L'umanità, "con sguardo miope", ha presunto che il pianeta fosse interamente al suo servizio e per questo "molte risorse cruciali sono state esaurite.
Perché la Terra è stata considerata in modo così limitato?". Lo chiede Achille Mbembe, camerunese, uno dei massimi teorici del postcolonialismo.
La frase compare nel percorso di "The Laboratory of the Future", la 18. Mostra internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, a cura di Lesley Lokko, che attraverso una sguardo privilegiato sull'Africa e sulla sua diaspora pone al centro del suo essere, del suo interrogarsi e cercare risposte, problemi centrali come la decarbonizzazione, la sostenibilità ambientale, la decolonizzazione.
"Se vuoi costruire un mondo migliore lo devi immaginare", dice la curatrice, conversando con i giornalisti accanto al presidente Roberto Cicutto. Per farlo, nel campo dell'architettura, occorre così uscire dagli schemi delle "egemonie" culturali, delle particolarità disciplinari, dalla soluzioni progettuali e costruttive onnicomprensive. Inutile cercare i progetti di grido, le strutture che hanno valore per il loro stesso essere più che per specifica funzione. La Biennale di Lokko, architetta e scrittrice anglo-ghanese, offre altre prospettive perché serve ascoltare voci diverse, attivare degli agenti di cambiamento. "Nell'architettura, in particolare, la voce dominante è stata storicamente una voce singolare ed esclusiva, la cui portata e il cui potere - ricorda - hanno ignorato vaste fasce di umanità, dal punto di vista finanziario, creativo e concettuale".
Nel processo di riscrittura della "storia" dell'architettura - "non sbagliata, ma incompleta" sottolinea - la curatrice presenta una mostra suddivisa in sei parti, articolata tra i Giardini, Arsenale e Forte Marghera, dove oltre la metà degli 89 partecipanti proviene dall'Africa o dalla diaspora africana, con un equilibrio di genere e un'età media di 43 anni, che cala a 37 nella sezione Progetti speciali della Curatrice, in cui il più giovane ha 24 anni. Più che l'età anagrafica, a dare il segno di una esposizione che pare affrontare tematiche fondamentali per la sopravvivenza umana attraverso "microstorie" e soluzioni flessibili, va considerato che oltre il 70% delle opere esposte è stato progettato da studi gestiti da una persona o da un gruppo di lavoro molto ristretto.
La varietà delle proposte, delle ipotesi di lavoro, di interventi lungo il percorso della sei parti a firma Lokko è quantomai ampia, dando vita a una mostra magmatica dove si incontrano video, modellini, tessuti, mappe, musiche, installazioni, che danno chiaro segno della caduta dei confini tra le arti.
Sul piano lessicale la curatrice introduce una novità, definendo i partecipanti non con il temine "architetto" ma "practitioner", mentre sul fronte operativo ha ideato "Carnival", un ciclo di incontri, tavole rotonde, film e performance durante i sei mesi dell'esposizione, "che vuole essere una forma pratica dell'architettura che tenta di colmare il divario tra gli architetti e il pubblico".
La maggior parte dei 64 padiglioni nazionali - presente anche l'Ucraina e la Santa Sede - ha risposto positivamente alle istanze della curatrice della Biennale e ha affrontato temi come l'impatto sull'ambiente e sull'umanità derivante dall'enormità di rifiuti plastici (Stati Uniti) o il concetto di riparare l'esistente (Germania) o il risveglio del desiderio di utopie (Francia). "Spaziale: Ognuno appartiene a tutti gli altri" è invece il titolo della mostra al Padiglione Italia, curato dal collettivo Fosbury Architecture e promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del ministero della Cultura.
ansa.it
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