Nepi, cosa ha di speciale l'acqua benefica della Tuscia

nepi cascate


Piccolo gioiello della Tuscia viterbese, Nepi vanta origini antichissime probabilmente legate all'abbondante presenza di acque benefiche sul suo territorio, come testimonierebbe il suo stesso nome che deriverebbe dal termine "nepa" che, in lingua etrusca, significa proprio "acqua". Il paese sorge, infatti, su un vasto promontorio tufaceo incorniciato tra due gole all'interno delle quali scorrono i due torrenti Puzzolo e Falisco che vi confluiscono dopo aver formato perenni cascate.

La presenza dell'uomo sul territorio è testimoniata sin da epoca preistorica ma, secondo la leggenda, la città venne fondata oltre 500 anni prima dell'avvento dei Romani che la inglobarono, poi, tra le proprie conquiste proprio, probabilmente, per la presenza di prodighe sorgenti. I Romani furono, infatti, noti cultori dell'acqua alla quale dedicarono opere ingegneristiche all'avanguardia, una delle quali realizzata proprio a Nepi dove ancora oggi, presso lo stabilimento, sono custodite le vestigia di un antico sistema di captazione dell'acqua e dove la famiglia dei Gracchi, nel II secolo a.C., costruì un rinomato centro termale.

Le acque di Nepi, dunque, godono di notevole apprezzamento sin da epoca antichissima ed ancora oggi costituiscono una risorsa preziosa. Come riportato negli scritti di Gabino Leto, che descriveva Nepi come "Città nobile e potente nei cui ubertosi campi sgorgano sorgenti di acqua salutari", l'acqua di Nepi sgorga da sorgenti immerse in una isolata valle di oltre 240 ettari adornata da una vegetazione lussureggiante, proveniendo da un bacino idrogeologico ubicato su terreni di origne vulcanica che le conferisce le caratteristiche organolettiche e qualitative che la contraddistinguono da secoli. Caratteristiche come la sua piacevole e delicata effervescenza e le sue apprezzate proprietà digestive.

Ma l'acqua è soltanto una delle attrazioni che rendono Nepi una meta ricca di fascino. Il borgo, infatti, custodisce numerose testimonianze del suo lungo passato, tra cui le belle chiese ed i palazzi nobiliari ed una magnifica fontana attribuita al Bernini, e sorge in una zona della Tuscia particolarmente ricca di attrattive adagiata ai piedi dei Monti Cimini, a due passi dal Lago di Vico ed a soli 45 chilometri dalla capitale.

turismo.it

Arte. Pisa: il nuovo Museo dell'Opera del Duomo è uno scrigno di «miracoli»

Molti i pezzi mai esposti nelle 25 sale. Un tesoro che va da Nicola e Giovanni Pisano a Tino di Camaino, da bronzi arabi al velo funerario dell'imperatore Enrico VII, “l'alto Arrigo” di Dante


Giovanni Pisano, "Madonna Eburnea" (1299), particolare. Pisa, Museo dell'Opera del Duomo (Nicola Gronchi/Opera della Primaziale di Pisa)

da Avvenire


« Imusei sono come alberi per i quali il passare del tempo implica la caduta di foglie e lo sviluppo dell’intera pianta». Parola dello storico dell’arte Marco Collareta, che quasi si emoziona nello spiegare il perché del nuovo Museo dell’Opera del Duomo di Pisa e della collocazione delle vecchie e nuove acquisizioni. Fuor di metafora, quello che da ieri è aperto al pubblico sulla Piazza dei Miracoli «è il museo di trentatré anni fa arricchito di nuovi importanti materiali, privato di alcune eccedenze e ripensato nei criteri espositivi in modo da restituire al meglio la valenza originaria delle opere».

Vista dall’ottica particolare delle finestre del museo, la stupenda piazza là fuori sembra un grande formicaio. I turisti continuano a farsi fotografare con la mano piegata a far finta di sorreggere la Torre Pendente. Solo una parte di loro entrerà a vedere l’austero e affascinante Cristo Borgognone, un legno dipinto della prima metà del XII secolo, o le storie di pietra e di marmo raccontate dai capolavori dagli artisti pisani del Medioevo.



La sala 8 del Museo dell'Opera del Duomo, dedicata ad Andrea e Nino PIsano (Nicola Gronchi/Opera della Primaziale di Pisa)

Ma forse è giusto così. Una raccolta di questo livello non è adatta al turismo del mordi e fuggi dettato dai tempi di un selfie. Qui la bellezza estetica si coniuga alla bellezza spirituale. Qui, per dirla con l’architetto Adolfo Natalini, uno dei curatori del progetto di allestimento, «i tempi e i luoghi, il sacro e il profano si radunano in una nuova alleanza»

C’è bisogno di capire la storia delle opere, gli spazi per cui furono concepite nella mirabile piazza attigua e il messaggio evangelico che questo catechismo di bellezza era ed è chiamato a dare in quanto sinonimo di verità, umiltà, giustizia, gioia e speranza. I capolavori esposti provengono infatti dal secolare cantiere della piazza. Si tratta di «una serie di opere, di volta in volta sostituite con altre più “attuali” o con copie, che hanno trovato dimora – spiega un altro progettista, l’architetto Giuseppe Lo Presti – nell’antica Casa capitolare trasformata in un museo inaugurato nel 1986. Prima di giungere qui, molte opere hanno migrato da un luogo all’altro nei monumenti della piazza, altre vi sono giunte da luoghi diversi, ma tutte insieme raccontano una miracolosa storia d’arte, di fede e devozione».

Il nuovo allestimento, così come lo illustra Pierfrancesco Pacini, presidente dell’Opera della Primaziale Pisana custode del Museo e del complesso monumentale della Piazza dei Miracoli, «si sviluppa attraverso 25 sale per un totale di 380 opere con l’ingresso anche di nuove opere restaurate come per esempio il trittico della Madonna in trono e santi, tempera e oro su tavola realizzata da Spinello Aretino o la corona, lo scettro, il globo e un raffinatissimo drappo dell’imperatore Enrico VII recuperati in occasione della ricognizione della sua tomba effettuata nel 2014».



Lupo di Francesco, "Tabernacolo Camposanto" (1320) particolare. Pisa, Museo dell'Opera del Duomo (Nicola Gronchi/Opera della Primaziale di Pisa)

Le tre anime della prima arte pisana – islamica, bizantina e classica – dialogano tra loro nelle sale del museo che raccolgono tarsie, bassorilievi e capitelli provenienti dalla facciata della cattedrale, assieme a quanto resta dell’originario arredo del presbiterio e alle spoglie arabe, un capitello marmoreo e un Grifo bronzeo. Della grande stagione della scultura medievale pisana, il museo accoglie opere di Nicola Pisano e del figlio Giovanni, di Tino di Camaino, Nino Pisano, fino ad Andrea Guardi, l’allievo di Donatello più attivo in città.

Ampio spazio è riservato all’esposizione del fastoso arredo liturgico medioevale. «Ma il percorso museale non finisce qui – avverte Collareta –. Usciti nel loggiato, i visitatori sono invitati a gettare lo sguardo sulla Torre prima di scendere al pianoterra. Mentre nel chiostro sono attesi da un’ultima grande manifestazione della scultura pisana al suo apogeo. Alcuni dei colossali busti del coronamento del Battistero sono allineati lungo la parete sinistra entro alloggiamenti che intendono suggerire l’intenso dialogo di queste statue con l’architettura. Autore ne è il giovane Giovanni Pisano, che si conferma così protagonista assoluto di questo museo».

Arte e sacro. Che cosa c'era sul leggio di Maria?

Nelle raffigurazioni dell’Annunciazione il libro su cui legge Maria compare tardi, dal IX secolo. Il filologo Michele Feo va a caccia delle tante ipotesi sul contenuto del volume

Antonello da Messina, “Vergine Annunciata” (1475 circa), particolare

da Avvenire

La storia della Madonna è un meraviglioso romanzo per immagini. Più misteriosa tra tutte l’Annunciazione perché è il mistero stesso di Maria. Ma anche la più rivoluzionaria nella storia dell’umanità, perché fonda il mondo dopo Adamo: il mondo da Gesù Cristo, origine del nostro tempo. E poi perché racchiude tutto il turbamento, anzi lo sconvolgimento, e insieme la concentrata tenerezza della Vergine prima che concepisca e nel suo stesso istante: l’anticipazione dell’aurora, prima che irrompa il giorno in lei, in ognuno di noi.

Le scarne parole di Luca e Matteo non sono prive di immagini potenti, anzi assolute: per Alberto Magno l’ombra non è l’oscurità – che non viene dalla somma luce – ma l’immagine specchiata dell’onnipotenza; tuttavia solo i Vangeli apocrifi ci mostrano le scene, gli oggetti, i simboli, che i pittori prediligono. In essi Maria è alla fonte, al pozzo con la brocca, poi in casa, intenta a filare scarlatto e porpora (colori della regalità) accanto a un vaso dove fiorisce il giglio di Gesù; più tardi ha con sé un libro aperto e talora lo legge.

Sono queste le raffigurazioni che si susseguono dovunque nei secoli, in molteplici varianti. Soprattutto impone infinite riflessioni la presenza del libro, che compare tardi, dal IX secolo, su un cofanetto d’avorio francese dall’aria regale. Perché quella ragazza umile e il libro, che fu strumento di distinzione, non solo per la sapienza, ma nelle classi sociali? E significava soprattutto autorevolezza, garanzia di verità? E cosa era scritto nel libro di Maria, oltre alle parole dei profeti, dei salmi, dei Vangeli, del Magnificat?

Si può rispondere che Maria stessa è un libro, contiene il passato e soprattutto il futuro: un libro profetico al massimo grado. Ma c’è quella commistione di realtà e di sentimenti, che colpisce nel profondo, e non si accontenta di spiegazioni teologiche. In Maria il mistero teologico è reale e carnale, attraversa la vita quotidiana, gli affetti delle madri nelle famiglie, tutte le forme reali e immaginarie, che le madri quotidiane e le divinità femminili hanno mostrato in ogni tempo e spazio.

Michele Feo, filologo e acutissimo investigatore dei testi, ne è stato così commosso e catturato, da inventariarne le immagini per uno studio colto e appassionato (Cosa leggeva la Madonna; Polistampa, pagine 304, euro 20,00). Ma non dobbiamo pensare che l’indagine di Feo si limiti a un excursus erudito che riguarda soltanto l’abbinamento con il libro. Si estende a ogni riflessione che tocca Maria, con una condivisione totale e sottile della femminilità e dei suoi valori più profondi.

Mentre segue nei secoli e nelle contestualizzazioni delle opere le Annunciazioni, decifrando e commentando le iscrizioni e le composizioni, Feo non dimentica mai l’origine. Chi è veramente Maria? Cosa accade nel momento in cui riceve l’annuncio traumatico dell’angelo che ha sconvolto lei fino a noi stessi? Perché l’Annunciazione non è un evento che si conclude, ma un progetto che ci riguarda inesorabilmente? Come sono diventati lontani nei secoli i sensi originari? Come tutto è diventato infinitamente indecifrabile, sebbene continuino a colpirci quegli atti e quei gesti e quelle mani della ragazza non ancora madre, che talora si specchiano nelle mani dell’angelo, o – come nella Vergine Annunciatapalermitana di Antonello da Messina – emergono in assoluta eloquenza fuori dal quadro?

La ricchezza di questo libro sta anche nella presentazione di testi preziosi che accompagnano la figura dell’Annunciazione; non solo quelli sacri, o Dante, o Petrarca (di cui Feo è massimo studioso), che nel cammino dell’amore che nobilita attraverso la donna, compie la «rivoluzionaria e decisiva collocazione della Vergine a chiusura dei Rerum vulgarium fragmenta». Feo ci traduce molti testi straordinari: ora popolari, ora dei più sofisticati umanisti che intrecciano la Vergine con le divinità greco-latine, ora di mistici ottocenteschi, ora di teologi moderni. Il valore del libro sta anche nel sapiente dialogo che Feo intrattiene tra culture diverse.

Vorrei aggiungere una testimonianza, che ha origine da due antiche tradizioni romagnole. Esse hanno riscontri nei calendari popolari e nel Tempio malatestiano di Rimini, dove compaiono le due porte che le anime passano: nel segno del Capricorno abbandonano la carne attraverso la porta degli dèi e dell’immortalità; nel segno del Cancro si incarnano. Nell’Annunciazione (e incarnazione) del 25 marzo, nell’equinozio di primavera, Maria è seduta, intenta a filare il lino “marzuolo”. In questa immagine, che riprende il protovangelo di Giacomo, Maria è l’umile donna antica, attenta alla rocca, al fuso, al telaio. Ma rievoca anche archetipi: Elena che in Omero tesse una tappezzeria di porpora con le lotte di Greci e Troiani in cui lei è al centro; Cloto che fila lo stame della vita.

La vigilia di Natale, a Ravenna, in una filastrocca che inizia con l’invocazione «Levati, levati mio sole / con il raggio del Signore», tre angeli donano a Maria tre forcine o tre falci d’oro: lei le porge al Signore, e Lui con queste mette in moto la ruota del cosmo: è la nascita di Gesù e del tempo: il compimento dell’Annunciazione avviene nel solstizio d’inverno, sotto il segno del Capricorno. In sintonia con tradizioni immemoriali, raccolte da quelle platoniche, Maria tra primavera ed estate incarna, mentre nel cuore dell’inverno, con il “sole invitto” libera dalla carne, verso l’eternità.

Fai: chiuse Giornate autunno, 330 mila visitatori +30%

''Alle ore 18 si sono chiuse le Giornate FAI d'Autunno 2019, il fine settimana promosso dai Giovani del FAI dedicato alle bellezze dell'Italia, con itinerari inediti e luoghi eccezionalmente aperti al pubblico. Le prime proiezioni evidenziano un grande successo di pubblico paria a 330.000 visitatori, con una crescita del 30% rispetto alle Giornate Fai D'Autunno del 2018''. Lo spiega una nota. ''Tra i luoghi più visti segnaliamo la Caserma Bergia di Bari con 7.000 visitatori, l'Arsenale Militare di La Spezia con oltre 6.000, seguiti dal Real Sito di Portici e la Corte Suprema di Cassazione a Roma con quasi 5.000 presenze ciascuno e Palazzo Regione Lombardia a Milano con circa 4000 visitatori. Tra i Beni del FAI i più visitati risultano Parco Villa Gregoriana con 3.200 visite, seguito da Villa del Balbianello (CO) con 3.100. A Recanati l'appena inaugurato Orto sul Colle dell'Infinito ha registrato circa 2.000 presenze. Con le 770.000 presenze delle Giornate di Primavera, le Giornate Fai raggiungono nel 2019, con l'evento autunnale appena conclusosi, oltre un milione di visitatori, diventando il più grande evento di piazza italiano dedicato al patrimonio artistico e paesaggistico del nostro Paese''. (ANSA).

Milano, la produzione ambrosiana al Museo Diocesano

Giulio Cesare Procaccini 

Dedicato al Cardinale Carlo Maria Martini, il Museo Diocesano di Milano nasce dalla fusione tra il Museo Diocesano e il complesso di Sant’Eustorgio. Il Museo è il punto di arrivo di un importante progetto a cui hanno dato il loro decisivo contributo alcune delle più grande figure di arcivescovi milanesi del Novecento a partire dal 1931. La Collezione permanente è costituita da ormai quasi mille opere, comprese tra il II ed il XXI secolo, giunte come lasciti, depositi o donazioni, che costituiscono una viva testimonianza della ricca produzione artistica ambrosiana, oltre ad offrire un interessante panorama del gusto collezionistico non solo arcivescovile, ma anche privato.
 
PERCHE' ANDARE
 
Il percorso espositivo del Museo è dedicato a dipinti, sculture e oggetti di arredo liturgico provenienti dalla Diocesi milanese ed esposti a rotazione. Nel percorso spiccano dipinti di Anovelo da Imbonate, Ambrogio da Fossano detto il Borgognone, Giampietrino, Bernardino Campi, Simone Peterzano, Giulio Cesare Procaccini, Carlo Francesco Nuvolone, Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, Stefano Maria Legnani detto il Legnanino e Francesco Hayez. Un nucleo consistente delle opere delle collezioni del Museo proviene dalla Quadreria Arcivescovile, da cui, su iniziativa del cardinale Martini, sono giunti molti dipinti delle antiche collezioni degli arcivescovi milanesi e che riflettono i loro diversi orientamenti culturali. Fra le opere della Collezione Arcivescovile ricordiamo la “Caduta di San Paolo” del Cerano, la “Lotta di Giacobbe e l’angelo”, capolavoro del Morazzone e il “San Giuseppe col Bambino” di Guido Reni.
 
DA NON PERDERE
 
Presente una sezione dedicata a Lucio Fontana che mette in scena i gessi creati per il concorso per la realizzazione della quinta porta del Duomo di Milano affiancati al bozzetto della “Pala della Vergine Assunta” e alle 14 formelle in ceramica della Via Crucis bianca. Il Museo Diocesano Carlo Maria Martini raccoglie infine La Collezione Marcenaro di arte antica,  i Fondi Oro Collezione Crespi e il Tesoro di San Nazaro.
 
Museo Diocesano Carlo Maria Martini 
turismo.it

Il turismo religioso fa bene alle adv ma le agenzie spesso non lo sanno



Le stime sono difficili perché è complicato sondare le motivazioni delle persone. I dati più recenti parlano però di 330 milioni di visitatori internazionali che ogni anno si muovono per motivazioni religiose. Di questi, ben 120 milioni si recano alla Mecca, ma la restante parte raggiunge Israele, la Giordania, il resto del Medio Oriente e i santuari mariani europei. Solo in Italia, peraltro, le persone che si muovono con questa motivazione ammontano a circa 1,5 – 1,8 milioni.

Sono i numeri di un comparto spesso sottovalutato, che tuttavia può rappresentare un’ottima opportunità di business. A snocciolarli, in occasione di un evento ad hoc organizzato da Fto a Rimini, Giorgio Trivellon di Duomo Viaggi & Turismo. “Certo, non ci si può improvvisare esperti di questo segmento. Non basta una Madonnina in vetrina. Ci vuole preparazione. Noi però siamo pronti ad affiancare le adv ovunque sul territorio internazionale”, ha osservato Giavanni Ciraci di Brevivet.

L’identikit del turista religioso tipo lo ha invece tracciato Sara Rusconi di Rusconi Viaggi: “Per chi come noi non è emanazioni di diocesi, e quindi non beneficia di una domanda diretta proveniente dalle parrocchie, la domanda si traduce molte volte in piccoli gruppi di persone o singoli individui, spesso donne over 50. Si tratta di viaggiatori che di frequente si rivolgono alle agenzie. Un po’ perché a volte in difficoltà con gli strumenti tecnologici, ma soprattutto perché valutano il contatto personale, la relazione umana un aspetto fondamentale della loro esperienza”.

Infine una nota da tenere in considerazione. La propensione alla spesa di questa tipologia di turisti è inferiore a quella del segmento leisure – si parla di 50-60 euro a persona al giorno contro più o meno il doppio di chi viaggia per altre motivazione. Ma al contempo si tratta di una clientela più facilmente fidelizzabile, che sente spesso l’esigenza di ripetere più volte l’esperienza spirituale di un viaggio religioso.

travelquotidiano.com

Santuario. Nel manto di Maria a Oropa la devozione che sfida il tempo

Per la quinta volta dal 1620 il santuario piemontese si prepara alla storica celebrazione dell’incoronazione che si tiene una volta ogni 100 anni. Migliaia di «ex voto» in pezze di stoffa

Come può resistere la fede cristiana in un mondo sempre più secolarizzato, che tende a renderla sempre più ininfluente? Come può tornare a essere attrattiva? Esiste ancora un popolo cristiano? Sono interrogativi con i quali si misura da tempo la Chiesa, e su cui discutono teologi, sociologi, intellettuali. Ci sono persone che dimostrano quanto sia decisiva una proposta che parli al cuore della gente in maniera semplice, diretta e coinvolgente. In questo senso Papa Francesco offre l’esempio più significativo e autorevole. E ci sono anche esperienze e luoghi che si rivelano attrattivi e 'contagiosi', capaci di suscitare una rinnovata attenzione al cristianesimo. 

Qualcosa del genere sta accadendo al santuario di Oropa, in provincia di Biella, da secoli meta di pellegrinaggio e oggetto di una diffusa devozione popolare alla Madonna. Nel 2020 verrà celebrato il quinto centenario dell’Incoronazione di Maria, una cerimonia che si ripete ogni secolo a partire dal 1620. Unitamente alle corone che il 30 agosto dell’anno prossimo saranno poste sulla testa della statua della Madonna e del Bambino Gesù, verrà preparato un manto che 'vestirà' la sacra immagine. Un manto del tutto speciale, che nella parte esterna sarà confezionato da un’azienda del Biellese mentre l’interno sarà un patchwork realizzato cucendo i pezzi di tessuto inviati al santuario da chi desidera testimoniare il suo rapporto con la Vergine. C’è chi ha mandato un pezzo del vestito di nozze, della tuta da lavoro, di un grembiule da cucina, di un lenzuolo, di una giacca, di una gonna...

Ogni tessuto è accompagnato da un breve scritto dove si racconta il significato che per chi lo ha spedito, il legame con un momento significativo della propria esistenza o con qualcuno di cui si prende cura affidandolo a Lei. Sono storie, preghiere, suppliche, ringraziamenti che raccontano di una fede popolare ancora viva, di un desiderio di rapporto diretto con il Mistero. Ecco alcuni esempi. «È un lembo del taschino della mia uniforme da poliziotto, dove ho sempre tenuto la Tua immagine, ricevendo sempre grande protezione. Grazie». «Ci ricorda la prima accoglienza a cui abbiamo detto di sì e il desiderio di avere un figlio nostro. Dopo 11 anni di matrimonio, figli naturali non ne sono arrivati, ma abbiamo aperto la casa ad altri e siamo grati per la pienezza di vita che viviamo e per la nostra storia». «Rappresenta il mio cammino di giovane sposa e madre, il tuo prezioso aiuto di quando mio marito fu licenziato ed ero a casa con due bambini. Ti abbiamo invocata con fede e mentre doveva andare a un colloquio in un’azienda, la macchina si è bloccata ed è stata la sua fortuna: l’incontro con una persona ha risolto questo problema in meglio. Grazie, Vergine santissima». «Rappresenta la fatica del nostro papà durante le ore di lavoro nel turno di notte per mantenere dignitosamente e con amore la sua famiglia». «Questo pezzo di stoffa ha un valore affettivo molto grande: fa parte del mio abito da sposa e conta già 53 anni! L’ho conservato come una reliquia perché per me ha significato il formarsi di una famiglia».

Fascino che permane: «Sono già arrivati più di cinquemila pezzi – dice don Michele Berchi, rettore del santuario di Oropa –. Ogni tessuto e ogni messaggio aprono squarci commoventi di vita e testimoniano il rapporto speciale che tante persone vivono con Maria. La devozione mariana si diffuse tra i nostri monti a partire dal quarto secolo per opera di Sant’Eusebio e questo luogo continua a essere meta di visite, anche da parte di chi non è credente ma cerca una luce che illumini un cammino di ricerca. Per tante persone in questo santuario è iniziato o si è approfondito un misterioso dialogo personale con la Madonna: penso a migliaia di giovani venuti qui a preparare gli esami universitari o ad affidare il loro imminente matrimonio e a quanti chiedono la salute per la persona amata. Nel tempo sono cambiate le forme: certi gesti della tradizione come le processioni o le fiaccolate sono meno vicini alla sensibilità dei giovani, che sono più attratti da esperienze come i pellegrinaggi o i percorsi a piedi lungo luoghi significativi per il loro valore storico o artistico. Quello che perdura nel tempo è il fascino della Madonna e il suo legame con il Mistero incarnato, e la quantità di tessuti e messaggi arrivati testimonia un cristianesimo che parla al cuore dell’uomo, legato all’esperienza intima delle persone».
Si sta cucendo un vestito povero quanto ai materiali, ma ricchissimo di vita vissuta. Il mantello mariano è un simbolo di protezione

Le dimensioni del manto che vestirà la statua della Vergine e del suo strascico non sono prevedibili, legate come sono alla quantità di tessuti che arriveranno entro l’8 dicembre, ultima data per la consegna al santuario. «Sarà un work in progress, un’esperienza che non è figlia di un progetto elaborato a tavolino ma legata al popolo che la sta generando giorno per giorno – commenta Alessandra Alberto, ideatrice dell’iniziativa –. Sta prendendo corpo un vestito povero quanto ai materiali di cui è composto ma ricchissimo di vita vissuta. Nella storia dell’arte il manto della Madonna è un simbolo di protezione che unisce tutto il popolo, ognuno potrà dire 'lì ci sono anch’io'. Il manto esprime il desiderio di ricucire le divisioni, e in questo senso assume un significato di grande attualità e di positività per una società frantumata e per tante persone che vivono lacerazioni nella loro vita».

Ora et labora: il manufatto sta prendendo forma tra le antiche mura del monastero di San Giulio sul lago d’Orta, dove le suore benedettine cuciono i pezzi di stoffa inviati dal santuario di Oropa. In una lettera al rettore scrivono: «Ogni frammento di tessuto che passa tra le nostre dita ha per noi una voce arcana, un messaggio silenzioso e vibrante, al punto da crearci un senso di sofferenza nel prendere in mano le forbici per intagliare tessere più piccole del tessuto arrivato. Tutto viene eseguito a mano, cambiando filo in base alla gradazione cromatica di ogni tessera, con piccoli punti quasi invisibili. Tutto viene lavorato a mano e con il cuore orante, perché desideriamo cucire le tessere non solo al tessuto ma anche, attraverso la preghiera, al cuore di Dio».
da Avvenire
Nel manto di Maria a Oropa la devozione che sfida il tempo

Reportage. In Turchia nasce la diga killer della Mesopotamia

La cittadina di Hasankeyf sarà evacuata e sommersa e con essa dodicimila anni di «storia dell’umanità». Così Ankara vuole attuare il piano idroelettrico nazionale


La diga di Ilisu che farà crescere progressivamente il livello delle acque (Zanzottera/Parallelozero)

«Questa diga non distrugge solo villaggi, natura, fauna, ma anche uno straordinario patrimonio culturale. Che non riguarda solo la nostra storia: è la storia di tutti, è la vostra storia, la storia dell’umanità». Ridvan Ayhan, 56 anni, attivista e membro del collettivo “Keep Hasankeyf Alive” (“Tieni viva Hasankeyf”), si è battuto a lungo contro il progetto di una mega diga che allagherà una regione vastissima del sud-est della Turchia. È finito anche in prigione per un anno e mezzo. E ora che il conto alla rovescia è partito inesorabile, guarda desolato l’ampia valle che gli si apre di fronte, scavata dal fiume Tigri e, più sotto, la cittadina di Hasankeyf, che con i suoi 12mila anni di storia è il luogo-simbolo di una politica che calpesta una volta di più il popolo curdo e strappa le sue radici. Non solo: annega uno dei più antichi insediamenti della storia dell’umanità, dove ancora oggi sono visibili le tracce lasciate da assiri, medi, persiani, greci, romani, bizantini, arabi, ottomani...

La fine di Hasankeyf ha una data: 8 ottobre 2019. Martedì. È il giorno in cui tutti gli abitanti dovranno lasciare la città. E un pezzo di storia della Mesopotamia finirà per sempre. La diga di cui parla Ayhan si trova a un’ottantina di chilometri a sud-est di Hasankeyf, verso il confine con Siria e Iraq, nei pressi di Ilisu. Fa parte di un enorme progetto idroelettrico promosso dal State Hydraulic Works (Dsi) all’interno del più vasto Southerneaster Anatolia Project (Gap) che dovrebbe promuovere lo sviluppo di questa vasta regione, una delle più povere e arretrate del Paese. Quello di Ilisu è un progetto che risale agli anni Cinquanta, ma che è stato finanziato solo nel 1988. Le fondamenta della diga sono state messe nel 2006 e i lavori di costruzione sono cominciati nel 2008. È la seconda più grande della Turchia in termini di capacità d’acqua e la quarta per produzione di energia elettrica: dovrebbe arrivare a produrre 4.200 gigawatt di elettricità all’anno. E toglierà molta acqua anche alla Siria (di cui il Tigri segna il confine) e soprattutto all’Iraq, che ha già conosciuto stagioni di grave siccità.

«Con questa diga – fa notare Ayhan – la Turchia eserciterà un grande potere anche sui Paesi vicini. Il livello del fiume diminuirà sensibilmente nei prossimi anni. Si rischia una guerra dell’acqua». Quanto agli abitanti della regione, secondo Ayhan «non trarranno alcun vantaggio da questo progetto. Sono costretti a lasciare case e terre con compensazioni non sempre eque e adeguate. E dubito che in futuro possano godere dei benefici promessi dal governo». Non tutti sono d’accordo. C’è anche chi spera di farci qualche soldo, di potersi permettere una casa migliore o di avere nuove terre. Anche se quello della terra è un problema tuttora aperto. La maggior parte della gente, infatti, non ha certificati di proprietà. La terra viene trasmessa in modo consuetudinario di padre in figli. Tutti sanno a chi appartiene, ma spesso non ci sono documenti ufficiali. E questo crea paure e preoccupazioni.

Per il momento, quel che è certo è che non solo gli oltre 3mila abitanti di Hasankeyf dovranno andarsene nel giro di qualche giorno, ma circa 80mila persone di 199 villaggi della valle del Tigri saranno costrette a fare lo stesso, perdendo anche campi, orti e animali che garantiscono il loro sostentamento. Vicino alla diga, si sta già formando la prima parte del bacino artificiale. Dal villaggio di Temelli, situato in alto sulla collina, un anziano signore scruta le acque dell’invaso: «Mi sono assentato un paio di giorni e già si nota la differenza...». Il piccolo insediamento di Koçtepe, lì di fronte, è ormai semi sommerso. Hasankeyf, invece, proprio in questi giorni, pullula di gente: turisti, in grandissima parte turchi (ma c’è anche una coppia di coreani, un giovane australiano, dei francesi, un inglese, un polacco...) vengono a dare un ultimo sguardo a questa cittadina abitata ininterrottamente sin dall’epoca preistorica. Le viuzze strette del bazar risuonano di voci e rumori e risplendono dei colori di tappeti e manufatti, mentre le terrazze dei ristoranti che si affacciano sul Tigri servono i piatti tipici di questa terra a base di agnello, verdure, spezie, cocomero e melone a volontà in questa stagione luminosa e ancora calda. Più in basso, nelle acque del Tigri, hanno messo ombrelloni, sedie e tavoli: si può sorseggiare l’immancabile tè o una bevanda fresca con i piedi immersi in acqua. I turisti apprezzano frettolosi: scattano qualche foto, l’imperdibile selfie e se ne vanno.



Le grotte a Hasankeyf, scavate nella pietra calcarea della falesia lungo il Tigri (Pozzi Zanzottera/Parallelozero)


Ahmed, invece, che è nato qui, non se ne vorrebbe andare mai: «Io sarò l’ultimo a lasciare Hasankeyf e dovranno costringermi a farlo», insorge. Suo padre è nato nelle grotte, scavate nella pietra calcarea della falesia che affianca il corso del fiume specialmente in quest’ansa del Tigri su cui si adagia Hasankeyf. Sono state abitate da epoche remote e sino agli anni Settanta molta gente viveva ancora lì. «Erano calde d’inverno e fresche d’estate», ricorda Ahmed. Poi un solerte primo ministro ritenne che, negli anni Settanta, tutto ciò non fosse più accettabile. E così la popolazione venne costretta a scendere più a valle. C’è solo una persona che vive ancora nelle grotte, Mehmet. Abita qui da 18 anni e si è sistemato niente male, con cucina, bagno, una stanza chiusa per l’inverno e una magnifica vista sulla valle. «Io da qui non me ne vado – dice mentre si occupa dei piccioni che alleva nella grotta di sopra –. Se mi costringono a farlo, torno alle mie montagne».

Lui della città nuova non vuole proprio saperne. È lì di fronte, sull’altra sponda del Tigri, costruita ex novo con casette tutte uguali e tutte grigie. Ci sono anche alcuni edifici più grandi, come l’ospedale, le palazzine per i funzionari pubblici, le scuole e un hotel... Hanno fatto persino un’università e un museo. La strada per arrivarci è ancora dissestata; tutt’intorno ci sono erbacce e sterpaglie. Difficile credere che sia un luogo aperto e fruibile. Invece è così. Per il momento, è allestito solo il pianoterra e racconta – con molti reperti, apparati didascalici e ricostruzioni di ambienti – la storia più antica di Hasankeyf e della regione circostante, quella che risale all’Età del bronzo.



Il mausoleo di Hasankeyf (Pozzi Zanzottera/Parallelozero)

Fa parte dell’Hasankeyf New Cultural Park, una sorta di distretto culturale dove sono stati trasferiti alcuni dei principali monumenti della città. Proprio di fianco al museo stanno ricostruendo la moschea della dinastia curdo-musulmana degli Ayyubidi del XIV secolo, mentre il minareto è già stato rimesso in piedi. Un altro, letteralmente tagliato a fette, giace adagiato poco distante. Anche il mausoleo di Zeynel Bey, straordinario esempio di architettura anatolica, è stato sradicato dalla piana in cui venne costruito da un sovrano turkmeno nel 1475 e riposto proprio di fronte alla nuova città che gli fa da sfondo con le sue case anonime.

Hanno trasferito anche una porta romana, l’hammam femminile del XV secolo, l’antico cimitero, mentre procedono i lavori per smontare l’antica moschea che si trova proprio di fronte al ponte costruito nel XII secolo dal Sultano Artuqide Fahrettin e sotto la fortezza bizantina. Ma se i resti del ponte finiranno sott’acqua, solo la cittadella rimarrà al suo posto. Le acque dell’invaso, infatti, non arriveranno a sommergerla. Anzi, secondo i piani di chi vorrebbe rilanciare il turismo ad Hasankeyf attraverso tour in barca, immersioni e trasferimenti in funicolare da una parte all’altra del fiume, il castello sarà una delle principali attrazioni. Da due anni, però, è chiuso al pubblico, ma scostando una porticina di ferro che chiude un ovile e arrampicandosi lungo un ripido pendio di massi alto oltre 60 metri e largo più di un chilometro – appositamente posizionati per “ingabbiare” l’intera collina – si riesce ad accedere a questa vasta cittadella. Da lì il panorama è ancora più ampio e suggestivo: abbraccia un lungo tratto del Tigri, l’antico ponte, la cittadina lungo il fiume, le grotte su entrambi i lati... Guzide, che ha fatto tante battaglie e proteste per salvare Hasankeyf, è ammirata e sconsolata al tempo stesso. «Quest’area è la Mesopotamia; qui è nata la civiltà, qui c’è una storia antichissima. Non basta un progetto elettrico per far sparire tutto questo...».

da Avvenire

Comune di Latronico. «Vieni a vivere da noi, non pagherai le tasse»

Uno scorcio di Latronico, in provincia di Potenza (da Wikipedia Commons)

Avvenire
Il posto non è niente male: come in tanti borghi delle aree interne della Penisola, l’aria è salubre, il verde la fa da padrone e il paesaggio è di tutto rispetto. Ma, proprio come in tanti di quei borghi delle aree interne della Penisola, il lavoro scarseggia e in tanti scelgono di andar via. Tanto chel’80% delle case risulta abbandonato. A Latronico, piccolo centro di4.500 anime in provincia di Potenza, nel cuore della Basilicata, hanno deciso di rispondere alla piaga dello spopolamento offrendo l’esenzione totale dalle tasse comunali a tutti i pensionati che verranno a risiedere qui.
È il modello Portogallo: vieni ad abitare da noi, non ti facciamo pagare le tasse, come avviene nel Paese lusitano che ha aperto le porte a 80mila pensionati provenienti dall’estero con l’esenzione totale per la durata di dieci anni. Ma Latronico ha anche altro da offrire a chi volesse trasferirsi, invece che all’estero, in uno sperduto borgo circondato dal verde. Anzitutto, nella misura varata dalla giunta guidata dal sindaco Fausto De Maria, c’è anche la possibilità per i nuovi residenti di usufruire di unservizio taxi gratuito offerto dal Comune per le visite mediche, per esempio, o per le cure termali presso la cittadella del benessere. Già, perché il piccolo centro lucano ospita delle importanti terme, un motivo in più per trasferirsi qui per i pensionati italiani: nel provvedimento voluto dall’amministrazione comunale è peraltro prevista anche la gratuità della seconda cura termale (già prevista per la prima)Non è finita qui: l’offerta del paesino lucano comprende un costo della vita e delle case – se ne trovano perfino a un euro – molto basso rispetto a quello delle grandi città, nelle quali molti pensionati impoveriti faticano a tirare avanti. E poi qualità della vita, possibilità di interazione con i propri coetanei rispetto alla solitudine che molti di loro vivono negli affollati centri urbani italiani.
«L’idea ci è venuta sulla scorta della legge Bagnai (varata durante il primo governo Conte, che vorrebbe fare del Sud Italia un novello Portogallo, ndr)», spiega il sindaco di Latronico. In base al provvedimento che porta la firma del senatore leghista, i pensionati provenienti dall’estero trasferitisi nei Comuni della Sicilia, Calabria, Sardegna, Campania, Basilicata, Abruzzo, Molise e Puglia con popolazione non superiore ai 20mila abitanti, possono scegliere di sottoporre i loro redditi a una tassa forfettaria del 7%. «Ci sembrava però poco per combattere lo spopolamento delle aree interne, anche perché questa misura mira soprattutto ad attirare nuovi residenti stranieri – spiega De Maria –. Noi invece abbiamo pensato a un provvedimento che spingesse gli anziani italiani a venire a vivere qui, con un particolare riguardo a quelli che sono stati costretti a emigrare in altre regioni o in altre nazioni e che vogliono tornare nel loro paese natale».Infatti, i primi a beneficiare del provvedimento sono state proprio persone che avevano già un legame forte con Latronico. C’è il signor Bruno, che da Napoli è tornato nel suo paesino d’origine. C’è poi la signora Filomena, che da Vallo della Lucania, in Campania, si è trasferita qui dove vive suo figlio.
Le adesioni si contano ancora sulle dita delle due mani, ma il sindaco confida nelle possibilità offerte dal “Quarto potere”: «Nelle ultime settimane, complice anche l’aumentata attenzione della stampa, stiamo ricevendo molte manifestazioni di interesse da tutta Italia».

ENIT GERMANIA



Enit a Rostock promuove l'Italia sulle navi
ENIT a Rostock per promuovere l’Italia sulla Nave Ammiraglia Amerigo Vespucci. Dall'8 all'11 agosto 2019 si svolge nel porto di Rostock sul Mar Baltico la Hanse-Sail, regata a cui partecipano velieri e navi d'epoca. La nave per l’occasione ha ospitato grazie ad ENIT maxi schermi con i video promozionali dell'Italia.

Estate Italiana a Potsdam
Un mese di promozione dell’Italia sui mezzi pubblici della città di Potsdam e sui treni regionali che da Berlino vanno e tornano nella regione del Brandeburgo passando per Potsdam. Un mese intero per raccontare l’Italia dei borghi, del mare, del cibo e del turismo slow e attivo in occasione dell’iniziativa promossa dalla Città di Potsdam “Estate italiana”, che ha visto anche l’inaugurazione presso la Fondazione Barberini di una parte della collezione del Muse Barberini di Roma. 

Estate italiana a Berlino:
Si è appena conclusa a Berlino la rassegna realizzata dall’Istituto Italiano di Cultura “Estate Itailana”: 5 serate dedicate alla musica e la cultura Italiana a cui ENIT ha associato un tema del turismo italiano.

An Italian evening
Nella cornice del ristorante „Il Mezzanino” di Eataly di Monaco si è svolta la prima tappa di “An Italian Evening” - Roadshow Germania 2019, format degli eventi B2B sul tema MICE organizzati dal Convention Bureau Italia con il supporto di ENIT. Il workshop ha visto la partecipazione di 40 professionisti del settore tra buyer e supplier. ENIT ha tenuto una presentazione sull'azienda e sul territorio italiano come destinazione MICE ai professionisti presenti.