Francesco Guccini, Loriano Macchiavelli “La pioggia fa sul serio” pp. 200, € 17,50
Un settembre piovoso come non s’era mai visto, con acqua che cade da tutte le parti e si porta giù pezzi di montagna, dilavamenti, smottamenti. Da questo strano diluvio emiliano, annunciatore di cose funeste, sgorga il nuovo giallo del duo Guccini-Macchiavelli, La pioggia fa sul serio . Romanzo di frane e altri delitti. L’uno grande cantautore che «si sente un po’ vecchio» e ha appeso l’ugola al chiodo. L’altro, giallista tra i più durevoli dell’eurozona (il suo Sarti Antonio è longevo quanto Maigret), cantore della Bologna nera prima che la cronaca s’accorgesse che Bologna aveva effettivamente un’anima nera. Si sono conosciuti quasi vent’anni fa con la storia di un prete affogato in un rivo per colpa del vino («gliel’ho raccontata ed è nato il nostro primo giallo, Macaronì», dice Guccini) e da allora con regolare cadenza confezionano romanzi a quattro mani, prima con il maresciallo Santovito, trasferito dal meridione all’Emilia; ora con Marco Gherardini, detto «Poiana», un agente della forestale che oltre a vegliare su boschi, carrarecce, bracconieri, cinghiali, raccoglitori a ufo di funghi, mirtilli, tartufi, risolve delitti; tutti ambientati sui pendii dolci e selvaggi dell’Appennino tosco-emiliano, dove entrambi vivono, per scelta, dopo un’intensa vita metropolitana, in un romitaggio pacato di convivi, amicizie, letture, pensieri.
Guccini a Pàvana, sulla Porrettana, l’antica strada che metteva in comunicazione il Granducato di Toscana con lo Stato Pontificio, onusta di storie, di commerci, viandanti, banditi, soldataglie. «Sebbene sia nato a Modena - dice Guccini - questi rivi, queste nuvole basse che giocano con le cime dei monti fan parte della giovinezza. Venivo in questa casa dei nonni, accanto al loro mulino, a passare le estati con i giochi pieni di fantasia e il tempo che non finiva mai. Ora non riesco più a vivere questi luoghi come allora, un po’ perché non ho più l’energia per passeggiare, un po’ perché la natura è cambiata, trascurata, violentata dall’uomo. I castagni vengono attaccati da malattie strane che arrivano fin dalla Cina. Nessuno pulisce più o boschi, i cinghiali, che sono carini e simpatici disfano tutto, lasciano buche enormi che paiono bombardamenti. I paesi si spopolano, e perfino le carte rischiano l’estinzione, perchè i vecchietti faticano a formare il tavolino al bar per la partita».
Macchiavelli sta invece a Montombraro, borgo medievale all’ombra d’un castello di Matilde di Canossa nel comune di Zocca («quello dov’è nato Vasco Rossi, e mi fa venire un’invidia… perché tutti lo conoscono per questo»), dove si mangiano cibi antichi come i borlenghi, «Mi riposa stare quassù in compagnia dei pensieri, del cielo, degli alberi. Sono diventato più contemplativo, è finita la giovinezza delle battaglie e Bologna, che ancora amo, non la riconosco più. La montagna, che sembra così silenziosa, invece è piena di stimoli per un giallista. Cova misteri infrattati nei sentieri, nelle forre, nelle rocce. Rancori trasmessi per generazioni d’un tratto deflagrano».
Quest’Appennino sorprendentemente noir, custode di tesori nascosti, può quindi svegliare appetiti criminali. «Per carità non sveli nulla, altrimenti il piacere della lettura svanisce» si raccomanda Guccini. L’intrigo – senza violare la consegna del silenzio - si svolge nell’immaginaria Casedisopra, piccola Macondo di personaggi e comparse bizzarri, dal prete polacco che ha sostituito l’anziano parroco all’aitante maresciallo dei carabinieri (il nonno del «Guccio» era carabiniere a cavallo, che per un centimetro non riuscì a diventare corazziere), extracomunitari, la tabaccaia dritta come un fuso che ha strafumato per settant’anni, bracconieri, prof in pensione e forestieri che arrivano da chissà dove per fare chissà cosa... finché non ci scappa il primo morto, un geologo che effettua strane ricerche su un masso nero.
Con il passo lento delle storie che si gonfiano in osteria, il Poiana dipana la matassa, cercando indizi sotto frane, case abbandonate, e persino oratori affrescati che stuzzicano una fantasiosa attribuzione. Nientemeno che Piero della Francesca. «Piero aveva lavorato a Bologna, poi fu costretto a tornare indietro perché la madre stava morendo – dice Macchiavelli -. Perché non immaginarlo che si fermava tra i monti a dipingere una madonna con il ventre gonfio come quella celebre di Monterchi? Poi cancellata perché dopo il concilio di Trento, più severo verso il corpo, tutte le immagini della vergine incinta erano diventato intollerabili, quasi sacrileghe». «Una storia bella - rincalza Guccini - quindi ho dato il nulla osta». Dunque capita che vi bocciate nella scrittura comune? «E’ Loriano che mi corregge - dice Guccini -. L’idea nasce a me, la innaffiamo con qualche bicchiere di vino, poi butto giù il primo capitolo. Lui legge e me lo cambia. Poi scrive il suo, e anch’io ci metto del mio». Il romanzo nasce così, di capitolo in capitolo, poi assemblati a tavola, «quella di Francesco, perché lui non ha la patente e sono io che vengo in trasferta - dice Macchiavelli -. Di solito non sappiamo chi è il colpevole. Più andiamo avanti e più complichiamo la trama, aggiungiamo colpi di scena, depistiamo il lettore». Loriano sottrae, corregge, cassa. Guccini spennella particolari, cita cose perdute come nei due dizionari che ha compilato con amoroso spirito rigattieristico («E’ un esperto di botanica, antichi mestieri, gesti incastonati in una termine dialettale», dice il collega).
C’è molto di vero, anche nella fantasia. Poiana, per esempio, ha un negozio di ferramenta. «In parte si riconosce, ma si lamenta perché non lo facciamo mai scopare…». Già, nonostante compaiano belle fanciulle, di sesso ce n’è poco. «Quando arriva la scena d’amore è un rimbalzarsi di “scrivila tu, no tu, va bene provo io…” alla fine non viene fuori niente… l’eros non è nelle nostre corde». Bisticciate? «Discutiamo pacatamente. A volte smonto una tesi troppo azzardata con l’ironia», dice Guccini. «Siamo anche dalla stessa parte politica – dice Macchiavelli -. Io più massimalista. Renzi, per esempio, non mi piace. Francesco è più democratico e mi esorta “aspettiamo, vediamo che fa”. Ci piace stare insieme. Con le nostre mogli, gli amici, le storie. E alle undici di sera tutti a letto».
Oltre all’assassino da scoprire, il grande protagonista è l’Appennino, con la sua maestosa dolcezza. «Non è come le Alpi o come le Rocky Mountains ma ogni tanto richiede le sue vittime sacrificali, la vita di qualcuno che per orgoglio o incoscienza si ritiene più forte delle pietre. Invece la montagna non dà confidenza, neppure a chi crede di conoscerla». Perché la natura è sempre matrigna, e non bisogna prenderla sottogamba. Come la nostalgia. Altrimenti si trasforma in melassa dei bei tempi andati. «Amiamo questa terra, ma non c’è mai, né in me né in Francesco, il rimpianto conservativo di un’età dell’oro perduta – dice Macchiavelli -. Quando eravamo piccoli qui la gente faceva la vita grama, oggi la farina di castagna ha il sapore prezioso delle botteghe bio, allora aveva solo il gusto della miseria. La gente crepava di fame, si rompeva la schiena nel lavoro. Quel passato, se non torna, è meglio. Ciò detto dobbiamo pur pensare a costruire un futuro migliore di questo presente, parecchio meschino».
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