Lo stendardo di Tiziano ritrova i suoi colori La tavolozza 'veneziana' torna al Palazzo Ducale di Urbino

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URBINO - Ritrova i suoi colori originali e torna al Palazzo Ducale di Urbino lo Stendardo dipinto da Tiziano Vecellio tra il 1542 e il 1544, raffigurante l'Ultima cena e la Resurrezione. Dopo un restauro durato sei mesi condotto dal laboratorio dei dipinti su tela, guidato da Federica Zalabra, dell'Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro (Iscr) di Roma, l'opera rientra alla Galleria nazionale delle Marche. Il 'ripristino' ne ha fatto riemergere i colori e la cornice originali. Mentre le indagini scientifiche multispettrali, eseguite da Fabio Aramini, hanno rivelato 'pentimenti' e modifiche in corso d'opera, soprattutto nell'impostazione prospettica delle figure, con preferenza per una certa libertà costruttiva rispetto ad un rigore geometrico.
I dettagli sono stati illustrati nel corso di una conferenza a Palazzo Ducale: "Il restauro dello Stendardo di Tiziano. La verità del colore". "Era rimasto in questo Palazzo per 150 anni - ha ricordato il direttore della Galleria Nazionale delle Marche, Peter Aufreiter - Inizialmente era posizionato ai lati della pala d'altare della Chiesa della Confraternita del Corpus Domini e in realtà fu usato solo una volta come Stendardo processionale nel 1545, per poi essere subito diviso in due tele, forse perché uno stendardo costava meno". "Già restaurata diverse volte - ha aggiunto - solo oggi con moderne tecniche ha riacquistato l'originario splendore. L'abbiamo posizionata nella camera da letto del Duca e presto faremo una giornata di studi".
"Sono stati messi in luce importanti aspetti sulla tecnica pittorica di Tiziano - ha spiegato Carla Zaccheo, coordinatrice del restauro - Un olio su tela di lino a trama molto fitta, con pennellate molto fluide e una tavolozza dell'artista caratterizzata dalla vivacità dei toni e dalle sfumature cangianti, come si usava all'epoca a Venezia. Anzi - ha precisato - i due dipinti rivelano una stesura diversa più fluida nella Resurrezione, con incisioni per delimitare l'architettura. Sul bordo abbiamo ritrovato anche la cornice originale: un fondo rosso con disegni bianchi, mentre oggi è dorata con disegni colorati". La restauratrice ha ripercorso le varie fasi del restauro, dalle indagini preliminari alla ripulitura, che hanno riportato alla luce "l'intensità dei pigmenti usati da Tiziano con un cielo trasparente in tutte le sue sfumature e un modo diverso di vedere le varie figure".


turismo, nuove tecnologie accompagnino attenzione a persona

Aeroporto di Fiumicino
da vaticannews.va

Messaggio del cardinale Peter Turkson, prefetto del Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale, per la Giornata mondiale del turismo del prossimo 27 settembre. Il tema dell’evento è: “Il turismo e la trasformazione digitale”
I prodotti e i servizi turistici “si inscrivano nell’alveo dello sviluppo sostenibile e responsabile, in nome del quale va orientata la crescita del settore”. Questo l’auspicio del cardinale Peter Turkson, prefetto del Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale, nel messaggio per la Giornata mondiale del turismo del prossimo 27 settembre. Prendendo spunto dal tema dell’evento - “Il turismo e la trasformazione digitale” - il porporato ricorda come l’innovazione digitale sia finalizzata “a promuovere l’inclusività, ad accrescere il coinvolgimento delle persone e delle comunità locali e a conseguire una gestione intelligente ed equibrata delle risorse”.

Lavorare per una sostenibilità turistica

Un comparto, quello turistico internazionale, che l’anno scorso ha registrato un incremento globale del 7%, un dato peraltro in crescita costante. L’esigenza della “sostenibilità turistica”, evidenzia il prefetto, non va sottovalutata “dal momento che in alcune destinazioni turistiche rinomate e più frequentate si sperimentano gli effetti negativi di un fenomeno che si oppone ad un sano ed equo turismo, il cosiddetto ‘over-tourism’”.

Educare alla corresponsabilità

Le ultime tendenze mostrano inoltre che circa il 50% dei viaggiatori digitali trae spunto e ispirazione dall’osservazione di immagini e commenti online, e il 70% consulta - prima di decidere - video e opinioni di chi ha già viaggiato. L’uso delle strumentazioni digitali si pone allora come una “grande opportunità” che permette di incrementare servizi più soddisfacenti alle nuove richieste, ma anche - prosegue citando l’enciclica “Laudato si’” - di educare alla “corresponsabilità della ‘casa comune’ nella quale viviamo, generando forme di innovazione per il recupero funzionale degli scarti, il riciclo e il riutilizzo creativo che aiutano a proteggere l’ambiente”.

L’utilizzo dei dati personali

Da evitare, però, un “uso scorretto e annientante” della dignità umana, che produce “conseguenze deleterie”: in particolare, aggiunge, “ciò attiene alla produzione e all’utilizzo dei dati, soprattutto quelli personali, che si generano all’interno del mondo digitale, e al ruolo preponderante degli algoritmi che elaborano i dati stessi e producono, a loro volta, ulteriori dati ed informazioni, a diversi livelli, disponibili anche per chi intenda servirsene meramente ad uso commerciale, propagandistico o addirittura con finalità e strategie manipolatorie”.
Gli algoritmi, più che “semplici numeri” o “sequenze neutre di operazioni”, sono “elaborazioni di intenti che perseguono finalità precise” e possono essere utilizzati per condizionare scelte e decisioni. Va rispettata e salvaguardata quindi “la libertà di scelta delle singole persone”, puntando comunque ad un accesso per tutti alle strumentazioni digitali. La finalità ultima non è dunque quella di implementare il turismo con le nuove tecnologie digitali, ma che “il progressivo uso della tecnologia” vada accompagnato da una “crescente consapevolezza della persona e della comunità all’ultilizzo rispettoso dell’ambiente per uno sviluppo sostenibile”.

Non separare i comportamenti on-line da quelli off-line

Per i giovani, che costituiscono “la fetta più ampia dell’utilizzo del digitale”, il prefetto del Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale richiama l’Instrumentum Laboris in preparazione alla XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sui giovani: è necessario - conclude - che siano protagonisti della loro “vita digitale” senza separare “i comportamenti on-line da quelli off-line”, né lasciandosi ingannare dal mondo virtuale che “distorce la percezione della realtà e la perdita di identità collegata ad una rappresentazione errata della persona”.
L’esortazione è allora ad una connessione “accompagnata dall’incontro vero”, come messo in luce da Papa Francesco.

Venezia chiede più rispetto ma sarà sempre città aperta

Turisti a Venezia (Ansa)

da Avvenire
Mentre rigira la bic tra le dita, la scappuccia, la picchietta – è come se tormentasse il turista maleducato – Andrea Molesini ricorda il protagonista del suo romanzo, Presagio, se non fosse proprio per quella biro, che dichiara morto e sepolto il tempo delle penne d’ebanite e dei Vacheron, della città «metà fiaba e metà trappola» ( Thomas Mann), ancora oggi, peraltro, «incompatibile con la modernità» (Massimo Cacciari). Nel romanzo, il nonno di Andrea, intrattenendo l’annoiata marchesa von Hayek nel lusso del Grand Hotel Excelsior, spiega che il segreto della noia consiste nell’«aver in tasca i denari per pagarsela». Una condizione rara tra i turisti che oggi sciamano da piazzale Roma e Santa Lucia nelle calli e nei campielli, sfidando questa «strana città traditrice», dove, scriveva Hemingway, «andare a piedi da un punto a un altro punto qualsiasi è più divertente che fare le parole crociate».
Stando alle statistiche, i visitatori dei musei sono in aumento, eppure per molti turisti Venezia non è Palazzo Grassi e non sarà mai Torcello. Gli arrivi in alberghi e affittacamere (4,6 milioni annui) sono solo un sesto del totale, anche a prender per buone le stime diffuse da Ca’ Foscari e non confermate dal Comune. Unico dato certo: la permanenza alberghiera è ferma a 2,3 giorni da decenni, come lamenta l’Associazione Veneziana Albergatori. Il resto è uno tsunami di sandali, voci e sudore. Italiani ma soprattutto stranieri che arrivano e ripartono in giornata, inarrestabili e inevitabili come l’acqua alta in piazza San Marco, che non sparirà neppure quando sarà terminato il Mose.
day tripper giungono all’alba, in treno o in autobus, coi loro zaini che sembrano cambuse, e subito si immergono in un cruciverba che non ammette soste, se non qualche bivacco nei sottoporteghi; quando il Canal Grande si screzia di rosso, che sarebbe d’obbligo un cicchetto nell’ennesima taverna di Casanova, loro sono già sulla via del ritorno. Molesini non li ama. I veneziani non li amano. «Noi siamo orgogliosi della nostra lentezza – ci spiega lo scrittore – perché tutto qui è stato fatto a mano; ogni pietra, ogni architrave; qui tutto è a misura d’uomo, della sua fisicità». Il mondo si divide tra Venezia e la terraferma perché l’acqua è il confine di tutto. «Insegna pazienza e prudenza, virtù dimenticate. Venezia invece ha una memoria e ancora si vergogna di aver consegnato Giordano Bruno alla Chiesa. Non tanto per un sentimento ghibellino, quanto perché il Papa aveva colto il nostro punto debole: siamo un popolo di mercanti e con i mercanti si viene sempre a patti». Debolezza che Guccini canzona – «la dolce ossessione degli ultimi suoi giorni tristi, Venezia la vende ai turisti» – e sulla quale Salvatore Settis ha costruito il memorabile Se Venezia muore, che mette alla berlina il business della Serenissima.
La colpa, si usa dire, è dei cinesi, che hanno ucciso l’artigianato locale smerciando maschere e vasi Murano style a un quinto del valore. O delle navi da crociera, che sfruttano le magniloquenti scenografie veneziane per vendere emozioni. In realtà è la motivazione profonda del turismo mordi e fuggi che spinge la città alla deriva: «Macché goti, bizantini e Lega di Cambrai; ma quale barocco, rinascimento o rococò! Sono pochissimi i turisti che vengono qui per ammirare il nostro passato – conferma Molesini –. Tutti gli altri cercano suggestioni low cost'. Secondo l’Università Ca’ Foscari, questo tipo di turismo assorbe la maggioranza dei 77mila che ogni giorno calpestano le antiche palafitte, piantate per sfuggire ad Attila. Fanno ventimila più dei residenti e della capacità di carico del centro. Ogni anno, 28 milioni di persone si danno appuntamento in una città che ne potrebbe accogliere soltanto 19. I day tripper sono decuplicati in trent’anni, da 5.800 a 57.500 al giorno. Raddoppieranno entro il 2030, grazie al potenziamento delle tratte di Italo e Trenitalia. A dispetto delle polemiche sulle grandi navi, infatti, il turismo mordi e fuggi viaggia su treni scontati e charter bus, che aggravano il disallineamento tra domanda, offerta e capacità di carico. Oggi si installano varchi e telecamere, ma in passato si rendeva tutto più accessibile: meno ristoranti e più take away, meno artigianato e più paccottiglia. Con il risultato che, come ha scritto Settis, oggi «Venezia rischia di restare senza popolo», giacché sfondare la capacità di carico di una piccola isola (il centro si estende su 798 ettari rispetto ai 15.700 del Comune) porta inevitabilmente a sottrarre spazio e servizi ai residenti, che in mezzo secolo si sono dimezzati. «Quand’ero ragazzo c’erano più di venti cinema: oggi due. E questa è la città del festival...» commenta amaro Molesini.
Contro la turistificazione dei centri storici è sorto un movimento europeo (la rete Set) ma il sindaco Luigi Brugnaro ha una strategia diversa. Con #EnjoyRespectVenezia punta a riqualificare il turismo e qualche risultato l’ha ottenuto. La città, ammette Molesini, è più pulita «mentre prima i sacchetti erano abbandonati sull’uscio di casa, alla mercé dei gabbiani e dei ratti». La Giunta è riuscita a risolvere il problema delle code ai vaporetti, suddividendo turisti e residenti. Con i varchi mobili disincentiva a invadere la città nei giorni da bollino rosso, deviando verso zone meno affollate i day tripper e lasciando passare residenti, lavoratori e ospiti delle strutture ricettive. Non basterà però il pragmatismo del Sindaco a risolvere il problema del moto ondoso. «Questa è una città di cose rovesce – ci avvisa Molesini, sfoderando il tipico sarcasmo veneziano – dove la fisica fa l’inchino alsior paròn e la spinta di Archimede vale per una barchetta ma non per un transatlantico». La polemica sulle navi da crociera che manovrano nel bacino di San Marco è di lunga data. Nel 2000 erano 200, nel 2016 già 529. Ognuna poteva entrare dalla bocca di porto del Lido, attraversava il Bacino di San Marco e lungo il canale della Giudecca approdava alla stazione Marittima per poi compiere il percorso inverso. Contro quest’andirivieni è nato un comitato popolare e solo a fine 2017 si è raggiunto un accordo che prevede di creare un hub a Marghera, dove far attraccare le grandi navi (200mila tonnellate di stazza lorda), consentendo a quelle di dimensioni più ridotte (55mila) di attraversare il canale della Giudecca e alle intermedie il canale Vittorio Emanuele, opportunamente dragato.
Gli armatori – che controllano il 40% del terminal alla Marittima (160 milioni di investimenti) – non sono entusiasti e dal 2015 hanno iniziato ad autolimitare il traffico, sperando che tutto resti com’è. Dal primo luglio sono in vigore i nuovi parametri della Capitaneria di porto che limiteranno il traffico dei giganti del mare del 20% entro il 2020. Alessandro Santi, presidente di Assoagentiveneto (Federagenti) sta preparando uno studio secondo cui, nel 2017, il traffico crocieristico ha portato in laguna 1.427.000 passeggeri, il 5% dei 28 milioni censiti da Ca’ Foscari, e non tutti hanno visitato la città, visto che una parte ha utilizzato il porto di Venezia per imbarcarsi o sbarcare. I visitatori sono stati solo 400mila: in media 1.000 sui 77mila visitatori al giorno stimati da Ca’ Foscari. Lo studio di Federagenti confermerà anche che le grandi navi sono sicure e che hanno un impatto trascurabile sul moto ondoso e sulle fondamenta della città. Archimede se ne faccia una ragione.
È chiaro che non esiste ancora una ricetta condivisa per trasformare la sovrabbondanza di turismo low cost in permanenze alberghiere, alleggerendo e valorizzando il flusso turistico, così com’è chiaro che su un solo punto sono tutti d’accordo: «Venezia deve restare una città aperta ai turisti», come ripete Brugnaro. Già, perché, disagi o no, se quelli sparissero, la città lagunare morirebbe veramente. È successo e lo rievoca Presagio, descrivendo la notte in cui i turisti si trasformarono in «profughi che scappavano», il Grand Hotel si fece spettrale, si svuotarono le celle frigorifere, le cucine e le lavanderie degli alberghi, le camere e gli alloggi del personale di servizio. Era il 28 luglio del 1914. In Europa iniziava la prima guerra mondiale. E per i veneziani la fame.

San Gimignano: cultura, vino e turisti mordi e fuggi

Una veduta di San Gimignano

Si svela al culmine dell’arrampicata. Là dove l’erta vigna di Cellole regala i suoi grappoli più pesanti, fra i tralci di Vernaccia s’intravede la Manhattan della Valdelsa. La chiamano così per via delle tredici torri che ne disegnano lo skyline. Un patrimonio dell’umanità talmente sfruttato dall’industria turistica che l’Unesco ha chiesto di introdurre il numero chiuso. Un borgo talmente tuscan style che una multinazionale ha deciso di costruirne una copia esatta in Cina, dentro una megalopoli da 33 milioni di abitanti. Letizia ti porta fin quassù per dimostrare che a San Gimignano non si campa solo di turismo: «Ci siamo anche noi, con il nostro olio e soprattutto con il nostro vino» rivendica la presidente del Consorzio che tutela l’unico grande bianco in questa terra di grandi rossi.
Il Chianti è oltre la collina. Dal lato opposto, verso l’Aretino, si trovano i caveau del Brunello. Letizia Cesani avverte però che “la Vernaccia è un vitigno autoctono e non un semplice ”percento“ di Sangiovese. Storicamente è la prima Doc italiana e affonda le radici nella preistoria”. Non bluffa mica. La conformazione calcarea dei suoli prediletti da questa varietà d’uva dipende dai fossili dispersi nel terreno, un letto di conchiglie depositate milioni di anni fa, dal ritirarsi del Mediterraneo. Più vicino, ma già nel Duecento, re, papi e mercanti bramavano questo bianco dal sapore di mare e di mandorla, che cresce su colline di tufo, tosche e prima ancora etrusche, scoperte verso la fine degli anni Sessanta dai turisti inglesi e americani, ormai sazi di Firenze e in cerca di altre madonne e crocifissi usciti dalla sgorbia dei maestri rinascimentali. Cinquant’anni dopo, eccoci in un borgo medievale talmente perfetto da sembrare una quinta teatrale e dove invece ogni muro è autentico e tutti sono al servizio dell’industria turistica.
A San Gimignano si entra da porta San Giovanni. Non è l’unico accesso, ma è più vicino ai parcheggi, una delle entrate più cospicue del Comune. Via san Giovanni è come via dei Calzaiuoli a Firenze. Anche qui si è persa l’anima artigiana del centro storico. Una bottegaia esibisce orgogliosa burattini di Pinocchio “made in Italy” e sottolinea che non sono cinesi, perché quelli “costano la metà ma la differenza la si nota”. In realtà, il trionfo dellow cost non è regolato solo dalle infallibili leggi della concorrenza: dipende dal livello culturale del turista, che è quel che è. Va a ruba, ad esempio, la pasta multicolori, quella che trovi su ogni bancarella, da Roma a Como, da Venezia a Gaeta: pipe aromatizzate agli spinaci, rigatoni color di zucca e fusilli al nero di seppia... In un angolo, a due euro al pacco sono in vendita i pici, pasta tipica del Senese, che forse per il nome poco commendevole vengono scelti dai pochissimi che s’intendono di Aglione – rigorosamente della Valdichiana – e Cinta senese, indispensabile per il ragù.
Nella città delle cento torri – erano 74 e ne sono rimaste 13 – il turismo è la principale fonte di reddito. Sarebbe l’unica se non fosse per la Vernaccia di Letizia e degli altri vitivinicoltori che, coltivando 730 ettari di colline, producono ogni anno poco più di cinque milioni di bottiglie, metà delle quali destinate all’export, soprattutto negli Usa. È grazie alla campagna che la circonda – vino, olio e zafferano generano un giro d’affari di 40 milioni di euro –, che San Gimignano ha ancora un popolo e un’identità. Con tante incognite, certo. Adottare l’assetto agronomico a maglia fitta, gestendo seminativi e arboricoltura in funzione dell’ecosistema, permette di offrire allo sguardo incantato del visitatore la tipica cartolina toscana – che alterna campi di grano, vigne e boschi in piccoli appezzamenti punteggiati di casolari – ma ha dei costi. In questa campagna che un tempo era soggiogata dalle famiglie turrite di San Gimignano si è fatta una scelta che si paga: conservare le produzioni locali e coltivarle con il metodo biologico, rinunciando alla chimica in campo e anche a una parte del raccolto.
Per contro, la turistificazione del centro storico ha portato ad espellere gli abitanti – ne sono rimasti 700 sui 7700 residenti nel Comune, in pratica San Gimignano abita tutta fuori porta – e a trasformare questo gioiellino dell’urbanistica medievale in un outlet dell’arte. Evoluzione che nessuno, in città, si sente di condannare, perché, come raccontano, “prima del turismo qui si faceva la fame”. Il boom turistico è stato un volano per tutti ed oggi San Gimignano offre 5.240 posti letto, in pratica uno ogni abitante. Anche qui, però, la maggioranza dei turisti è come la marea: arriva al mattino e prima del tramonto se ne va. I visitatori che ogni anno accedono a San Gimignano sono 3 milioni mentre gli arrivi negli alberghi si fermano poco sopra quota 180mila (488mila permanenze).
La riqualificazione del turismo è il primo obiettivo del Comune che tenta di instillare qualche goccia di cultura nel cranio dei “lanzichenecchi” del terzo Millennio, quelli che ogni giorno espugnano il Palazzo Comunale, scorrazzano nella sala di Dante, senza aver la minima idea dell’ambasciata che vi condusse il Sommo Poeta, transitano indifferenti di fronte alla Maestà di Lippo Menni senza collegarla minimamente a quella senese di Simone Martini, sciamano nella Pinacoteca – tanti saluti a Benozzo Gozzoli e al Pinturicchio – per infilarsi nella torre grossa, con il solo desiderio di fotografare la città dall’alto. Il day trip si conclude nella Collegiata, dove, sotto un dipinto del Ghirlandaio, giace Santa Fina, cui i sangimignanesi sono devotissimi (ma i lanzichenecchi non lo sanno): per il 90% degli escursionisti la visita alla città toscana termina qui, malgrado gli sforzi del Comune di valorizzare il convento di Sant’Agostino e quello di San Domenico, attraverso mostre e concerti. Registrano invece il tutto esaurito i musei privati della tortura e della pena di morte, che con la storia della città non c’entrano assolutamente nulla, ma entrano – chissà perché – nei pacchetti dei tour operator.
«Il nostro tentativo è destagionalizzare il flusso turistico arricchendo il cartellone delle manifestazioni culturali anche nella bassa stagione e costruire delle reti con le frazioni e i comuni vicini – spiega l’assessore alla cultura Carolina Taddei –; in particolare con Volterra e Poggibonsi, che condividono con noi la cultura della società rurale toscana, perché per convincere il turista a prolungare la sua permanenza in questo territorio dobbiamo fargli scoprire le immense ricchezze naturali della campagna».
Quest’anno il programma delle manifestazioni per la “bella stagione” termina a metà ottobre, con un rinnovato investimento nella lirica, che ha vissuto la sua stagione aurea in piazza Duomo fino agli anni Novanta. Un cartellone ad hoc sarà proposto per i mesi invernali. Non è tutto. C’è il rinnovato interesse per la via Francigena e per la via del Sale che permettono di fare rete con Casole d’Elsa, Colle di Val d’Elsa, Poggibonsi, Monteriggioni e Radicondoli. E c’è soprattutto la scommessa dell’Unesco, che ha scelto San Gimignano per farne un modello di turismo sostenibile: esiste già un portale ( visitworldheritage.com ) dove “le dolci colline ricoperte di filari di viti, tetti in terracotta e torri fortificate” sono proposte ai globe-trotter come una meta da non perdere. «Il sito è in inglese – rivela la Taddei – e sarà tradotto presto in cinese, ma non in italiano, e questa per noi è un’indicazione chiara: si lavora sul turismo internazionale, che è stata la nostra prima vocazione e rappresenta il nostro futuro, per crescere in qualità». E in pernottamenti.
da Avvenire