A Berlino la Palermo e la mafia di Letizia Battaglia

 

BERLINO - I giovani, la vita nei quartieri popolari, i volti delle donne, e in particolare delle bambine come segnale di speranza per una città che negli anni sanguinosi delle guerre di mafia ha visto nelle strade i corpi di decine di persone. E poi i politici collusi, i boss nelle aule di tribunale o al momento dell' arresto, i magistrati e gli esponenti politici protagonisti - e vittime - della lotta di ieri e di oggi al crimine organizzato. Approda a Berlino il racconto della Palermo su cui per anni ha puntato il suo obiettivo Letizia Battaglia, maestra della fotografia tra le più famose della scena internazionale. L' Istituto Italiano di Cultura della capitale tedesca ha scelto per la riapertura al pubblico l' artista siciliana come protagonista del Progetto 'Dedika', che ogni anno concentra l' attenzione con iniziative e approfondimenti su un personaggio emblematico del panorama nazionale. Scatti potenti in bianco e nero sono raccolti nella mostra antologica 'Letizia Battaglia. Palermo e la lotta alla mafia'', a cura di Michela De Riso, inaugurata in questi giorni nell' ambito del Mese Europeo della Fotografia di Berlino, e visitabile fino al 31 marzo dell' anno prossimo. Per questo appuntamento dal 8 ottobre al 3 dicembre 2020 è in programma un ciclo di sei conferenze curate da Nando dalla Chiesa sul fenomeno delle mafie.

''Non mi sento soltanto una fotografa - ha detto Letizia Battaglia in videoconferenza -. Amo Palermo, la mia gente, la vita. Sono una militante. Con la macchina fotografica ho tentato di raccontare la violenza e il dolore Palermo, che è anche mio. Quegli anni sono stati umilianti. Sono avvenuti tanti orrori e ingiustizie nei confronti della vita, che è stata tolta alle brave persone ma anche a tanti mafiosi''. Letizia Battaglia ha ripetuto di aver sempre rispettato chi fotografava. ''Non ho mai infierito. Volevo solo una buona foto che raccontasse la realtà''. Certo, stare di fronte ai boss come Leoluca Bagarella o Luciano Liggio non era facile. ''Tremavo, spesso le mie foto venivano mosse per l' emozione. Bagarella cercò di darmi un calcio perché non sopportava l' idea di essere fotografato da una donna. Ritrarre i mafiosi è terribile. Hanno una vita crudele negli occhi e questi fa molto male''. Quando nel 1992 Falcone fu ucciso la fotografa era in casa della madre e apprese la notizia dalla tv. ''L' ho amato tanto perché era un eroe - ha spiegato - ma non ho avuto la forza di andare. Feci lo stesso mesi dopo quando morì Borsellino. Non ho voluto più raccontare i morti ammazzati''. Nonostante in seguito il suo lavoro l' abbia portata in giro per il mondo, il capoluogo siciliano le è rimasto nel cuore. ''Le foto di Palermo le amo più di tutte, le sento mie'' I ricchi, i poveri e i poverissimi, la vita violenta delle strade, le piazze…. Le immagini della grande fotografa compongono il mosaico affascinante e amaro della città.

''Letizia Battaglia - dice Maria Carolina Foi, direttrice dell' Istituto italiano di Cultura - interpreta la fotografia come impegno civile, descrivendo la realtà senza filtri, scevra da soluzioni tecniche e formali. Oltre ai corpi di giudici e vittime senza nome, Battaglia ritrae anche i suoi soggetti prediletti, bambine e giovani donne espressioni di un futuro possibile''. Una scelta condotta con ''passione militate e con uno sguardo allo stesso tempo distaccato e partecipe''.

Nata a Palermo nel 1935, Letizia Battaglia ha diretto dal 1974 al 1991 il team fotografico del quotidiano "L'Ora" di Palermo e fondato l'agenzia Informazione fotografica. Oltre ai fatti di cronaca, sul finire degli anni Settanta ha documentato con un lungo lavoro sul campo la realtà degli ospedali psichiatrici, ancora aperti nonostante la legge Basaglia approvata nel 1978. Nel 2017 ha realizzato il suo sogno inaugurando il Centro Internazionale di Fotografia ai Cantieri Culturali della Zisa di Palermo. Tra le foto esposte a Berlino le sue parole spiegano in modo chiaro il suo modo di osservare la realtà. ''La fotografia l' ho vissuta come documento, come interpretazione… l' ho vissuta come salvezza e verità''.

ansa

ARTE/ Nel “ritratto della madre” la grandezza segreta e anomala di Boccioni in mostra a Domodossola

Da oggi per 15 giorni è in mostra a Domodossola “Ritratto della madre” (1910) di Umberto Boccioni. Un’opera straordinaria e anomala

Alla fine della sua breve vita ne dipinse ben 62: 62 ritratti di sua madre, tra disegni e dipinti. È il caso davvero unico di Umberto Boccioni, il maggior artista italiano del 900, vero artefice della grande stagione futurista, morto nel 1916 a soli 34 anni. Nel nostro secolo solo Alberto Giacometti ha mostrato una simile attenzione al volto della propria madre Annetta. Ma la “predilezione” di Boccioni verso Cecilia Forlani, la donna che lo aveva messo al mondo nel 1882 a Reggio Calabria, è qualcosa di davvero fuori dall’ordinario. Proprio in questi giorni uno dei 62 ritratti conclude la mostra “Umano molto umano” organizzata a Casa de Rodis, a Domodossola: una mostra a rotazione che prevedeva ogni settimana l’“incontro” con un grande ritratto del 900, nella vetrina affacciata sulla piazza centrale della cittadina ossolana. Da oggi, ed eccezionalmente per 15 giorni, sarà la volta dello stupendo Ritratto della madre del 1910, proveniente dalla Galleria Ricci Oddi di Piacenza. Un prestito reso possibile grazie alla collaborazione del museo e in particolare del suo presidente Massimo Ferrari. 

Come si spiega una tale attenzione nei confronti di propria madre da parte di un artista dal carattere tumultuoso e dalla vita nomade? Sappiamo da tantissime testimonianze che Boccioni era personaggio inquieto, a volte anche rissoso; non si contano poi le quantità di avventure femminili che hanno costellato la sua vita. Il suo profilo era quello tipico di un uomo di avanguardia in un inizio secolo travolgente e tempestoso, come era stato l’inizio del 900. Erano personaggi portati a tagliare i ponti con il proprio milieu sociale e famigliare. Anche Boccioni era un oltranzista, non solo nell’arte ma anche nelle scelte di vita; fu tra i protagonisti di questa straordinaria accelerazione che portò ad una rottura generalizzata con i linguaggi del passato.   

Ma Boccioni in tutto questo rivolgimento custodì sempre il legame più “inaspettato”, quello con la propria madre Cecilia (che si era divisa precocemente da Raffaele Boccioni, padre di Umberto). Era un legame profondo, che lo portava a esternare spesso preoccupazioni da figlio molto premuroso: quando la sorella Amelia si sposò, aveva raccomandato al futuro cognato di prestare attenzione particolare alla mamma. Boccioni infatti in quel periodo era sempre in giro per l’Europa e quindi non poteva prendersene cura. Tornato a Milano, sarebbe andato a vivere con lei.

Ma c’è di più. C’è la centralità che per il Boccioni artista assume quella figura di donna di un altro secolo, con i capelli bianchi raccolti sulla testa e gli abiti da donna del popolo. Come si può spiegare questa vera “anomalia”?

Nel 1912, nella casa di tre locali di corso Genova 23 a Milano, Boccioni aveva realizzato uno dei 62 ritratti intitolandolo Materia. È un quadro colossale in ogni senso, anche per le sue misure, uno dei capolavori dell’intero 900. Un quadro che fa sintesi dell’esperienza futurista e la rilancia dentro una prospettiva di inedita grandezza. “Capolavoro ostico e stupendo”, lo definisce Gino Agnese nella sua biografia di Boccioni. Il titolo gioca sull’assonanza con la parola latina “mater”: come se il corpo di Cecilia non fosse generativo solo di quel figlio scapestrato e geniale, ma anche del farsi stesso della pittura. È un ritratto dentro il quale irrompe il mondo intero, con i suoi cambiamenti travolgenti, ma anche con i drammi incombenti.

Il cammino di avvicinamento a questo capolavoro è costellato di opere dove l’impeto lascia sempre spazio alla tenerezza. Come nel caso del Ritratto in mostra, dove Boccioni lascia che la luce baci la madre posandosi sul suo volto. È un ritratto affascinante e anche spiazzante, perché non ci si aspetta che una visione moderna, tesa e inquieta, possa prendere corpo su un corpo “antico”. Ma questa è la grandezza segreta e “anomala” di Boccioni.

sussidiario.net

Aosta. Che impressione i pittori tedeschi

Fino al 25 ottobre, al Museo archeologico una mostra sugli sviluppi germanici della corrente fondata da Monet & C. Ma è ora o di rimettere in discussione le categorie e gli stereotipi critici

Ulrich Hübner, “Travemünde I” (1920)
Avvenire

Le due parentesi entro le quali leggere l’interpretazione che da un secolo ruota attorno alla superiorità della pittura francese dell’Ottocento rispetto a quanto si è visto in Europa e oltre tra gli ultimi decenni del XIX secolo e i primi del XX, potrebbero essere rappresentate - per rimanere alla critica italiana - da Roberto Longhi e Federico Zeri. Il primo non aveva dubbi che nessun macchiaiolo potesse competere con i grandi dell’impressionismo francese, da cui anche il 'Buonanotte, signor Fattori'; al contrario, il suo discepolo eretico, Zeri, invece era straconvinto che la nostra pittura di quell’epoca non avesse quasi nulla da invidiare ai francesi e fu uno dei promotori più assidui della riscoperta dell’Ottocento italiano (e non solo: ricordo che nel 1998, pochi mesi prima di andarsene, durante un breve soggiorno a Mentana mi decantò, per esempio, la grandezza paritaria di Alma-Tadema). In questi ultimi decenni il mercato dell’Ottocento italiano è molto cresciuto, anche se non ha raggiunto le vette quasi idolatriche dell’impressionismo francese. È inutile girarci attorno: i francesi aprirono una strada, ma furono anche quelli che la percorsero fino in fondo rimanendo primatisti del genere. Si può dunque parlare di "impressionismo tedesco" come titola la mostra in corso ad Aosta, nel Museo Archeologico Regionale? Fino a un certo punto. In ogni caso, non ci si deve nascondere che il titolo ha un valore di marketing: l’impressionismo, come sappiamo, è un volano formidabile per attirare pubblico, se poi si aggiunge l’aggettivo "tedesco", si promettono nuove scoperte a chi voglia recarsi al museo per vedere questa mostra curata da Daria Jorioz. E qui si pone la seconda ragione della mostra: praticamente sono state spostate in blocco settantadue opere del Landesmuseum di Hannover. Confesso che se da un lato m’intrigava il titolo, dall’altro ero molto perplesso nell’apprendere dagli apparati della comunicazione che si trattava dell’ennesimo tentativo di spacciare per mostra di studio ciò che invece è frutto di un accordo fra musei - di cui non voglio sindacare i motivi -, secondo uno schema che dura da vent’anni e più, ed è diventato un costume a mio parere molto discutibile. Milano, nella fattispecie Palazzo Reale, propone da tempo mostre a ripetizione nate dallo schema del prestito museale complessivo.

Mi soffermerò, dunque, soltanto sull’evocazione intrigante del titolo e sul tentativo, non so se claudicante ma certamente poco probatorio, di dimostrarlo con le opere. La curatrice, che è anche direttrice del Museo, ha subito messo in chiaro che l’espressione "impressionismo tedesco" è una categorizzazione cara alla parte germaanica, ma si tratta di una scelta che lei stessa condivide, e lo motiva - anche in catalogo (Silvana editoriale) - chiamando in causa, per così dire, un orizzonte più vasto che dovrebbe illuminare una rete planetaria dove il fenomeno dell’impressionismo si confermi come il primo movimento artistico internazionale, quindi non soltanto europeo, ma anche russo, americano, canadese... Idea che riapre un dibattito interminabile, ma che si potrebbe riassumere con una domanda paradossale: 'E se l’impressionismo fosse solo un’astrazione e come poetica pittorica non esistesse affatto?'. Anche la curatrice della mostra ricorda che il termine ebbe una origine negativa: fu partorito dalla penna di un giornalista francese davanti al quadro di Monet Impression, soleil levant (1872) oggi visibile come "feticcio" del Museo Marmottan di Parigi. Si potrebbe dire, dunque, che l’impressionismo sia nato da un quadro dipinto all’alba, che rappresenta il porto di Le Havre avvolto in una nebbiolina di quelle che, nel Nord della Francia, rendono il paesaggio struggente e fascinoso. In realtà, Monet e Pissarro erano emigrati a Londra mentre infuriava la guerra franco-prussiana, e lì fra Turner, le prime nebbie londinesi dipinte da Whistler e la scoperta decisiva che le ombre proiettate sulla neve riverberavano sulla superficie "impressioni" colorate, tornarono a Parigi a guerra finita rielaborando le loro intuizioni.

Certamente l’en plein air è una delle connotazioni fondamentali di ciò che chiamiamo impressionismo, ma in quell’intorno d’epoca, anche fuori dalla Francia, altri sentivano il bisogno di lasciare lo spazio chiuso dell’atelier per aprirsi al nuovo verbo di un rapporto con la natura da tradurre in valori pittorici. Basta questo per dire che l’impressionismo ha diffuso ovunque il suo modus operandi? Daria Jorioz cita, fra le teste di serie francesi, Monet, Pissarro, Renoir, Manet (che non si considerava affatto un impressionista, nonostante il Déjeuner), Sisley e... Degas. Ma quest’ultimo ha rifiutato l’impressionismo come categoria e come appartenenza, per lui la pittura era arte di convenzione e la risolveva solo nel suo atelier, che aveva i vetri annebbiati dallo sporco perché il pittore non amava gli effetti della luce diretta (e a proposito degli artisti che dipingevano all’aperto e alla moda dell’en plein air, disse che c’erano troppe correnti d’aria nell’impressionismo). Degas, ma anche Manet, sono i principali esponenti di una discontinuità rispetto all’impressionismo.

La studiosa evoca, tra i critici italiani, Renato Barilli, il quale diciotto anni fa curò a Brescia proprio una mostra sull’"impressionismo italiano". E dieci anni prima, cogliendo il vento di rilancio dell’Ottocento sul versante mercantile (ma anche come riscoperta di un orgoglio pittorico italico), aveva allestito una retrospettiva sui nostri pittori che operarono nella prima metà del XIX secolo. È evidente che se si vuole sostenere qualche consentaneità coi francesi sarebbe forse più opportuno cercarla fra gli scapigliati - e il loro precursore, il grandissimo Giovanni Carnovali più noto come Piccio - anziché fra i macchiaioli (la verifica si potrà fare di nuovo fra poco vedendo la mostra che si aprirà a Padova, a Palazzo Zabarella, sul gruppo toscano). Ma il vento della critica segue le mode proficue. Non a caso, nel 2013, l’Orangerie di Parigi allestì, con uno staff di curatori quasi esclusivamente italiano, la mostra: Les Macchiaioli 1850-1874: des impressionnistes italiens? La risposta al punto interrogativo poteva essere del tutto paradossale: certo, però a patto che ammettiamo tutti che l’impressionismo non esiste. Esiste tuttavia un modo di dipingere, che magari si avvale dell’esperienza nella natura - ma il ciclo delle Ninfee dipinto da Monet a Girverny va ben oltre qualsiasi ipotesi impressionista, poiché sarebbe facile collegarlo con le visioni alchemiche di qualche esoterico cultore dei segreti del cosmo e delle forze oscure dell’universo (comprese quelle della bellezza, della luce - materia ineffabile - e della simbiosi fra pittura e natura, che non determina una poetica naturalistica, ma esattamente il contrario: la visionarietà).

E qui, concludendo, torniamo alla mostra, la cui struttura è tripartita: pionieri del paesaggismo tedesco; focus sui tre maggiori "impressionisti tedeschi" (Liebermann, Slevogt e Corinth); infine i discepoli e gli epigoni di questa poetica. Manca, a mio modo di vedere, qualche esempio che documenti meglio i precedenti nel realismo tedesco. La prima sezione, dove è esposto un bellissimo paesaggio di Anselm Feuerbach che raffigura la Manneporte presso Etretat del 1860, per quanto lo si voglia considerare "tradizionale" rispetto all’idea impressionista, è tuttavia un frutto distillato di esperienza e costruzione mentale che non ha nulla di anacronistico per l’epoca (certo sarebbe stato molto diverso se accanto a quadro di Feuerbach ci fosse stato quello di Monet, con lo stesso soggetto, conservato al Museo D’Orsay); splendidi anche i due piccoli paesaggi di Blechen e Bromels che hanno per tema le rocce di Tiberio a Capri e le paludi Pontine; la prima apertura al tema si ha con un dipinto di Hans Thoma (1891), dove l’impressionismo è come suggerito dal movimento del viandante che sembra salire verso il cielo, ma il modo impressionista è dato piuttosto dalla forma del banco di nuvole all’orizzonte. Un discorso a parte meriterebbero le opere grafiche di Liebermann e di Corinth, ma riguardo alla pittura di quest’ultimo è più difficile parlare di impressionismo solo per il modo di operare del pennello che destruttura le forme: il ritratto femminile intitolato Rococò - dove è evidente che il titolo ha trasferito la propria sostanza dall’intaglio della cornice alla divertente connotazione pittorica del personaggio - ci dice che il rococò è ormai un tema più dell’umano che del gusto estetico. Il gruppo di paesaggi più interessante dipinto da Liebermann è del 1915, cioè molto avanti per ricadere nell’impressionismo (rispetto al quale, del resto, sembrano assai autonomi).

Gli altri autori - segnalo un piccolo paesaggio di barche nel porto di Travemünde (Lubecca) di Ulrich Hübner (1920) - non seguono affatto la lezione francese, se non in senso lato, e questo ripropone la questione di fondo che presiede alla mostra: non esiste un impressionismo internazionale, esistono declinazioni nazionali e personali di un nuovo modo di mettere in rapporto la natura, la modernità e la pittura. Per cui l’unica mostra oggi auspicabile sarebbe quella che decostruisca l’impressionismo fino alla sua negazione, ovvero nelle dissonanze, personali e nazionali, e ricomponga i pezzi del mosaico in una nuova rivelazione del modo di vedere il mondo in Europa e oltre in un’epoca che va dal 1870 al 1915. Il resto è la facile moltiplicazioni di uno stereotipo fortunato, ma sempre meno consistente.

La mostra. Robert Breer: film come musica, sculture come coreografie

La Fondazione Antonio Dalle Nogare, a Bolzano, propone la prima retrospettiva in Italia sull'artista americano, per il quale il movimento è tutto


La mostra di Robert Breer alla Fondazione Antonio Dalle Nogare, Bolzano - Fondazione Antonio Dalle Nogare
Avvenire

Sembrano versioni in miniatura del “panettone” di Enzo Mari ma i Floats di Robert Breer sono esattamente l’opposto del paracarro di cemento (creato dal designer dieci anni dopo). Come piccoli animaletti queste sculture si muovono seguendo orbite imprevedibili, urtandosi e riprendendo il loro cammino. Nella sua versione gigante l’Osaka, creato per una installazione nel padiglione americano all’Expo del 1970, è un oggetto ingombrante, misterioso e impacciato, una specie di ordigno alieno da B-movie. L’elemento ludico ricorre nei lavori dell’artista americano, considerato tra i pionieri delle tecniche di animazione cinematografica, a cui la Fondazione Dalle Nogare a Bolzano dedica la prima retrospettiva in una istituzione italiana.

La mostra, a cura di Vincenzo de Bellis e Micola Brambilla e aperta fino al 5 gennaio, raccoglie un’ampia selezione di dipinti, film sperimentali e sculture realizzati dai primi anni 50 fino al 2011, anno della scomparsa. Figlio di un importante ingegnere della Chrysler, Breer si accosta alla pittura astratta per poi dedicarsi all’animazione, sviluppando presto una tecnica di montaggio serratissimo che bombarda lo spettatore di immagini. Presto, all’inizio con l’aiuto di Jean Tinguely, avvia la produzione di oggetti dotati di meccanismi, prima messi in moto dallo spettatore e poi autonomi: questi ultimi possono assumere molte forme, dal “porcospino” al ”tamburo, dalla colonna di Borne ai "panettoni".

Le forme sempre più essenziali che assumono queste sculture sembrano far rientrare Breer nel gruppo minimalista. In realtà la parentela dada e Fluxus è molto più forte – il che spiega perché Donald Judd si sia espresso in modo piuttosto netto su Breer. Anche il volume più semplice ha sempre in sé un patina di imprecisione, una sorta di inquietante tenerezza (le sculture di Breer rientrano nella grande categoria della cultura americana che è il freak), una tecnologia low-fi lontanissime dall’oggettività e dalla massa dei minimalisti.

Per comprendere davvero il lavoro di Breer bisogna però passare per la produzione video. A colpire è soprattutto la qualità “musicale” dei film, costruiti come una partitura visiva, secondo i principi della nuova musica. Non a caso Fistfight (1964) – dove per la prima volta l’artista adotta un montaggio al limite del subliminale – scorre in parallelo alla performance di Originale di Stockhausen, alla cui prima newyorkese Breer aveva partecipato come cameraman all’interno di un cast che vedeva tra gli altri Allan Kaprow, Nam June Paik, Charlotte Moorman e Allen Ginsberg.

Proprio Stockhausen, che appare nel fotogramma di apertura, aveva parlato per la partitura di «momenti autosufficienti legati in base al loro grado di intensità, alla loro durata, densità, quoziente di rinnovamento, sfera di influenza, attività, simultaneità, sequenza». È il modo con cui Breer imposta le sue sequenze, pausate da momenti di nero/ silenzio. Del tutto assente una narrazione, anche non lineare. Anche le sue sculture mobili allestiscono delle coreografie basate sull’impredicabilità propria dell’estetica di John Cage, dove è il caso il principio che determina le direzioni della composizione. Performance lentissime (altra caratteristica cageana), esattamente all’opposto dei film: ma in entrambi i casi l’esito è portare il tempo al limite della percezione.

Il covid blocca, di nuovo, le domeniche gratis nei musei italiani

 

È stata pubblicata lo scorso 26 settembre sulla Gazzetta ufficiale l’ordinanza del Ministero della Salute che sospende le domeniche gratuite al museo. Il provvedimento è stato preso a seguito della segnalazione da parte del Mibact della necessità, in attuazione delle misure di riduzione e contenimento del rischio connesso all’emergenza sanitaria da covid-19, di sospendere l’efficacia delle disposizioni regolamentari sull’accesso gratuito ai musei e agli altri istituti e luoghi della cultura la prima domenica del mese.
L’ordinanza del Ministero della Salute è motivata in considerazione dell’evolversi della situazione epidemiologica a livello internazionale e il carattere particolarmente diffusivo dell’epidemia da covid-19. L’iniziativa è stata lanciata nel 2014 riscuotendo un costante successo e si è fermata soltanto durante i mesi in cui il Paese era in lockdown.

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Abu Dhabi sempre più destinazione per i business event

 

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L’emirato celebra 2 nuovi risultati significativi nel settore degli eventi d’affari, dopo che l’Abu Dhabi Convention & Exhibition Bureau (ADCEB) ha annunciato la scalata della capitale delle classifiche relative alle destinazioni business divulgate da due prestigiose organizzazioni.

Sia la Union of International Associations (UIA), che la International Congress and Convention Association (ICCA) hanno confermato il miglioramento della posizione di Abu Dhabi nei rispettivi ranking. In base al rapporto UIA, nel 2019 Abu Dhabi si è classificata al 22 ° posto nel mondo e al 6° in Asia tra le destinazioni con il maggior numero di eventi. Rispetto all’anno precedente, gli eventi sono aumentati del 68%, determinando il piazzamento del paese come destinazione con il maggior numero di eventi nella regione MENA.

Inoltre, Abu Dhabi ha scalato 41 posizioni nelle classifiche ICCA, che considerano il numero totale di convegni tenuti in una destinazione insieme al numero totale di partecipanti in un dato anno, aggiudicandosi il 56° posto. La capitale ha registrato l’anno migliore di sempre in termini di numero totale di delegati che hanno partecipato alle convention organizzate nel paese.

“Nel 2019, abbiamo raggiunto un altro risultato ambizioso relativo alla business events industry – ha affermato Mubarak Al Shamisi, Direttore dell’Abu Dhabi Convention & Exhibition Bureau – Le nuove classifiche rappresentano una prova tangibile del duro lavoro e dell’impegno profuso per elevare il profilo della nostra destinazione nel campo degli eventi aziendali e, a nome del team ADCEB, vorrei ringraziare i nostri partner e stakeholder che hanno avuto e ricoprono tuttora un ruolo significativo nello sviluppo di questo settore ad Abu Dhabi. L’attività incessante e la collaborazione messe in campo negli ultimi dieci anni ci hanno aiutato a raggiungere il nostro intento comune e non vediamo l’ora di ottenere ulteriori risultati in futuro”.

Nonostante la battuta d’arresto imposta dalla pandemia globale, il settore degli eventi aziendali ad Abu Dhabi sta assistendo ad una graduale ripresa, espressa dalla pianificazione di una serie di iniziative nel prossimo futuro.

Il covid fa riscoprire la barca, al via il Salone Nautico con stand galleggianti

 Isole galleggianti per ospitare una parte degli stand, trasferiti sull’acqua per lasciare più spazio libero in banchina in modo da consentire la gestione dei flussi dei visitatori. Le postazioni in mare sono una delle novità che si troveranno davanti i visitatori del 60° Salone Nautico di Genova che si apre oggi, inaugurato dal ministro dei Trasporti Paola De Micheli, per concluderi martedì 6 ottobre.

Il Recovery fund, le risorse pubbliche italiane e le tradizionali risorse europee serviranno anche per finanziare la nautica e per rinnovare la flotta italiana, ha annunciato la ministra. “Da gennaio saranno finanziati già tre obiettivi – ha spiegato – la portualità con il miglioramento dei collegamenti stradali e ferroviari per passeggeri e mezzi nell’ultimo miglio, la infrastrutturazione green dei porti, e la sostituzione della flotta orientata a sostenibilità ambientale”. La ministra ha detto che “molte decisioni sono già state prese dalle aziende in termini innovativi, ora è necessario spianare la strada con queste risorse per accelerare i progetti. Abbiamo più fonti di finanziamento a disposizione: quelli italiani, le tradizionali risorse europee e il recovery fund”.

“Oggi tutto il mondo ci guarda, il sessantesimo Salone internazionale di Genova assume un significato speciale per le nostre aziende e la nostra filiera, e per Genova che oggi diventa la capitale europea e mondiale del mondo del saper fare italiano”, ha aggiunto il presidente di Confindustria Nautica Saverio Cecchi dal palco della cerimonia che apre il Salone Nautico. “Pochi mesi fa – ha aggiunto – è stato inaugurato ponte San Giorgio, oggi il primo salone internazionale in era Covid”. Il primo boat show in era Covid “è stato possibile grazie alla collaborazione di tutti, ha sottolineato Cecchi. Abbiamo sentito un abbraccio. Tutti volevano il Salone. Questo mi inorgoglisce, sono emozionato”. .

Studiata all’insegna della sicurezza senza pregiudicare il business, questa edizione ha allargato gli spazi a terra per garantire i distanziamenti e in una parte della darsena ha spostato appunto sull’acqua gli stand delle aziende che l’anno scorso erano sui moli. L’altra novità nel layout di questa edizione è che le superboat, cioè le imbarcazioni pneumatiche (i gommoni) di alta gamma avranno un’area dedicata.

Il primo boat show dell’era Covid-19 sancirà anche i risultati di una stagione, quella estiva, andata meglio delle stime, che a febbraio paventavano un calo del fatturato del 12% per il comparto nautico. Invece il calo è stato inferiore o non c’è stato, mentre si è registrato un interesse crescente per le vacanza in mare.

“Anzi, molte aziende di fuoribordo hanno incrementato a doppia cifra i fatturati”, ha sottolineato Alessandro Campagna, direttore generale de I Saloni Nautici, la società di Confindustria nautica che organizza il Salone di Genova. “La barca è diventata un po’ il simbolo di poter vivere in libertà le proprie emozioni: molti hanno messo la barca in acqua e tantissimi hanno cercato di comprarne una anche usata o l’hanno affittata – continua Campagna -. Persone insospettabili che non hanno mai avuto un’imbarcazione si sono avvicinate al mondo della nautica e ho ricevuto segnalazioni di molti che hanno già iniziato a ragionare sulla prossima stagione con barche importanti, da 60 o 70 piedi. C’è tanto lavoro da fare”.

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Tra vini e risi

 

A nord la Valpolicella  con le colline terrazzate, le celebri cantine, le pievi millenarie, le ville antiche, le corti rurali, le piccole contrade in cui ancora sono presenti i lavatoi in pietra di Prun e diversi fortini. A sud la bassa veronese con le risaie popolate da aironi dove si coltiva il vialone nano, le strade di campagna, i fiumi e i paesi ricchi di storia, in cui si trovano antiche residenze del Seicento e Settecento. È il Veneto che non ti aspetti da scoprire percorrendo le due strade che attraversano questo lembo della provincia di Verona: la Strada del vino Valpolicella e la Strada del Riso vialone nano veronese Igp, particolarmente affascinanti in questo inizio di autunno.

Il viaggio può iniziare da un piccolo gioiello poco conosciuto:  il borgo di San Giorgio di Valpolicella, uno tra i più belli d'Italia che  ospita una Pieve Longobardo-Romanica edificata  in pietra locale nell’VIII secolo. Qui si ammirano il monumentale campanile, il chiostro e gli scavi archeologici che hanno documentato l'esistenza in quest'area di un abitato preistorico e di un santuario romano. Nel vicino Antiquarium sono conservati i reperti epigrafici degli Arùsnates, una misteriosa popolazione di probabile origine etrusca che aveva mantenuto proprie divinità e tradizioni di culto anche dopo l'arrivo dei romani.  Un altro bell'esempio di arte romanica in Valpolicella è la Pieve di San Floriano, edificata tra l’XI e il XII secolo  sui resti di un antico cimitero romano.

Nel territorio di Dolcè, che nella frazione di Volargne, lungo l'antica Via Tridentina, sulle rive del fiume Adige  (dove è anche possibile praticare il rafting), va assolutamente visitata Villa del Bene (XV-XVI secolo), dove nella seconda metà del ‘700, l’accademico Benedetto Del Bene  condusse i primi studi enologici, in particolare sul vino rosso passito dolce Recioto. L’edificio  è articolato in più corpi di fabbrica, ricco di pregiati affreschi nei saloni interni e con un maestoso portale d'ingresso di fine Quattrocento. Belle le ville settecentesche che si ammirano nel comune di Negrar mentre a Sant'Anna di Alfaedo si visita l’imponente Forte Tesoro,  fortificazione italiana costruita agli inizi del Novecento e recentemente restaurata che riserva ai visitatori panorami mozzafiato.

Un’altra fortificazione, questa volta  austriaca a ricordo della dominazione d'Oltralpe qui presente fino al 1866, è il Forte di Ceraino nel comune di Dolcè. Lasciate le colline della Valpolicella e dirigendosi a sud per una cinquantina di chilometri si arriva a Isola della Scala, cuore pulsante della risicoltura veronese, dove in località Vo’ sorge isolata l’imponente Villa Pindemonte. Edificata nel Settecento è abbellita da numerose statue con dei e personaggi mitologici e da un ampio parco.

Numerose le ville, vecchie case patronali successivamente trasformate il luoghi da vacanza, presenti tra la le risaie. Tra le più belle spiccano Villa Gherardini a Sorgà, già appartenuta ai Gonzaga, dove si possono ammirare gli affreschi dell’architetto-pittore Giulio Romano, e la vicina   Corte Bugna, detta "Belvedere", che conserva il suo impianto quattrocentesco con la sovrapposizione di interventi cinquecenteschi nella distribuzione interna e settecenteschi nei profili delle finestre e dei portali. La cosiddetta "Stanza di Cesare" con affreschi del pieno Cinquecento, richiama il gusto manieristico che venne affermandosi a Mantova sulla scia dell’opera di Giulio Romano.

A Mozzecane si può visitare la settecentesca Villa Vecelli-Cavriani con molte decorazioni dei Bibiena e di Francesco Lorenzi; a Nogara la secentesca Villa Marogna,  mentre a Nogarole Rocca e a Salizzole si ammirano antichi castelli. Per rivivere il modo di vita dei contadini comprendendo anche l’evoluzione di utensili ed attrezzature utilizzate in campagna si possono  infine visitare il Museo della Civiltà Contadina a Corte Brà di Bonferraro e quello di Corte Lando, a  Levà di Gazzo Veronese. Da vedere anche la la Pila Vecia della Riseria Ferron a Isola della Scala (località Saccovener), che fu costruita  al 1650 per lavorare il riso. Tra una visita e l’altra vale la pena provare la cucina locale, ovviamente a base di riso, nei numerosi ristoranti e agriturismi della zona. 

repubblica.it

Valorizzazione dei percorsi escursionistici: patto tra Mibact e Cai

 

Il nuovo protocollo per il turismo montano sostenibile e responsabile è stato firmato dal ministro Dario Franceschini assieme al presidente generale del Club Alpino Italiano, Vincenzo Torti, presso il Salone del Ministro al Collegio Romano. Il protocollo rinnova l’accordo firmato il 30 ottobre 2015, centrato sulla potenziamento della rete sentieristica e dei rifugi montani, e prevede una serie di azioni condivise tra il Mibact e il Cai per la promozione, in ambito nazionale e internazionale dell’offerta turistica, nello specifico di quella montana, attraverso la valorizzazione dei percorsi escursionistici.

“La nuova intesa con il Club Alpino Italiano – spiega il ministro – metterà a disposizione molti strumenti innovativi agli escursionisti italiani e stranieri che scelgono le nostre montagne, favorendo un turismo pienamente consapevole, sostenibile e intelligente. Il piano strategico del turismo – continua il ministro – prevede la moltiplicazione degli attrattori di turismo e valorizzazione di forme ti turismo sostenibili e cosiddette “minori” ma non è giusto chiamarle così. Mentre l’emergenza ha fatto scomparire il turismo internazionale e ridurre quello europeo e abbiamo visto purtroppo le città d’arte passare dal sovraffollamento al deserto (e abbiamo approvato misure per aiutarle), gli italiani che prima andavano all’estero sono rimasti qui. E si sono messi alla ricerca di una vacanza percepita come più sicura. Ecco che sono cresciute le mete di montagna e il turismo legati ai cammini e ai borghi. In modo traumatico ci è stata indicata che era la strada giusta da percorrere. In Italia ci sono 100 cammini di Santiago di Compostela che attraversano bellezze e patrimoni incredibili per un turismo colto, sostenibile, rispetto dell’ambiente che valorizza i luoghi minori”.

Nello specifico il protocollo prevede: il completamento entro il 2021 del Catasto nazionale dei Sentieri (Infomont), grazie all’aggiornamento costante dei tracciati rilevati con il metodo di geolocalizzazione gps; l’impegno da parte del Mibact per uno stretto confronto con Regioni ed enti locali per uniformare interamente la segnaletica orizzontale e verticale in tutta Italia, in modo coerente con quella ufficialmente predisposta e adottata dal Cai; una particolare attenzione al Sentiero Italia Cai, spina dorsale del Sentiero dei Parchi che attraverso i suoi oltre 7000 km, unisce tutte le regioni italiane, con il fascino, la bellezza e le tradizioni dei loro territori interni; un impegno comune per facilitare la realizzazione di una rete di strutture per l’accoglienza su tutto il territorio nazionale per camminatori ed escursionisti.

Per assicurare ancora maggiore sicurezza nella frequentazione dei percorsi escursionistici e dei cammini, l’accordo definisce un percorso che ha come obiettivo l’attivazione gratuita per tutti dell’applicazione GeoResQ – da installare sul proprio smartphone e gestita dal Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico (CNSAS) – che consente l’immediata geolocalizzazione in caso di incidente e la conseguente attivazione del soccorso. Il Database completo del Catasto nazionale dei Sentieri sarà disponibile sul portale della Direzione Generale del Turismo del Mibact.

“Il protocollo – aggiunge il presidente generale del CAI Vincenzo Torti – apre nuove prospettive di collaborazione tra Mibact e Cai. Basti pensare al Sentiero Italia CAI che, attraversando tutte le regioni del nostro Paese, avvicinerà un turismo lento e rispettoso alle bellezze e alle culture dei nostri territori”.

“La firma del protocollo – sottolinea Lorenza Bonaccorsi, sottosegretaria al Turismo – suggella una collaborazione che abbiamo intensificato molto in questi mesi. Gli italiani – come dimostrano anche i dati di quest’estate – hanno riscoperto la montagna e il turismo dei sentieri. Come tutta la parte che riguarda l’outdoor e il turismo all’aria aperta c’è stato quest’anno un forte aumento di flussi ed è il segmento che è cresciuto di più in proporzione rispetto alle altre mete di vacanza. Crediamo che anche nei prossimi anni la montagna e i cammini diventeranno centrali e per questo stiamo lavorando per sistemare e valorizzare lo straordinario patrimonio nazionale. Il Sentiero Italia Cai, con i suoi 7.200 km e oltre 260 tappe ha le potenzialità per diventare il percorso a piedi più bello al mondo. La sua lunghezza, la sua varietà e le sue possibilità offerte dai diversi territori italiani, dalla Sardegna al Friuli, lo rendono un posto unico e tutto da scoprire”.

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Franceschini: dall’era covid prendere il meglio, a partire dalla nuova idea di vacanza

 

“Finito il lockdown e l’emergenza, tutto questo periodo si chiuderà come una parentesi e tutto tornerà come prima o questo passaggio ci lascerà un segno permanente? Io credo nella seconda ipotesi”. A dirlo, il ministro di beni culturali culturali e turismo Dario Franceschini, intervenendo al Festival delle città 2020.

“Siamo sicuri – domanda il ministro – che il piacere del luogo affollato tornerà anche quando non avremo più il timore del contagio? Torneremo a darci la mano? Il dovere che abbiamo come governo – spiega – è prendere le parti migliori di questo periodo, ad esempio il comportamento che abbiamo avuto durante le vacanze. C’è stata – dice -una crescita enorme del turismo di montagna, dei luoghi naturali, dei borghi e dei cammini. Perché tornare indietro quando fino a gennaio scorso questi erano gli obbiettivi da raggiungere per liberare dal sovraffollamento le città d’arte? Quando il turismo tornerà imponente com’era a gennaio dovremmo esserci preparati a distribuire meglio quei numeri”, esorta.

“Altro tema – aggiunge – per il turismo, soprattutto quello internazionale, è l’adeguamento delle infrastrutture. Se arrivi dalla Cina e hai l’alta velocità da dentro l’aeroporto, andrai più volentieri a vedere i bronzi di Riace. In questo, il gap del nostro paese non è solo Nord Sud, ma anche Adriatico-Tirreno. Molte delle cose che abbiamo imparato in questo periodo devono diventare strategie per il futuro del Paese”.

“Mi fa molto piacere – spiega il ministro – vedere decisori politici che in questo difficile periodo” di emergenza e lockdown “si sono resi conto che investire in cultura e turismo è una priorità economica del paese. Abbiamo visto tutti cosa vuol dire città d’arte vuote, i cinema e i teatri chiusi, i concerti annullati. Si è capito cosa vuol dire investimento e difesa dei luoghi della cultura e del turismo. Temi ora in discussione anche nell’ambito del Recovery Fund”, perché, conclude, “investire in cultura non è solo un dovere costituzionale, ma un grande contributo alla ripartenza del paese”.

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