Colpa, ma anche merito, dunque, di un passato di povertà, desolazioni e tormenti come quelli raccontati nel romanzo incompiuto L’uva puttanella e in tutta l’opera di Scotellaro, il sindaco ragazzo (fu eletto per la prima volta a 23 anni), poeta e lavoratore della vigna, simbolo dei miserrimi di quella terra un tempo isolata dal mondo. Nacque il 19 aprile 1923 a Tricarico, «dove le ultime propaggini delle montagne sono state raschiate dai boschi e si affacciano nude e gialle sulla nuda e gialla piana collinare di Matera». Nelle campagne intorno alla città arabo-normanna, nelle dure battaglie a difesa dei contadini e nel carcere che patì ingiustamente, si consumò il dramma di quel giovane socialista, rosso di capelli, che parla in mezzo alla sua gente, ai cafoni e ai vecchi intabarrati radunati in piazza, così come viene ritratto in Lucania ’61, l’enorme telero di Carlo Levi che si può ammirare nel Museo nazionale d’arte medievale e moderna a palazzo Lanfranchi di Matera. Sul romanzo capolavoro del torinese, Cristo si è fermato a Eboli, l’amico Rocco scrisse che è «il più appassionato e crudo memoriale dei nostri paesi». «Ci sono nel libro parole e fatti da fare schiattare le molli pance dei signori del sonno, meccanicamente, per la forza della verità – scrive Scotellaro ne L’uva puttanella –, ci sono morti e lamenti da fare impallidire i santi martiri». Ma non risparmia critiche al pessimismo del maestro: «Il mondo meridionale di Levi è come serrato nel dolore e negli usi, negato alla storia e allo Stato, eternamente paziente… il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, alla presenza della morte». Manca, nel Cristo, la speranza del socialismo, o di una fede anche laica che possa riscattare gli ultimi e i reietti dalla loro condizione disumana.
Ad Aliano, il posto del confino di Levi, adagiato in cima a una piramide tronca di pietra e calcare, sembra che nelle piccole «case con gli occhi» costruite con sembianze di mostri per spaventare il malocchio e la sfortuna, abitino ancora i personaggi del romanzo: la vedova, don Trajello, la levatrice, il sarto Pizzilli, l’ammazzacapre, donna Caterina. Accanto a loro lo scrittore ha deciso di farsi seppellire, «sul poggio dal quale si guardano i calanchi i tetti gli olivi, svettanti di qua e di là dalle cime del Pollino », scrive Raffaele Nigro, melfitano, autore de I fuochi del Basento vincitore nel 1987 del Campiello, che racconta le storie di una famiglia di braccianti del Vulture nella seconda metà dell’Ottocento. Ma c’è anche la Basilicata più intima del poeta Albino Pierro, nato nella Rabatana di Tursi, quel paese che gli dava «il respiro del cielo» e che dovette abbandonare per andare a insegnare a Roma. Le sue liriche, scritte nel dialetto tursitano attraverso un sistema fonetico- grafico da lui stesso inventato, sono state tradotte in nove lingue, tra cui il persiano e l’arabo. Il Nobel gli sfuggì per tre volte solo perché, dicono, fu osteggiato da colleghi più smaliziati, ma alla fine anch’essi perdenti.
E se la poesia è lo svelamento dei segreti più profondi di sé e del proprio mondo, l’essere basilisco sembra un privilegio tanti sono i poeti che la regione ha generato. Ricordiamo tra tutti Leonardo Sinisgalli (1908-1981), nato a Montemurro, critico e saggista, detto “il poeta ingegnere” e il giornalista Mario Trufelli, di Tricarico, che con la raccolta Prova d’addio si aggiudicò nel 1992 il Premio Flaiano. E come dimenticare Isabella Morra di Valsinni? Un’eroina del ’500, poetessa che anticipò i temi di Leopardi, considerata una seguace di Petrarca e Bembo: fu rinchiusa adolescente nel castello di Favale dai fratelli per gelosia e uccisa a 25 anni dagli stessi per una relazione epistolare clandestina con un barone spagnolo di Nova Siri, che fece la stessa fine. Scrissi con stile amaro, aspro e dolente è il titolo di uno dei suoi dieci sonetti, di marca tutta lucana come le tre toccanti canzoni.
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