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Arte. Tutte le Madonne di Leonardo da Vinci

Leonardo da Vinci, particolare dalla "Madonna con il Bambino e sant'Anna" (Parigi, Louvre)

da Avvenire

Ha forse venti anni Leonardo quando, per i monaci di San Bartolomeo a Monte Oliveto, dipinge l’Annunciazione oggi custodita agli Uffizi. È un giovane artista, agli inizi della carriera, che dichiara i suoi debiti nei confronti del maestro Andrea del Verrocchio. Ma se ci fermiamo di fronte al prato sul quale plana il volo dell’angelo, ci accorgeremo di avere di fronte ai nostri occhi una natura percorsa da fremente energia.

Annunciazione

Quei fiori e quelle erbe hanno la vitalità di piante carnivore. Qui, in questa opera precocissima, è già presente il Leonardo studioso dei fenomeni naturali, attento a percepire e a dare immagine al respiro di quella gran macchina vivente che è per lui il mondo. Mentre nel paesaggio sullo sfondo (una prospettiva di montagne, una città, un golfo di mare), un paesaggio che diresti fatto di aria e di luce, c’è già un anticipo di quelli che saranno i fondali della Vergine delle rocce del Louvre
Nell’Annunciazione degli Uffizi, in questa giovanissima ragazza che riceve l’annuncio inconcepibile e ineffabile, vive anche una profonda riflessione teologica. Gli edifici delineati in prospettiva alle spalle della Vergine, mostrano una serie di conci di pietra tagliati e dislocati in modo da presentare verso di noi i loro angoli. È un riferimento al Salmo 118: «La pietra scartata dal costruttore è diventata testata d’angolo». Il momento del concepimento angelico è anche l’inizio della storia della Salvezza, prefigura l’avvento di Cristo Redentore.
Leonardo da Vinci, 'Annunciazione' (Firenze, Uffizi)
Leonardo da Vinci, "Annunciazione" (Firenze, Uffizi)

Adorazione dei Magi

Ed ecco l’Adorazione dei Magi degli Uffizi, la più celebre “incompiuta” nella storia dell’arte italiana. Era una pala d’altare commissionata a Leonardo dai monaci agostiniani di San Donato a Scopeti, a sud di Firenze. Leonardo concepì e mise in figura l’intera composizione, distribuì il partito delle luci e delle ombre, disegnò fin nei dettagli gli episodi dello sfondo. La tavola aspettava soltanto l’ultima stesura pittorica che avrebbe sepolto quello che oggi vediamo. Ma nel 1482 Leonardo lasciò Firenze per stabilirsi a Milano, attirato dalle occasioni di lavoro e di successo che quella grande città e soprattutto la potente ricchissima corte degli Sforza potevano offrirgli. A Milano Leonardo avrebbe potuto coltivare, sviluppare e almeno in parte realizzare quelli che erano i suoi interessi prevalenti: l’architettura, l’ingegneria strutturale e idraulica, la meccanica, lo studio dei fenomeni naturali. Avvenne così che l’Adorazione dei Magi rimase incompiuta.
Chi entra nella Sala di Leonardo agli Uffizi avrà l’impressione di avere di fronte un dipinto percorso come da una scarica elettrica, tale è l’intensità espressiva, emozionale e spirituale che l’opera trasmette. Leonardo immagina l’Adorazione come un gorgo di uomini, un tumulto di emozioni e di passioni che si raccolgono e si placano ai piedi della Vergine che presenta il suo bambino. La Madonna è il pilastro centrale della composizione, è il fulcro intorno al quale la storia degli uomini si compone; una storia rappresentata da una serie di volti intensi, come prosciugati e illuminati dallo Spirito. Sulla sinistra la figura di un vecchio uomo, calvo e avvolto in un mantello, rappresenta probabilmente Isaia, colui che aveva profetizzato, con l’avvento del Messia di Israele, il tempo della pace distesa su tutta la terra. Resta, ed è l’idea formidabile che abita l’Adorazione degli Uffizi, l’immagine della Madonna che sta al centro del tumulto della storia, lo domina e lo placa.
Leonardo da Vinci, 'Adorazione dei Magi' (Firenze, Uffizi)
Leonardo da Vinci, "Adorazione dei Magi" (Firenze, Uffizi)

La Vergine delle Rocce

Ed ecco, al vertice della vita e della carriera di Leonardo, la sua Madonna sicuramente più celebre. È la Vergine delle rocce, conosciuta in due versioni custodite l’una al Louvre, l’altra alla National Gallery di Londra. Fermiamoci di fronte alla tavola del Louvre. Sappiamo che Leonardo la dipinse per una cappella della chiesa milanese di San Francesco Grande, distrutta fra il 1483 e il 1490.
Leonardo immagina che la sua sacra conversazione avvenga in un ambiente roccioso, in parte in ombra in parte svelato dalla luce. Oltre i varchi aperti nelle rocce c’è un paesaggio infinito che slontana e si moltiplica in azzurre montagne e in distese equoree. All’interno si vede la Madonna che, con una mano sulla sua spalla, stringe a sé il piccolo Gesù inginocchiato. A destra c’è san Giovannino in atto benedicente e dietro di lui un angelo che con il gesto della mano e con l’indice puntato indica il Bimbo che la Vergine accarezza, come a dire che è lui l’Agnus Dei, qui tollit peccata mundi.
Di fronte a questa Madonna affettuosa e malinconica come presaga del destino del figlio, dentro questa grotta ombrosa in cui tuttavia è possibile scrutare l’infinitamente vicino delle erbe e dei fiori fra le rocce e l’infinitamente lontano delle remote montagne e dei laghi, non si può non concordare con quanto scrisse Bernard Berenson nei Pittori fiorentini del Rinascimento (1896): «Leonardo è l’unico di cui possa dirsi, e in senso assolutamente letterale: nulla egli toccò che non tramutasse in bellezza eterna».
Leonardo da Vinci, 'Vergine delle Rocce' (Parigi, Louvre)
Leonardo da Vinci, "Vergine delle Rocce" (Parigi, Louvre)

Il “Cartone di sant'Anna”

Si data agli inizi del Cinquecento il monumentale disegno su cartone raffigurante la Vergine con il Bambino e Sant’Anna che si conserva alla National Gallery di Londra. Di committenza incognita e destinazione altrettanto misteriosa forse è da riconoscere nell’opera che, esposta a Firenze alla Santissima Annunziata, riscosse un tale successo che – la testimonianza è di Giorgio Vasari – «nella stanza durarono due giorni d’andare a vederla gli uomini e le donne, come si va alle feste solenni».
È qui all’opera il celebre “sfumato” leonardesco, la sua capacità cioè di dissolvere la forma plastica nel medium atmosferico. Il tema dominante in questa Sacra Famiglia al femminile, è quello della Redenzione che la Vergine rappresenta e della Chiesa universale, Madre e Maestra, simboleggiata da sant’Anna, mamma di Maria e nonna di Gesù. Un mondo di affetti e di tenerezza stringe la scena in un gomitolo di sorrisi. È singolare come un uomo che non ha avuto famiglia come Leonardo, appaia nella sua pittura così sensibile alla rappresentazione degli affetti domestici e al miracolo della vita che si trasmette attraverso il succedersi delle generazioni.
Leonardo da Vinci, 'Madonna con il Bambino, sant'Anna e san Giovannino' (Londra, National Gallery)
Leonardo da Vinci, "Madonna con il Bambino, sant'Anna e san Giovannino" (Londra, National Gallery)

Sant’Anna, la Vergine e il Bambino con l’agnello

È una riflessione che occupa una delle sue ultimissime opere. Siamo nell’ottobre del 1517. Leonardo è nel castello di Cloux ad Amboise, dove è ospite di re Francesco I di Francia. A questa data e in questo luogo si reca in visita allo studio di Leonardo il cardinale Luigi d’Aragona. Qui viene visto e descritto il dipinto con Sant’Anna, la Vergine e il Bambino con l’agnello oggi al Louvre.
Come nel disegno monumentale di Londra ciò che interessa il pittore è la rappresentazione del cerchio di affetti che lega fra loro i tre sacri personaggi. Gesù Bambino cerca di abbracciare l’agnello simbolo del suo destino. La Madonna si sforza di trattenerlo. In questo momento essa è soltanto una mamma che vuole sviare dal figlio il presagio crudele. La Madonna è a sua volta trattenuta da sant’Anna che, figura della Chiesa, vuole che la Redenzione compia il suo corso. Ritorna sullo sfondo il paesaggio caro a Leonardo: azzurre rocce scoscese, distanze incommensurabili, distese equoree.
Quest’opera segna il congedo di Leonardo dal suo universo poetico. A me piace pensare che le immagini delle Madonne da lui dipinte in cinquanta anni di attività, abbiano attraversato la sua mente quando Leonardo si spegneva il 2 maggio dell’anno 1519.
Leonardo da Vinci, 'Madonna con il Bambino e sant'Anna' (Parigi, Louvre)
Leonardo da Vinci, "Madonna con il Bambino e sant'Anna" (Parigi, Louvre)

Turismo. Dalla tassa di soggiorno 600 milioni di euro l'anno

Dalla tassa di soggiorno 600 milioni di euro l'anno
da Avvenire

"Sono 1.020 i comuni italiani che applicano l'imposta di soggiorno (997) o la tassa di sbarco (23), con un gettito complessivo che nel 2019 si avvia a doppiare la boa dei 600 milioni di euro". Lo ha detto il presidente di Federalberghi Bernabò Bocca, nel corso della relazione di apertura della 69esima assemblea generale di Federalberghi, a Capri, che proseguirà domani con la partecipazione del ministro del Turismo, Gian Marco Centinaio. Tali comuni, pur costituendo il 13% dei 7.915 municipi italiani, ospitano il 75% dei pernottamenti registrati ogni anno. "A quasi dieci anni dalla reintroduzione del tributo - afferma Bocca - dobbiamo purtroppo constatare di essere stati facili profeti. La tassa viene introdotta quasi sempre senza concertare la destinazione del gettito e senza rendere conto del suo effettivo utilizzo. Qualcuno racconta la storiella dell'imposta di scopo, destinata a finanziare azioni in favore del turismo. In realtà è una tassa sul turismo, il cui unico fine sembra essere quello di tappare i buchi dei bilanci comunali". "Negli ultimi tempi - denuncia Bocca - il quadro si è aggravato per effetto di un apparato sanzionatorio paradossale, che noi chiediamo di modificare, che tratta allo stesso modo chi si appropria indebitamente delle risorse e chi sbaglia i conti per pochi euro. Chi paga con qualche giorno di ritardo e chi non ha mai versato quanto riscosso". 
È Roma la città che ha incassato il maggior gettito derivante dall'imposta di soggiorno, con un incasso pari a 130 milioni, il 27,7% del totale. L'incasso delle prime quattro città (Roma, Milano, Venezia e Firenze) è superiore a 240 milioni, oltre il 58% del totale nazionale. Nella top ten al quinto posto figura Rimini, Napoli, Torino, Bologna, Riccione e Verona. Il Governo non ha mai adottato il regolamento quadro che avrebbe dovuto fissare i principi generali per l'imposta di soggiorno, evidenziano gli albergatori - e in assenza di una regola, i comuni si sono mossi in ordine sparso, generando un quadro confuso. Ad esempio, una famiglia di tre persone (padre, madre e figlio undicenne) che soggiorna in un albergo a tre stelle per due giorni a Roma paga 24 euro per l'imposta di soggiorno, a Venezia 17,40 euro, a Rimini 12 euro, a Catanzaro 7,80 euro e a Bibione 6,30 euro. La maggior parte dei comuni che applicano la tassa di soggiorno sono montani. Sono 315 su 997 e rappresentano il 31,6% del totale. Seguono le località marine con il 19,7% (196),quelle collinari con il 16,1% (161).
"Non è tollerabile il far west che si registra nel settore delle locazioni brevi. La legge ha stabilito che i portali devono riscuotere l'imposta di soggiorno dovuta dai turisti che prenotano e pagano attraverso le piattaforme, ma Airbnb assolve a tale obbligo solo in 18 comuni su 997". A sottolinearlo è il presidente di Federalberghi Bernabò Bocca. "Per di più, queste amministrazioni, allettate dalla prospettiva di nuovi introiti - incalza Bocca - si sono rese disponibili a sottoscrivere un accordo capestro, accettando un sistema di rendicontazione sostanzialmente forfettario, che non consente un controllo analitico e induce a domandarsi se non si configurino gli estremi di un danno erariale" conclude Bocca.

Turismo Culturale: il Video della Basilica della Ghiara di Reggio Emilia

Il video  punta a valorizzare, sia sotto il profilo culturale/religioso che turistico, il tempio reggiano della Basilica della Ghiara. Il video visibile su Youtube realizzato da Giuseppe Serrone per Turismo Culturale
https://www.youtube.com/watch?v=M404kWhg5H0




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Venezia. A Palazzo Grassi Luc Tuymans e la pelle dell'immagine

Luc Tuymans, "Turtle" (2017). Venezia, Palazzo Grassi

da Avvenire
Da alcuni anni le mostre della collezione Pinault a Venezia si configurano come una lauta entrée del ricchissima offerta che nella Biennale ha il centro. Palazzo Grassi, dopo la ridondanza della fabula di Damien Hirst nel 2017 e la pittura postideologica di Albert Oehlen l’anno scorso, ospita la prima personale italiana dell’artista belga Luc Tuymans, “La Pelle”.
La mostra, splendidamente allestita, è a cura di Caroline Bourgeois e dello stesso Tuymans, assai attivo anche come curatore, veste nella quale ha firmato recentemente Sanguine, alla Fondazione Prada a Milano, sul barocco storico e contemporaneo. Luc Tuymans muove sempre da un’immagine trovata, intesa come un’operazione di astrazione rispetto al reale, mentre la fisicità del dipinto mantiene salda la necessità dell’esperienza. Nel passaggio dalla riproduzione meccanica (trovata su un libro o sul web) al quadro, l’immagine è sottoposta a una serie di passaggi: viene rifotografata, oppure dipinta e quindi rifotografata, di solito con tecnologie a “bassa risoluzione” (come la Polaroid). A ogni passaggio si perdono informazioni mentre cresce il tasso di “rumore” e la leggibilità diminuisce. Con il riversamento, tecnico o tecnologico, l’immagine diventa altro, come un testo che venga tradotto di lingua in lingua. Nell’oggetto che arriva appeso alle pareti qualcosa resta per sempre lost in translation.
Ci sono però “due” Tuymans. Il primo, che corrisponde agli anni 80 e 90, è un artista estremamente interessante. Le sue immagini sono dure, dipinte con un bisturi. È una pittura secca, a tratti persino gessosa, concentrata, violenta. I tagli sono spesso brutali, come brutale è la forza con cui l’immagine si riversa su chi guarda. Gli occhi chiusi di Albert Speers in Secrets, il corpo fantoccio di Body (entrambi del 1990), l’insetto kafkiano di Superstition (1994), il coniglio fantasma di The Rabbit (1994) e soprattutto la cruda oggettività di Der diagnostische Blick, serie del 1992 in cui Tuymans prende spunto dalle illustrazioni di un volume medico (Diagnostica a prima vista). È una linea che resiste almeno fino a Orchid (1998) e ai primi anni Duemila, come nel notevole Bend Over (2001), pure desunto da un volume di medicina: sono immagini che escludono ogni neutralità e dalla violenza tanto più forte perché compressa in un sottotesto psicanalitico.
Non sembra essere un caso che le tele degli anni 80 e 90 siano quasi tutte di piccolo e medio formato, a volte piccolissimo: dimensioni che garantiscono la massima concentrazione in un rapporto paritario con chi guarda. Ma dalla metà degli anni 2000 Tuymans si gonfia pittoricamente – le immagini si sfaldano, i colori si dilavano – e dipinge formati sempre più grandi. E insieme si estetizza. Per inteso, Tuymans resta un grande pittore: il tritticoMurky Water (2015) è un capolavoro nel suo galleggiare tra fascino pittorico e immagine patologica. Ma qualcosa evapora.
Lo spartiacque è segnato dall’ingresso del digitale nella storia delle immagini: nella loro creazione, nella loro fruizione, nella loro disseminazione. Un’opera chiave nella presa di coscienza in Tuymans nello scarto irreversibile è il dittico Against the day, un altro dei vertici della mostra nella sua enigmatica inquietudine domestica. L’artista si accorge di un’analogia iconografica con Il guardiacaccia di Khnopff (1883) ma, osserva, «la luce era del tutto diversa, ed era chiaro che la mia veniva dall’era digitale (...) questo significa che ogni epoca ha una specifica qualità alla quale è possibile risalire proprio per via visiva».
I soggetti della seconda fase della sua pittura sono disparati: si va dai criminali all’iconografia dei totalitarismi, oggetti che rimandano alla storia del Novecento, particolari di opere d’arte, molto cinema, elementi quotidiani, programmi tv. Tuymans parte da dove era arrivato Gerhard Richter con il suo ciclo 18 Oktober 1977 (1988), dedicato alla cattura e alla morte dei membri della banda Baader- Meinhof: una serie che condensa simbolicamente i dipinti “grigi”, di cui ne costituiscono il commiato. È un lavoro epocale, in cui Richter si confronta con il problema antico della pittura di storia nell’epoca dell’informazione di massa. Pittura senza centro, senza ancoraggi: ogni punto a cui fissarsi cede nel momento in cui lo si agguanta.
Tuymans ne prosegue il tracciato ma la superficie su cui camminare è fragile, come aveva intuito il pittore tedesco. Lo sfasamento, che in Richter è inafferrabilità della pittura e impredicabilità del reale, in Tuymans non sfugge al rischio di diventare maniera. Se nelle opere della prima fase il rapporto tra linguaggio e contenuto è essenziale all’economia dell’immagine, nel Tuymans attuale il contenuto appare non di rado come una sovrastruttura: mentre prima bastava la percezione di un segnale forte per quanto oscuro, ora è richiesta una spiegazione a latere, un sostegno esterno. Il contenuto è un congegno mentale che serve a dare un valore etico, avvertito come necessario (esemplare è Schwarzenheide, l’iperdecorativo mosaico allestito nel cortile di palazzo Grassi, che riproduce un disegno realizzato in un campo di concentramento) a una pittura che è tutta proiettata al proprio interno. Il che di per sé non è un problema, perché è lì che brucia il cuore del fatto artistico: lo dimostra un lavoro come Candle (2017).
Il processo progressivo di scollamento tra immagine e pittura finisce così per rendere fragile il legame tra questa e il tema del potere (delle istituzioni, delle immagini...), che vorrebbe essere il cuore della riflessione. C’è forse un limite nell’opera di Tuymans, presente anche in Sanguine (nella mostra milanese era di carattere storico), di una visione che si fa più debole quanto più cresce in ambizione. Lo si nota nella scelta stessa di intitolare la mostra La Pelle, in relazione al romanzo di Curzio Malaparte. Per quanto la figura dello scrittore sia scelta come emblema dell’ambiguità, a Tuymans probabilmente sfuggono la reale complessità della figura (definito, banalmente, dall’artista «megalomane») quanto quella di un romanzo come La pelle che affonda la sua lingua nel racconto di un male non «banale» ma totale per quanto del tutto privo di una prospettiva metafisica: una esplorazione della natura più tragica e profonda dell’animale uomo che abbandonate le vesti stracce della morale si abbandona all’istinto di sopravvivenza.
Se dunque per Tuymans l’arte non illustra la realtà ma la problematizza, restituendola allo spettatore come una forma interrogativa, alla fine del percorso gira sotto la lingua una domanda amara: e se la patina diafana del secondo Tuymans nascondesse in realtà il tradimento di se stesso? Se nello squamarsi dei passaggi di stato anche l’autenticità del pittore fosse finita lost in translation?
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A Punta della Dogana prosegue la tradizione di mostre collettive che riorganizzano sotto particolari punti di vista le opere della collezione Pinault. Luogo e segni, a cura di Mouna Mekouar e Martin Bethenod, sceglie una cifra (letteralmente) poetica, scegliendo come guida i versi e i temi della poetessa libanese Etel Adnan (Beirut, 1925). E nel catalogo (Marsilio, come anche per Tuymans: entrambi volumi magnificamente curati) alle opere degli artisti sono accostate liriche di autori diversi.
Come nelle mostre precedenti il percorso è rarefatto e non di rado arduo ma quest’anno c’è una bella corrispondenza tra idea e allestimento, che valorizza la dimensione sorprendentemente intima di uno spazio come quello creato da Tadao Ando. Uno dei temi chiave della mostra – insieme all’amicizia e alla memoria– è infatti il rapporto con gli ambienti e quello tra questi e la laguna. Luogo e segni prende il titolo da un’opera di Carol Rama, un metaforico autoritratto. Senza l’incontro con lo spazio e la sua interpretazione l’artista perde la sua libertà. Un continuo gioco di rispecchiamento e trasformazione, che si adegua al mutare della luce e dell’ora. In questo senso è forse la mostra più “veneziana” tra quelle allestite a Punta della Dogana.
Venezia, Palazzo Grassi
Luc TuymansLa PelleFino al 15 dicembre

Venezia, Punta della DoganaLuogo e segniFino al 15 dicembre

Turismo. Così si formano gli animatori

Così si formano gli animatori

da Avvenire
Club Esse, catena alberghiera italiana con una quindicina tra villaggi e resort in Sardegna, Sicilia, Calabria e Abruzzo, da sette anni raduna i propri animatori e i vertici del personale (capistruttura, direttori, chef, capiservizio in tutte le aree clou, dalla cucina al ricevimento, al servizio in sala) per vivere giornate di aggiornamento professionale e di condivisione. Quest’anno l’appuntamento è da domenica 28 aprile a mercoledì 1 maggio al Club Esse Mediterraneo di Montesilvano, sul litorale a nord di Pescara. La quattro-giorni di formazione professionale e team building si chiama App ed è pensata in particolare per gli animatori, sia per dare una prima infarinatura – fatta di istruzioni base e linee guida – a chi si avvicina al mestiere, sia per aggiornare le competenze di chi invece ha già anni di esperienza ma vuole migliorare la propria professionalità e rinverdire l’entusiasmo.

«Uno dei punti di forza di Club Esse sta proprio nella dedizione e nell’entusiasmo dei suoi professionisti, persone che vivono con passione il proprio lavoro, sempre capaci di accogliere col sorriso - conferma infattiAntonia Bucciero, product manager del Gruppo -. Un’atmosfera che gli ospiti nazionali e internazionali avvertono e apprezzano. Per questo ci impegniamo anno dopo anno a fare crescere la motivazione, la coesione e anche la fidelizzazione di chi lavora con noi». Ad App parteciperanno circa 200 persone: oltre alle figure apicali dei vari servizi nelle 14 strutture, tutti gli animatori che allieteranno la stagione 2019, sia quelli che hanno appena superato il lungo tour di selezione, sia quelli che da anni fanno parte della famiglia Club Esse. Questo permetterà loro di conoscersi, amalgamarsi anche attraverso giochi ad hoc e spettacoli da mettere in scena l’ultima sera, trasferire conoscenze ed esperienze, condividere idee e progetti. Insomma, fare squadra. Inoltre, verranno fornite tutte le informazioni legate ai prodotti, incluse le novità tese ad arricchire l’offerta della prossima estate. Nelle ultime edizioni si sono susseguiti coach di tutto rispetto, provenienti dal mondo dello spettacolo e da quello della comunicazione, come Giampiero Ingrassia, Mattia Inverni e Mauro Simone, stelle del musical italiano, o come Altea Russo e Giorgio Napolitano, performer, cantanti e ballerini professionisti.