Avvenire
Quando nel settembre 1543 il cardinale Nicolò Ridolfi entrò a Vicenza per prendere possesso della cattedra episcopale fu come per lui rientrare a Roma: la città gotica è scomparsa dietro un trionfale apparato effimero all’antica, con archi, pronai, statue colossali, obelischi, grisaille come bassorilievi. L’operazione ha due grandi registi: l’umanista Giovan Giorgio Trissino e l’architetto Andrea Palladio. Sono le prove generali di una delle più grandi imprese del Cinquecento italiano: la completa trasfor-mazione di Vicenza in chiave classica. “Impresa” a buona ragione. Perché si trattò di un fenomeno reso possibile dalla convergenza di progetto culturale, possibilità economiche, volontà politica, talenti artistici. Non a caso è “Processi creativi, mercato e produzione a Vicenza” il sottotitolo della mostra, tra le più riuscite degli ultimi anni, che nella Basilica palladiana racconta “La fabbrica del Rinascimento” (fino al 18 aprile).
L’architettura di Palladio, la pittura di Paolo Veronese e Jacopo Bassano (protagonista di un vera e propria monografia che da cui esce come pittore superbo e, retrospettivamente, persino di maggiore modernità rispetto al collega), la scultura di Alessandro Vittoria – il meno noto del gruppo ma artista di prima grandezza anche nel panorama della penisola – sono i prodotti oggi più visibili e la chiave per entrare nella complessità di un sistema. Vicenza è nel Cinquecento una della città più facoltose della Terraferma veneta e d’Italia. Nel suo territorio si produce gran parte della seta della Serenissima, che viene esportata dalla sua classe di aristocratici mercanti in tutta Europa. In parallelo a quello economico la città vive un boom demografico. Ma ha perso la sua autonomia: dal 1404 è proprietà veneziana. L’orgoglio cittadino cerca uno sfogo, e lo trova nel progetto culturale di ripristino delle radici romane offertogli da Trissino e tradotto anche politicamente in immagine utopica da Palladio. Sarebbe servito a poco se contestualmente, come scrivono in catalogo (edito Marsilio Arte, che produce anche la mostra con il Comune di Vicenza) i curatori Guido Beltramini, Davide Gasparotto e Mattia Vinco, la metà del Cinquecento non rappresentasse «un momento cruciale per il progressivo affermarsi degli artisti nella società, i quali passano dal ruolo di artigiani a quello di personaggi dotati di dignità intellettuale pari a quella fino a quel momento riconosciuta solo ai letterati».
La mostra ricostruisce bene questa fase, rimuovendo ogni aura romantica da queste figure per ricollocarle nelle dinamiche del tempo e persino del momento attraverso una precisa selezione di documenti che ci riportano nel farsi degli eventi, tra libri contabili (di nobili e di artisti), registri, studi (seguiamo Palladio nel processo creativo), bozzetti. Ecco allora la circolazione dei modelli e in particolare il peso della cultura raffaellesca, diretta o mediata da Giulio Romano e Parmigianino; il rapporto con i committenti; il disinteresse nei confronti dell’unicità dell’opera in favore dell’invenzione replicabile; i meccanismi produttivi della bot- tega; la natura imprenditoriale dell’artista. In questo senso è di grande interesse la sezione sul valore dell’arte, realizzata grazie agli studi di Edoardo Demo che in catalogo firma il saggio dedicato all’economia vicentina.
Gli schei in arte non sono mai stati argomento secondario. Per risolvere i problemi di lettura della contabilità antica la mostra propone efficacemente come unità di misura di confronto il “mezanotto”, ossia il maiale di medie dimensioni. Si apprende così che un libro illustrato costava mezzo maiale, un dipinto di genere di Bassano poco meno di uno intero, una sua piccola pala d’altare con molte figure quasi tre, un mese di salario di Palladio come architetto della Basilica era pari a 1,8 maiali ma per costruirla ce ne vollero 20mila. A far salire il prezzo è il materiale: la scultura in pietra è cara (un busto di Vittoria: 25 maiali) ma il bronzo di più (due bassorilievi dell’Aspetti: 90 maiali). Carissimi i pezzi antichi – 100 maiali un busto romano, con conseguente pullulare di falsi - a testimonianza che il desiderio era anche allora fattore che incideva sul “valore” dell’arte.
Per fare le proporzioni, una pagnotta di pane fresco era pari a 1/167 di mezanotto, una spada un suino, una veste di seta 8 maiali. La paga di una domestica era 3 maiali all’anno, un operaio non specializzato nella seta 6, un operaio specializzato 20, un grande avvocato ne guadagnava 133, uomini d’affari internazionali come i committenti di Palladio dieci volte di più. Questa commistione essenziale di modernità e forme del passato è qualcosa che si rileva più profondità nel caso vicentino, dove sotto il candore palladiano sembra persino pulsare una dimensione “comunale”.
A muovere la trasformazione della città, come invece altrove, non è la corte ma l’oligarchia cittadina. E non a caso il progetto simbolo della nuova Vicenza è la Basilica, ossia il ristrutturato Palazzo della Ragione. «C’è solo un altro caso parallelo ed è Brescia con la Loggia – spiega Beltramini, direttore del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio –, anche se gli esiti estetici non sono paragonabili. In queste due città, ricchissime e divenute veneziane nello stesso periodo, c’è un’idea di difesa delle “piccole patrie”. Quando arriva la Serenissima le aristocrazie urbane sono quelle che pagano di più la perdita dell’autonomia: famiglie qui nobili da secoli in laguna non conteranno mai nulla. L’appello all’identità cittadina diventa forte e il richiamo alle radici romane ha l’eco di dinamiche comunali».
Questo orgoglio identitario, che passa anche attraverso il ripristino dei luoghi pubblici, non è il solo elemento che accomuna Vicenza e Brescia. Entrambe sono tra i centri del Nord Italia in cui maggiormente circolano le idee riformate. Tra i committenti di Palladio e Veronese ci sono i da Porto, sospettati di eresia dall’Inquisizione, e i Thiene, alcuni dei quali fuggono Oltralpe. Germano Maifreda in catalogo sottolinea come il vettore possa essere ricercato nel dinamismo commerciale che mette in contatto gli uomini d’affari vicentini con territori europei passati al protestantesimo oppure con idee e testi eterodossi. E Beltramini ricorda come «per spiegare la diffusione del calvinismo a Vicenza una delle ragioni portate dagli studiosi è il fascino esercitato dalle città-stato svizzere, un ulteriore richiamo all’autonomia ». L’epopea si avvia con un trionfo effimero e si conclude cinquant’anni dopo con il Teatro Olimpico, dove per la prima volta nella storia moderna si solidifica una architettura altrimenti temporanea.
Quella di Vicenza è la storia di una pietrificazione della scena urbana. Anche oltre la volontà dei protagonisti. Nel teatro le scene realizzate da Scamozzi per l’inaugurale Edipo re non sono mai state toccate. Dopo la morte di Palladio il laboratorio si fissa in tradizione. Cosa è accaduto? «Prendiamo il caso di Montano Barbarano – risponde Beltramini – che spende tutti i suoi soldi per far costruire da Palladio un palazzo alla romana. Alla sua morte i figli vendono il palazzo per comprare le cittadinanza veneziana. La battaglia culturale sembra avere senso per la generazione dei padri, mentre quella dei figli si sente più veneziana. Nello svilupparsi del secolo quella che era una spinta civile diventa retorica». Nel caso dell’Olimpico una retorica fuori tempo: più che il primo teatro moderno è l’ultimo antico. «Lo spunto è il teatro all’antica disegnato da Raffaello per Villa Madama. Ma una cosa è pensarlo nel 1519, un’altra nel 1580, in un momento in cui il teatro sta cambiando: l’Olimpico è incompatibile con la nascente drammaturgia barocca, che necessita di scene mobili e macchine. Non a caso dopo l’inaugurazione per duecento anni non verrà più utilizzato come teatro. C’è in tutto questo una dimensione malinconica, ben colta da Guido Piovene che vede nell’operazione di Trissino e Palladio una natura chimerica. Poi arriverà la peste del 1630: la città crolla e non si rialzerà più».