L’esposizione indaga l’abito che modella, nasconde, dissimula e segna il corpo; segno di potere, di riconoscimento, di protesta
Se l’abito fa l’artista (e viceversa)
GIANCARLO PAPI - avvenire.it
Forlì
È di vecchia data il flirt fra arte e moda. Poi, via via nel tempo, il rapporto si è consolidato trasformandosi in un matrimonio di fatto (e di interesse, secondo Achille Bonito Oliva). A sancire l’unione ci ha pensato nel 1996 Germano Celant con il megaprogetto denominato “Il tempo e la moda” organizzato a Firenze con l’obiettivo di assegnare alla moda quel titolo nobiliare che gli avrebbe consentito l’ingresso ufficiale nel consesso delle arti. E ciò, aveva sentenziato Celant, in quanto «il colpo di forbice è simile al colpo di pennello, entrambi isolano con decisione assoluta una forma o una figurazione, marcano una superficie che genera una realtà». Che, più o meno, è come la pensava Oscar Wilde secondo cui «o si è un’opera d’arte o la si indossa». Passando attraverso i principali movimenti artistici del Novecento, la mostra era una carrellata sugli autori più in vista dell’espressività contemporanea che hanno interpretato l’abito come una seconda pelle, superficie cromatica e volumetrica sulla quale tessere l’opera. Non solo. Una delle sezioni del progetto, curata direttamente da Celant, si spingeva oltre, chiamando in causa moda e arte per una collaborazione sperimentale che vedeva coinvolte un gruppo di coppie stilista-artista (Gianni Versace-Roy Lichtenstein, Miuccia Prada-Damien Hirst, Karl Lagerfeld-Tony Cragg, per esempio), ciascuna autrice di un’opera a quattro mani.
L’evento fiorentino, tra appuntamenti mondani e qualche innocuo fuori programma a tempo determinato, aveva anche il non secondario compito di scuotere una città ingessata nella propria storia, puntando sul rapporto tra arte e moda, per riaffermare la propria identità culturale e ribadire nello stesso tempo il diritto di partecipare ai banchetti del presente.
Questa esposizione dedicata a “L’arte della moda. L’età dei sogni e delle rivoluzioni. 17891968” allestita a Forlì ai Musei San Domenico (fino al 2 luglio, catalogo Dario Cimorelli Editore), che interviene sullo stesso tema affrontato da Celant, non ha ambizioni del genere. Intendiamoci, non che gli organizzatori forlivesi non siano stati attenti e sensibili all’aspetto dell’audience, anzi («somiglia a un vero e proprio kolossal», hanno detto della mostra), ma l’argomento è stato trattato con enfatica problematicità senza calcare la mano sugli effetti speciali che non siano quelli legati all’imponente numero e alla qualità delle opere esposte provenienti da collezioni pubbliche e private, dai musei più prestigiosi del mondo e dalle più importanti case di moda.
La mostra, diretta da Gianfranco Brunelli e curata da Cristina Acidini, Enrico Colle, Fabiana Giacomotti e Fernando Mazzocca, attraverso trecento opere tra quadri, sculture, accessori, abiti d’epoca e contemporanei indaga, lungo un percorso cronologico e tematico (l’apertura è affidata all’allegoria dell’arte della tessitura del grande dipinto di Tintoretto Atena e Aracne), gli stili, i materiali, il sistema di comunicazione e di rappresentazione della moda dipinta, ritratta, scolpita, realizzata da grandi artisti e stilisti (tra i primi si incrociano, tra gli altri, Matisse, de Chirico, Picasso, Hirst, Fontana, Mondrian; tra i secondi si va da Armani a Ferragamo, da Dior a Prada, da Balenciaga a Gucci).
Ecco allora l’abito che modella, nasconde, dissimula e segna il corpo. L’abito come segno di potere, di ricchezza, di riconoscimento, di protesta. Come cifra distintiva di uno stato sociale o identificativa di una generazione. L’arte come opera e comportamento, come racconto e spirito del tempo. È il riflesso di un’epoca, infatti, quello evocato nella seconda metà del XVIII secolo dagli abiti riportati nei ritratti dipinti da George Romney e Joshua Reynolds che documentano il gusto e la predilezione per forme semplici e naturali espresse da una società aggiornata ed evoluta come quella inglese. I tessuti, le fogge, le pieghe diventano motivi dominanti di una pittura di luce, basata più sulle atmosfere e sul colore, che sul disegno, aprendo gli orizzonti della modernità. Così che la sobria praticità della moda inglese si diffonde in tutta Europa trasformandosi, anche per la nascita dei negozi, in oggetto di consumo sempre più diffuso.
La testimonianza di tali trasformazioni tra la fine dell’Ancien Régime, la Rivoluzione francese e gli anni dell’Impero, la ritroviamo nella produzione ritrattistica di Antoine-Jean Gros e Francois-Xavier Fabre che restituiscono il sapore di una società trasformata dalle ambizioni dei nuovi protagonisti che succedono a quell’aristocrazia che la Rivoluzione aveva fatto uscire di scena. E se poi gli anni del Romanticismo vedono come protagonisti della rappresentazione pittorica della moda, da una parte Francesco Hayez fino alla metà dell’Ottocento e in seguito, sul versante francese, James Tissot, che documentano l’evoluzione della figura femminile in un abbigliamento dipinto con straordinaria materialità e nitore, il Novecento è caratterizzato dalle Avanguardie, a partire dal 1905 con l’Espressionismo.
Agli artisti di quel movimento si ispirano stilisti come Paul Poiret che con le sue figure allungate, estenuate dai colori che appaiono abbacinanti e, in seguito, è quasi in parallelo con la nascita del Cubismo che cresce nella moda l’esigenza dell’impiego di forme geometriche, linee spezzate e lamellari. Nel clima di Picasso nasce Coco Chanel che riscrive da cima a fondo l’immagine della figura femminile con l’accuratezza matematica delle forme euclidee ed è a questa tendenza a geometrizzare l’abito che viene fatta risalire risalire ufficiosamente la nascita del Minimalismo in moda.
Negli anni Venti e Trenta è ancora più stringente il rapporto tra arte e moda. Dapprima ne è artefice la stilista Elsa Schiaparelli che stabilisce un vero e proprio sodalizio con alcuni maestri del Surrealismo ricavandone molti spunti di creatività. Con il Futurismo la moda viene ritenuta addirittura indispensabile perché tramite le sue fogge e i suoi colori può “propagare” un’idea così che Giacomo Balla parla di Vestito Antineutrale in una pubblicazione in cui detta alcune regole sull’abbigliamento futurista.
E mentre negli anni Quaranta e Cinquanta sono l’Informale e l’Espressionismo astratto a influenzare la moda “estrema” di Balenciaga e del primo Dior con la sua linea “a corolla”, gli anni successivi segnano prepotentemente l’entrata in scena della Pop art, che cerca l’incontro dell’arte con il contesto di massa, e del Made in Italy che lancia il Bel paese come la patria di riferimento del gusto e dello stile.
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