Si svela al culmine dell’arrampicata. Là dove l’erta vigna di Cellole regala i suoi grappoli più pesanti, fra i tralci di Vernaccia s’intravede la Manhattan della Valdelsa. La chiamano così per via delle tredici torri che ne disegnano lo skyline. Un patrimonio dell’umanità talmente sfruttato dall’industria turistica che l’Unesco ha chiesto di introdurre il numero chiuso. Un borgo talmente tuscan style che una multinazionale ha deciso di costruirne una copia esatta in Cina, dentro una megalopoli da 33 milioni di abitanti. Letizia ti porta fin quassù per dimostrare che a San Gimignano non si campa solo di turismo: «Ci siamo anche noi, con il nostro olio e soprattutto con il nostro vino» rivendica la presidente del Consorzio che tutela l’unico grande bianco in questa terra di grandi rossi.
Il Chianti è oltre la collina. Dal lato opposto, verso l’Aretino, si trovano i caveau del Brunello. Letizia Cesani avverte però che “la Vernaccia è un vitigno autoctono e non un semplice ”percento“ di Sangiovese. Storicamente è la prima Doc italiana e affonda le radici nella preistoria”. Non bluffa mica. La conformazione calcarea dei suoli prediletti da questa varietà d’uva dipende dai fossili dispersi nel terreno, un letto di conchiglie depositate milioni di anni fa, dal ritirarsi del Mediterraneo. Più vicino, ma già nel Duecento, re, papi e mercanti bramavano questo bianco dal sapore di mare e di mandorla, che cresce su colline di tufo, tosche e prima ancora etrusche, scoperte verso la fine degli anni Sessanta dai turisti inglesi e americani, ormai sazi di Firenze e in cerca di altre madonne e crocifissi usciti dalla sgorbia dei maestri rinascimentali. Cinquant’anni dopo, eccoci in un borgo medievale talmente perfetto da sembrare una quinta teatrale e dove invece ogni muro è autentico e tutti sono al servizio dell’industria turistica.
A San Gimignano si entra da porta San Giovanni. Non è l’unico accesso, ma è più vicino ai parcheggi, una delle entrate più cospicue del Comune. Via san Giovanni è come via dei Calzaiuoli a Firenze. Anche qui si è persa l’anima artigiana del centro storico. Una bottegaia esibisce orgogliosa burattini di Pinocchio “made in Italy” e sottolinea che non sono cinesi, perché quelli “costano la metà ma la differenza la si nota”. In realtà, il trionfo dellow cost non è regolato solo dalle infallibili leggi della concorrenza: dipende dal livello culturale del turista, che è quel che è. Va a ruba, ad esempio, la pasta multicolori, quella che trovi su ogni bancarella, da Roma a Como, da Venezia a Gaeta: pipe aromatizzate agli spinaci, rigatoni color di zucca e fusilli al nero di seppia... In un angolo, a due euro al pacco sono in vendita i pici, pasta tipica del Senese, che forse per il nome poco commendevole vengono scelti dai pochissimi che s’intendono di Aglione – rigorosamente della Valdichiana – e Cinta senese, indispensabile per il ragù.
Nella città delle cento torri – erano 74 e ne sono rimaste 13 – il turismo è la principale fonte di reddito. Sarebbe l’unica se non fosse per la Vernaccia di Letizia e degli altri vitivinicoltori che, coltivando 730 ettari di colline, producono ogni anno poco più di cinque milioni di bottiglie, metà delle quali destinate all’export, soprattutto negli Usa. È grazie alla campagna che la circonda – vino, olio e zafferano generano un giro d’affari di 40 milioni di euro –, che San Gimignano ha ancora un popolo e un’identità. Con tante incognite, certo. Adottare l’assetto agronomico a maglia fitta, gestendo seminativi e arboricoltura in funzione dell’ecosistema, permette di offrire allo sguardo incantato del visitatore la tipica cartolina toscana – che alterna campi di grano, vigne e boschi in piccoli appezzamenti punteggiati di casolari – ma ha dei costi. In questa campagna che un tempo era soggiogata dalle famiglie turrite di San Gimignano si è fatta una scelta che si paga: conservare le produzioni locali e coltivarle con il metodo biologico, rinunciando alla chimica in campo e anche a una parte del raccolto.
Per contro, la turistificazione del centro storico ha portato ad espellere gli abitanti – ne sono rimasti 700 sui 7700 residenti nel Comune, in pratica San Gimignano abita tutta fuori porta – e a trasformare questo gioiellino dell’urbanistica medievale in un outlet dell’arte. Evoluzione che nessuno, in città, si sente di condannare, perché, come raccontano, “prima del turismo qui si faceva la fame”. Il boom turistico è stato un volano per tutti ed oggi San Gimignano offre 5.240 posti letto, in pratica uno ogni abitante. Anche qui, però, la maggioranza dei turisti è come la marea: arriva al mattino e prima del tramonto se ne va. I visitatori che ogni anno accedono a San Gimignano sono 3 milioni mentre gli arrivi negli alberghi si fermano poco sopra quota 180mila (488mila permanenze).
La riqualificazione del turismo è il primo obiettivo del Comune che tenta di instillare qualche goccia di cultura nel cranio dei “lanzichenecchi” del terzo Millennio, quelli che ogni giorno espugnano il Palazzo Comunale, scorrazzano nella sala di Dante, senza aver la minima idea dell’ambasciata che vi condusse il Sommo Poeta, transitano indifferenti di fronte alla Maestà di Lippo Menni senza collegarla minimamente a quella senese di Simone Martini, sciamano nella Pinacoteca – tanti saluti a Benozzo Gozzoli e al Pinturicchio – per infilarsi nella torre grossa, con il solo desiderio di fotografare la città dall’alto. Il day trip si conclude nella Collegiata, dove, sotto un dipinto del Ghirlandaio, giace Santa Fina, cui i sangimignanesi sono devotissimi (ma i lanzichenecchi non lo sanno): per il 90% degli escursionisti la visita alla città toscana termina qui, malgrado gli sforzi del Comune di valorizzare il convento di Sant’Agostino e quello di San Domenico, attraverso mostre e concerti. Registrano invece il tutto esaurito i musei privati della tortura e della pena di morte, che con la storia della città non c’entrano assolutamente nulla, ma entrano – chissà perché – nei pacchetti dei tour operator.
«Il nostro tentativo è destagionalizzare il flusso turistico arricchendo il cartellone delle manifestazioni culturali anche nella bassa stagione e costruire delle reti con le frazioni e i comuni vicini – spiega l’assessore alla cultura Carolina Taddei –; in particolare con Volterra e Poggibonsi, che condividono con noi la cultura della società rurale toscana, perché per convincere il turista a prolungare la sua permanenza in questo territorio dobbiamo fargli scoprire le immense ricchezze naturali della campagna».
Quest’anno il programma delle manifestazioni per la “bella stagione” termina a metà ottobre, con un rinnovato investimento nella lirica, che ha vissuto la sua stagione aurea in piazza Duomo fino agli anni Novanta. Un cartellone ad hoc sarà proposto per i mesi invernali. Non è tutto. C’è il rinnovato interesse per la via Francigena e per la via del Sale che permettono di fare rete con Casole d’Elsa, Colle di Val d’Elsa, Poggibonsi, Monteriggioni e Radicondoli. E c’è soprattutto la scommessa dell’Unesco, che ha scelto San Gimignano per farne un modello di turismo sostenibile: esiste già un portale ( visitworldheritage.com ) dove “le dolci colline ricoperte di filari di viti, tetti in terracotta e torri fortificate” sono proposte ai globe-trotter come una meta da non perdere. «Il sito è in inglese – rivela la Taddei – e sarà tradotto presto in cinese, ma non in italiano, e questa per noi è un’indicazione chiara: si lavora sul turismo internazionale, che è stata la nostra prima vocazione e rappresenta il nostro futuro, per crescere in qualità». E in pernottamenti.
da Avvenire
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