnesiane di Roma e Caprarola e “infiniti altri per tutta l’Italia... tutti eccedono di grandezza di sito e spesa le facoltà di gentilhuomini privati”. Rubens coglie in sostanza la qualità della struttura politico- economica di Genova rispetto al resto agli staterelli italiani dove vige un “principe assoluto”, ed è difficile che non pensi alla sproporzione tra le ambizioni oltre ogni tempo massimo di Vincenzo I nella periferia padana e il sistema della Repubblica genovese.Il percorso della mostra si preoccupa quindi di collocare la presenza e il lavoro di Rubens in un preciso contesto, tanto largo – la Superba in generale – quanto nel campo più stretto delle relazioni, perfino amicali, che l’artista stringe con i potentati cittadini. Per altro a Genova la presenza di artisti fiamminghi è consolidata. La stessa immagine urbana ci è stata consegnata da figure specializzate provenienti dalle Fiandre. Negli anni di Rubens opera in città Jan Roos, che si italianizza in Giovanni Rosa. Né si può dimenticare poi Antoon Van Dyck, l’allievo prediletto di Rubens, che a Genova sarà di stanza. Ma la loro presenza nel percorso espositivo è sempre strumentale al racconto. Ad esempio, i dipinti dei fratelli De Wael sono chiamati a documentare le pratiche caritative verso le masse di indigenti, certo con la funzione di mantenere la pace sociale (gli scontri in città avvengono tra vecchi e nuovi nobili, mentre non si registrano rivolte popolari) ma d’altra parte la prodigalità dell’aristocrazia genovese verso le classi più disagiate, esercitata attraverso lasciti a opere di carità e ospedali per i poveri, va ben oltre una politica meramente opportunistica. Un albero genealogico ricostruisce i legami tra le principali famiglie di Genova e le loro relazioni con Rubens, evi attraverso i ritratti e le committenze (anche extracittadine: l’intervento alla Vallicella, a Roma, ha origine nel cardinale genovese Giacomo Serra). Tra le casate più legate al pittore c’è quella dei Pallavicino (creditori e feudatari del Gonzaga), responsabile in tempi diversi delle due committenze per la chiesa del Gesù, o ancora i Doria e soprattutto Ambrogio Spinola, condottiero militare avvolto dal mito, del quale Rubens afferma di averlo “praticato familiarmente” e di averlo “trovato sempre uomo fermo e sodo et di buonissima fede” nonostante, rivelando un interessante pregiudizio, “contra la mia prima opinione (avendole sospetto per essere italiano e genovese)”. Le singole famiglie e i loro membri aiutano a spiegare le iconografie, come il San Sebastiano commissionato dallo Spinola, o il tema del sacrificio nel dittico di Ercole e Deianira voluto da Pietro Maria Gentile, per cinque anni prigioniero dei Savoia. Genova è città coltissima, dove gli aristocratici si dilettano a scrivere, recitare, dipingere. Giulio Pallavicino, di nascita cadetta, si dedica alle lettere e vanta una biblioteca di duemila volumi. L’artista genovese Bernardo Castello, con cui Rubens ha stretti, rapporti, pubblica a proprie spese tre edizioni illustrate della Gerusalemme Liberata dell’amico Torquato Tasso, di grande successo. In questo clima, infine, Rubens sviluppa la sua rivoluzione del ritratto, svincolandolo dalle formule irrigidite diffuse da Madrid fino a Praga per improntarlo a un carattere vivo, scattante, singolare. L’innovazione non nasce dal nulla. Rubens ha per modelli Tiziano e il genovese Luca Cambiaso. E poi Tintoretto (l’altro vero inventore del barocco prima del barocco) ma anche i ritratti di Sofonisba Anguissola, cremonese sposa di un nobile genovese. E ancora Guilliam Van Deynen, suo coetaneo di Anversa che arriva a Genova nel 1602, e Frans Pourbus il Giovane, ritrattista di corte a Mantova. Ma è Rubens a condensare, nel giro di soli tre anni, tra il 1604-1607, tutto in una nuova maniera, imprimendo il suo sigillo all’intero genere per secoli.
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