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Viaggio in blu a largo della Malesia

di Daniela Giammusso

Mare cristallino, spiagge di sabbia bianca orlate da palme e foreste tropicali. E poi i fondali, ricchissimi di flora, fauna e banchi corallini. Se il paradiso esiste, probabilmente fa tappa anche in Malesia, almeno per gli amanti del sole e del relax, nel pieno del Mar della Cina e tra scenari che ricordano ancora le leggendarie avventure di Sandokan. Ma non solo spiaggia, qui il mondo si guarda soprattutto da sotto, dal profondo del blu dei fondali, che sia da esperti sub con le bombole indosso o anche solo per un po' di snorkeling con pinne e maschera. Redang, Perenthian, Tioman e Langkawi le quattro isole dove tuffarsi almeno una volta nella vita. Ecco, tappa per tappa, un'idea di ''viaggio in blu'' della penisola, da est a ovest, alla scoperta di un'ecosistema incredibile di specie marine e biodiversità.


    Sulla costa orientale della penisola, Redang è una delle isole più famose della Malesia e la più grande di un gruppo di nove che punteggiano il Mar Cinese Meridionale al largo di Terengganu. All'interno del suo Parco Marino protetto, sono ben 31 i punti per le immersioni tra giardini di corallo con gorgonie e anemoni, pesci coloratissimi e anche due relitti storici: la H.M.S. Prince of Wales e la H.M.S. Repulse, che affondarono qui all'inizio della Seconda Guerra Mondiale, preparando il terreno per l'occupazione giapponese della Malesia. Per chi non ama le bombole, l'isola è meta privilegiata anche per snorkeling, gite in barca e uscite in canoa. Si arriva in traghetto da Kuala Terengganu (Shabandar Jetty) o con barca veloce da Setiu (Merang Jetty). E se non volete più andar via, si può scegliere tra il luxury The Taaras Beach e Spa Resort, ma anche molti hotel a prezzi più contenuti. Questo periodo dell'anno è ideale anche per un tuffo alle isole Perhentian, a una ventina di chilometri dal Terengganu.


    Ricoperte da una giungla incontaminata e circondate da spiagge di polvere bianca e acque color zaffiro, Besar e Kecil sono due veri santuari per pescatori e uccelli migratori, ma anche un must per chi pratica windsurf, vela e canoa.


    Nel 2014 Kecil è stata anche inserita tra le migliori 100 spiagge al mondo per l'americana CNN, insieme alle altre perle malesi di Juara Beach a Tioman e di Pahang e Tanjung Rhu a Langkawi. Se Kecil è perfetta per chi preferisce una vacanza indipendente e low cost, Besar, la più grande, offre maggiori strutture e servizi per tutta la famiglia.

    Considerata tra le 10 isole più belle al mondo, c'è poi Tioman, 50 chilometri dalla costa orientale di Pahang, scelta nel'59 come location del musical hollywoodiano ''South Pacific'' nel 1959. Secondo la leggenda, proprio qui riposerebbe una mitica principessa drago. Tra relax e avventura, si può partire alla sua ricerca immergendosi nelle acque qui particolarmente calde (e quindi con un'ottima visibilità) tra ventagli di gorgonie, coralli Staghorn, nudibranchi e spugne marine che sembrano quasi scolpite. Oppure facendo snorkeling tra i pesci Napoleone, i golden trevally, i pesci pappagallo con il corno e i banchi di fucilieri. Intorno a Tioman si trovano poi una miriade di piccoli isolotti come Pulau Che beh, regno delle mante giganti. O Pulau Soyak con il relitto ricoperto da coralli e ancora Pulau Labas con le sue enormi scogliere che dal profondo del mare sembrano arrivare a toccare il blu del cielo.

    E se poi foste stanchi, concedetevi una passeggiata anche nell'entroterra, nel suo verde ricco di fiori selvatici, farfalle, varani, cervi e scimmie.

    Tioman offre hotel adatti a ogni budget: dal Japamala Resort, quintessenza del lusso, a hotel più pittoreschi. Infine Langkawi, gioiello del Kedah e dal 2007 Global Geopark dell'Unesco per il suo patrimonio geologico di 550 milioni di anni di età. Qui non mancano le attività: dai tour in barca lungo fiume Kilim tra mangrovie macachi e granchi soldato alle immersioni nella riserva naturale protetta del Pulau Payar Marine Pak. E per ammirare l'isola dall'alto con un'esperienza davvero adrenalinica, da non perdere la salita con il Langkawi SkyCab, una delle più ripide funicolari al mondo. Per dormire, l'isola offre soluzione per tutte le tasche: dai lussuosi resort come Four Season Langkwai o The Dati Langkawi, alle strutture più economiche nei pressi di Cenang Beach.
   
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Torino. Oggetti di devozione da tutto il mondo In mostra l'umanità unita in una preghiera


Nepal, città di Katmandu, piazza Durbar: la grande festa d’inizio anno in onore di Shiva. Una donna aggiunge palline di cera ai piccoli ceri che già bruciano da ore di fronte al tempio. Si ferma a mani giunte, recita qualcosa e poi con la mano destra si segna, prima la fronte, poi il petto, poi una tempia. Cosa sta facendo? Ho la presunzione di pensare che stia pregando. Cosa me lo fa pensare? L’intensità del suo sguardo, il raccoglimento e il fatto che con lei migliaia di altre persone ripetono gli stessi gesti, gli stessi mantra e chiedono, mi sembra, qualcosa. Shiva è il dio della creazione e della distruzione allo stesso tempo, principio vitale nella sua danza perenne e distruttore del male. Immagino quindi che la donna si stia “indirizzando” alla divinità per lodarla o per chiederle qualcosa. Immagino. 

Una buona prudenza mi fa pensare allo stesso tempo che non posso proiettare su di lei quello che io conosco del pregare. Eppure qui, come tra i sufi di una tekkè di Istanbul o tra gli oranti di una sinagoga a Casale Monferrato, come tra i copti di Lalibela in Etiopia vedo gesti e parole, movimenti individuali e collettivi che mi fanno pensare alla stessa cosa: al fatto che pregare non sia un’esclusiva del mondo a cui appartengo, ma qualcosa che ha a che fare con una base comune a tutta l’umanità. Ci vuole del coraggio nel dirlo, sicuramente, perché mai come adesso siamo soggetti alla prova del pensare che le religioni siano luogo di conflitti, che tra induisti e musulmani in India non c’è pace, come non c’è tra copti, cristiani e musulmani in Egitto o in Siria, come non c’è tra buddisti e induisti in Thailandia o a Sri Lanka. Però quell’intensità, quel rivolgersi alla divinità o alle profondità di sé stessi, gli strumenti stessi usati per la concentrazione, rosari che si chiamano 
mala, tesbih, japamala ma che consentono al fedele di diventare una macchina di preghiera, tutto questo mi spinge a credere che ci sia una base comune. È il contrario di quanto alcuni pensatori hanno dichiarato. 

Rodney Needham in un famoso libro dal titolo Credere metteva in dubbio che si potesse estendere la categoria del credere a culture che non sono la propria. Ed il laicismo alla francese che oggi manda in carcere i ragazzini che a scuola si rifiutano di dire «Je suis Charlie» professa come credo l’abolizione di tutti i credi. Rispetto a questa posizione come antropologo e come viaggiatore assiduo non posso non pensare che anche gli “altri” preghino. 

Me lo dice l’esperienza diretta, l’amicizia con persone di altre culture, la conoscenza dei testi delle preghiere altrui, islamiche, induiste, buddiste, ebraiche e perfino di mondi che sembrano lontani, quelli dell’animismo e dello sciamanesimo, ma che condividono lo stesso anelito a comunicare con la divinità, sia essa rappresentata 
da spiriti della natura, da una pluralità o da un’unità di forze. Me lo dicono gli studiosi di religioni che da almeno due secoli si arrovellano su questa materia. 

E me lo dice l’evidenza della mia esperienza diretta. Ed è per questo che da qualche anno ho coltivato un sogno anticonformista e pericoloso: quello di raccontare la preghiera come qualcosa di universale, di comune nei gesti, nelle parole, nei canti, nelle danze a culture diversissime e lontanissime. 

Ho raccolto rosari di tutti i culti e mi sono stupito della loro bellezza e antichità e poi ho scoperto che i rosari “comunicano” tra di loro, raccontano cioè una storia di “prestiti” da una cultura all’altra. Nascono nel Subcontinente indiano, vengono assunti dal buddismo, i sufi dell’Asia centrale se ne appropriano e li passano ai monaci ortodossi anatolici che a loro volta li passano al mondo cattolico. Questi cerchi di preghiera raccontano l’assiduità della preghiera, il bisogno di ripetere, la sua circolarità che abolisce il tempo e lo rende qualcosa di fertile per dare al mondo un aspetto più divino. Ma allo stesso modo ci sono gesti come il “segnarsi”, come il genuflettersi, il tenere le mani giunte, o le braccia aperte nell’invocazione e nella danza che risalgono a tempi antichi e che sono ancora presentissimi nell’umanità. È il grido del Salmo 30, che dice: «Hai trasformato il mio lamento in danza». La preghiera implica, coinvolge e trasforma il corpo nella sua individualità e nella sua comunità con altri corpi, di presenti e di assenti. 

Contro la tendenza a pensare che le religioni siano luogo dell’antagonismo, una parte di me sa che esse sono anche l’espressione di un anelito comune che produce straordinarie coreografie, architetture, poesie, pratiche quotidiane, quello che gli antropologi chiamano “cultura”. Mi trovavo qualche giorno fa, invitato dal governo del Marocco, a filmare la preghiera all’interno delle magnifiche moschee di Fes. Un privilegio, perché ai non musulmani è interdetto l’ingresso. Adesso sono io l’osservato mentre riprendo. A questi composti fedeli che si genuflettono al richiamo del muezzin e che adempiono cinque volte al giorno uno dei doveri dell’islam, la 
salat, devo sembrare alquanto singolare. Perché l’altra faccia della medaglia è che ogni orante di ogni religione pensa che la sua sia l’unica maniera di pregare. E si stupisce che, ad esempio, il rosario esista anche in una cultura diversa dalla propria. È difficile testimoniare la base comune della preghiera, ma è anche sempre più urgente perché implica una vera coscienza universale. 
avvenire

Mostra al Louvre. Rapporto con Dio di Poussin, "Raffaello francese"

Balzac aveva colto l’essenza di una polemica nazionale che durava dal Seicento mentre scriveva Il capolavoro sconosciuto. Fra le tante cose che Balzac semina nel racconto, infatti, c’è anche sottintesa laquerelle che da due secoli si combatteva attorno a Poussin, il pittore filosofo, ma anche il “libertino erudito”, insomma il genio nazionale che la Francia venerava, e venera, come il suo Raffaello. 

I protagonista del Capolavoro sconosciuto, Frenhofer, riceve la visita dell’amico pittore Pourbus, il quale viene accompagnato da un giovane artista, Poussin appunto. Di fronte al quadro che Frenhofer sta dipingendo i due hanno un moto di sconcerto: gran parte della tela, infatti, è coperta da una informe crosta di colori, e soltanto in un angolo si vede emergere un piede femminile, ma eseguito con sublime verità. Frenhofer insiste a difendere il suo capolavoro che sfida la vita, ne nasce un alterco e il congedo dei due ospiti è brusco e repentino. 

Il giorno dopo Pourbus tornerà da Frenhofer e scoprirà che si è ucciso. In precedenza, però, Frenhofer aveva cercato di spiegare al povero Pourbus, che si era recato da lui per mostrargli un suo ritratto femminile, che cosa non andava (pur essendo ben dipinto): «Non riesco a credere che questo corpo sia animato dal tiepido soffio della vita. Mi sembra che se posassi la mano sulla gola di questa immobile rotondità, la sentirei fredda come il marmo». Qui Balzac applica a Pourbus la critica che venne mossa, già nel Seicento, a Poussin. La sua freddezza, la cerebralità della sua pittura “di pietra”.

La critica era stata rivolta a Poussin da Roger de Piles, artista e diplomatico francese, che aveva ricevuto una formazione filosofica e teologica e soggiornò per qualche anno a Venezia. De Piles scrisse, tra le altre cose, un Dialogo sui colori (1673), dove sosteneva la superiorità della pittura veneziana su Raffaello. Ma ai vertici poneva Rubens, contrapposto a Poussin, il quale, dice De Piles, finisce per dare alla carne l’apparenza della pietra, mentre Rubens fa proprio il contrario, fa sembrare carne la pietra. Lesa maestà? Certo, se si considera che Poussin era già all’epoca, cioè otto anni dopo la sua morte, considerato «le Raphaël de la France», come ricordano Nicolas Milovanovic e Mickaël Szanto, introducendo in catalogo le questioni da cui nasce l’importante mostra che il Louvre ha inaugurato a proposito di Poussin e Dio

E sarà perché si tratta ancora di lesa maestà che i due curatori della mostra nel loro saggio non nominano mai De Piles? Eppure, questo personaggio dalla vita avventurosa fu, con André Félibien, il teorico più ascoltato nel dibattito sulla pittura, dove difendeva, contro Vasari, la supremazia del colore sul disegno. La diatriba si lega bene al tema della mostra, tanto più che i curatori partono dalla polemica suscitata circa vent’anni fa da Jacques Thuillier quando allestì la grande retrospettiva su Poussin al Grand Palais. Thullier disse a chiare lettere che non vedeva in Poussin un vero afflato religioso, anzi aggiungeva che non fu mai toccato dalla grazia, quindi dalla fede, semmai realizzò una sintesi di cristianesimo e stoicismo antico (che bastava però a Fumaroli per farne un pittore cristiano).

Poussin era quasi un asceta, non si concedeva lussi, e non li ostentava. Aveva vissuto parecchi anni a Roma, dov’era morto nel 1665. Dire che campasse di niente, d’altra parte, sarebbe comico. Era, appunto, un pittore filosofo, e nell’Autoritratto del 1650, all’età di cinquantaquattro anni, mostra lo sguardo severo e virtuoso del “moralista” che nella mano destra stringe una cartella colma di disegni e al mignolo porta un anello con diamante. Le ultime ipotesi legano questo anello alla figura femminile sullo sfondo che indossa un diadema con al centro un occhio aperto (che il Bellori interpretò come un’allegoria della pittura), a un significato propriamente cristiano: l’occhio sarebbe quello della Provvidenza e le due braccia che cingono la donna evocherebbero l’incontro di Maria con Elisabetta, dove l’anello diamantato rappresenterebbe il simbolo della forza e costanza nella fede in Cristo “divino diamante”, incorruttibile e celeste. Ipotesi ardita, non c’è dubbio. Tuttavia, il fatto che Poussin abbia dipinto circa quaranta quadri dove compare la figura di Mosè, significherà qualcosa, tanto più se si pensa alla lunga tradizione misteriosofica fondata sul “Mosè egizio”. 

Bisognerebbe anche ricordare che dai Libri Carolini in poi esiste una polemica dei francesi sull’immagine sacra che rifiuta la consustanzialità fra l’immagine e l’archetipo affermata dal cristianesimo orientale (i Libri Carolini furono scritti, infatti, come risposta critica alle conclusioni del secondo Concilio di Nicea). Il sacro per un pittore francese è, in ogni caso, più secolarizzato di quanto non sia per un pittore italiano. 

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L’Eucarestia che Poussin dipinge pare la cena iniziatica di una setta o la seduta notturna di una scuola eleatica; dello stesso tenore anche il sacramento della cresima. Sono il frutto della meditazione di Poussin sugli antichi (più che su sant’Agostino, come sostengono i curatori della mostra), che egli traspone in una precisa metrica compositiva ammantando l’immagine del significato cristiano (il Cristo del Miracolo di san Francesco Saverio, d’altra parte – e già all’epoca venne così etichettato – sembra una specie di “Giove tonante” che incombe dal cielo).

C’è sempre qualcosa di troppo “elevato” in Poussin: L’Assunzione della Vergine sembra venirci incontro con la solidità di una statua, La Sacra Famiglia sulle scale pare più interessata alla dialettica con l’architettura e all’austerità "morale" della vita in una ideale società antica; la Morte della Vergine è una costruzione di elementi retorici dove il dolore e ilbouleversament indotto nei discepoli dal trapasso della Madonna non ha più nulla della verità umana, che invece si coglie nel quadro di Caravaggio, spostato per l’occasione poche stanze più in là, sempre al Louvre, dove è allestita, in perfetto pendant, una piccola ma calibratissima mostra, sulla “fabbrica delle immagini sante” a Roma e Parigi tra il 1580 e il 1660. Quattro anni fa il Louvre aveva presentato in queste sale una retrospettiva su Rembrandt e la figura di Cristo. 

Ne avevamo parlato ricordando quanto fosse stata decisiva la ricerca di Rembrandt se si prova a immaginare il deserto iconografico che si era prodotto nelle chiese olandesi con la Riforma. Molti artisti non avevano più sotto gli occhi modelli a cui ispirarsi. Rembrandt reinventa l’iconografia di Cristo e ce ne restituisce un’immagine profondamente umana senza tradire l’altra natura, quella divina. Se, adesso, consideriamo con la stessa ottica questa mostra sulla costruzione delle immagini sacre a Parigi, tenendo ben in mente la storia dell’iconoclasmo che dopo l’epoca tardo-bizantina riceve dalla Riforma nuova linfa, ci accorgiamo che a venir meno fu la natura umana, rimanendo quella divina una specie d’involucro, di larva, senza empatia; ed è questo un segno della difficoltà a conciliare teologia dell’immagine e incarnazione, così che prevale l’ésprit, cioè la mente e la ragione, anziché il cuore, pascalianamente inteso. 

È un’arte retorica, che non sembra potersi spingere, per esempio, dentro il dramma della Redenzione – vedi il Cristo morto di Philippe de Champaigne, che pare in posa per una foto, coi truccatori che hanno deposto ai bordi della ferita di lancia un gel colorato che gocciola luccicando su un corpo dove persino i buchi dei chiodi hanno qualcosa d’inverosimilmente grande e innaturale. La morte del Cristo diventa quella di un eroe, il sacrificio per l’idea, a cui, oltre un secolo dopo, l’iconografia rivoluzionaria cercò di dare nuovo pathos simbolico e rituale portando a compimento quella razionalizzazione del sacro che s’intuisce già in Poussin e in altri artisti francesi del suo tempo.
avvenire

Parigi Bonnard, il lusso del colore


Il paladino più appassionato della pittura di Pierre Bonnard, oggi, è certamente Jean Clair. Difficile dargli torto, dopo essere usciti dalla straordinaria retrospettiva che il Museo d’Orsay dedica al pittore francese, a cura di Guy Cogeval e Isabelle Kahn. Sì, si può fare come alcuni critici che accusarono Jean Clair di aver usato Bonnard per ribadire la sua idiosincrasia verso le avanguardie. Il saggio, non lunghissimo, che scrisse nel 1975, ripubblicato nel 2006 e poi ancora nel 2008 all’interno di una raccolta di interventi critici, era un primo frutto di quella “critica della modernità”, che Clair stava elaborando, poi riassunta in un fortunatissimo pamphlet che tenne banco all’inizio degli anni Ottanta quando si cominciò a parlare del “ritorno alla pittura” che coincise con la moda del postmoderno.
Si dice che la pittura sia un’arte che torna in auge quando si fa sul serio, e quando il mercato riprende quota. È un lusso che diventa barometro della salute economica, insomma. Ora, Bonnard è certamente un pittore del lusso. Ma non quello borghese, ché anzi dalla sua pittura traspare una certa antipatia verso questo mondo. Il lusso di Bonnard è di segno metafisico, è quello del colore che riporta la natura a una condizione dove l’ombra è quasi imprendibile e rende a sua volta i corpi e le cose un riflesso nello specchio che, con la finestra, come notava Clair, è un tema importante per Bonnard. Nel catalogo della mostra, Nicholas-Henry Zmelty scrive che Bonnard e Matisse reinventarono il motivo classico della finestra, e si potrebbe aggiungere che la finestra (e lo specchio) sono il “diaframma” tramite il quale la natura torna a essere il giardino dell’inizio, vista come il «primo mattino del mondo» scriveva Clair, cogliendo un riferimento allo sguardo di Dio che ricrea il mondo in ogni istante mentre lo guarda.
Sempre i critici avversi, insinuarono che Clair volesse usare Bonnard come arma contro Matisse. Difficile avere la meglio, questo è certo. Perché Bonnard è sicuramente un pittore puro, pur senza essere un astratto antifigurativo. La mostra si apre con un Paravento a tre ante del 1889: il fondo completamente rosso, canne di bambù e felci, uccelli di varie specie: la certezza che quest’opera raffinatissima deve moltissimo alla stampa giapponese è pari a quella su quanto il primo Matisse debba a Bonnard.
Pare che non datasse mai la sua corrispondenza, Bonnard; invece, annotava giorno per giorno con meticolosa precisione nei suoi carnets le minime variazioni meteorologiche. Era tipico di un temperamento melanconico. Matisse lo fu forse di meno? Non disse instancabilmente, per tutta la vita, che la pittura doveva suscitare la gioia di vivere, essere un’oasi per l’uomo oppresso dalle infinite brutture di questo mondo? Sempre nella prima stanza della mostra, vengono esposte alcune strepitose tempere su carta, con figure femminili in giardino (e una con una donna in vestaglia che si confonde con la natura al punto tale da essere quasi indistinguibile da essa) dove valore di superficie e valore tattile del colore si scambiano continuamente i ruoli, in un sublime artificio decorativo.
Siamo 1890 e ’91, lo japonisme domina la scena parigina dopo le esposizioni universali che hanno fatto conoscere l’arte orientale e quella dei primitivi africani e oceanici; l’impressionismo è all’apice; ma Degas aveva sorpreso tutti e scandalizzato i benpensanti nel 1886 con sette pastelli dove donne della più umile condizione sociale vengono mostrate mentre fanno il bagno, si asciugano, si pettinano. Un affondo di strepitosa bellezza. Ed è ai pastelli e all’immaginario poetico di Degas, che Bonnard s’ispira in dipinti come La siesta (1900), Donna addormentata sul letto(1899), ma soprattutto negli anni che ruotano attorno alla Grande guerra, con Nudo inginocchiato nella tinozza del 1918 (che cita esplicitamente Le tub di Degas), Grande nudo blu del 1924, e ancora nel Nudo di schiena alla toilette del 1934.
Una cosa è chiara: Bonnard si è scelto i suoi compagni di viaggio: tre, in particolare: Degas, Matisse e Redon. Ecco l’altro profeta del mondo “surnaturel” e libero da ogni preconcetto modernista. Chi ha potuto vedere la grande retrospettiva che Parigi ha dedicato a Redon nel 2011 ed è entrato in quella stanza allestita coi dipinti che realizzò nel 1911 per l’abbazia di Fontfroid (acquistata dal pittore Gustave Fayet, suo amico), si è reso conto di quale poesia del colore furono capaci alcuni artisti francesi nei primi decenni del Novecento, oltre lo stesso impressionismo, anzi negando all’impressionismo quel verbo prospettico che lo stesso Matisse smantellerà nella sua pittura fauve e poi nelle composizioni successive dalla Danza del 1909, con gli interni arabescati degli anni Dieci, fino al culmine, dopo la metà del secolo nei papiers découpés.
Fra Bonnard e Redon la sintonia è anche nella tavolozza: certi gialli e azzurri, gli arancioni e i turchese tendenti al violetto. E il viola è il colore dove il cromatismo di Bonnard scatta con una intensità che tiene insieme bellezza e malinconia, come nel dipinto, sul quale tornerà più volte nell’arco di quasi vent’anni, La terrazza a Vernon (1920-1939). Vernon, che dista pochi chilometri da Giverny, dove Monet si è ritirato per dipingere la sua “natura naturata” del giardino che ha creato per essere una macchina dell’immaginazione; poco distante, dunque, Bonnard dipinge la sua natura “edenica”. Fénéon lo aveva definitivo un Nabis «molto giapponese»: in realtà, nei Nabis Bonnard ci stava stretto, la sua pittura era “profetica” ma non simbolica come l’intese il cenacolo raccolto da Paul Sérusier. Bonnard cercava il colore-vita, il colore-sguardo, era, per certi aspetti, un neobizantino. Ne testimoniano quadri come La danza del 1912, ma anche Il Paradiso terrestre e Sinfonia pastorale, dipinti tra il 1916 e il ’20.
Col tempo Bonnard sembra voler riscuotere il suo credito col primo Matisse, e in un dipinto come Tavolo da lavoro (1926-37) ritrova quella composizione quasi bidimensionale che Matisse pensava come architettura astratta di colore, soprattutto negli interni domestici. Per giganti della pittura come questi, le analogie e le citazioni non sono mai veri furti, si tratta di stimoli amicali, di affinità elettive, di un sentire comune che rappresenta, oltre gli schematismi critici, un sentimento del colore, una visione, che li unisce come la linea di un arabesco e da Bonnard, può giungere, forse anche inaspettatamente, fino a Rothko e Barnett Newman.
Parigi, Museo d’Orsay
Bonnard
Peindre l’arcadie
Fino al 19 luglio
avvenire

Pasquetta al Museo dell'Olivo

(ANSA) - ROMA, 4 APR - Dalle tavolette cuneiformi di Babilonia, che testimoniano del consumo e del commercio dell'olio già nel II millennio a.C., ai resti millenari di olivi selvatici; dai pratici orci dei commerci romani, fino alle sontuose oliere da tavola in argento e cristallo colorato della Francia ottocentesca. In tempi di grande allarme per gli ulivi mediterranei, con gli alberi secolari della Puglia a rischio abbattimento per colpa della Xylella fastidiosa e il panico per la 'peste' che invade l'Europa e mette a rischio anche le esportazioni, c'è in Liguria un piccolo, curioso museo tutto dedicato all'olivo che a Pasquetta apre le porte gratis ai visitatori, per un tuffo nella storia millenaria e affascinante di questa pianta da sempre simbolo di pace. Allestito dal 1992 a Imperia - Oneglia in un villino anni Venti dalla famiglia Carli, storica azienda olearia del ponente ligure, il piccolo museo privato offre 18 sale che gli hanno fatto meritare nel 1993 anche la menzione di "museo dell'anno".
    Tre gli itinerari tematici, per ripercorrere la storia, scoprire i segreti della coltivazione, imparare tutto sulle tecniche di produzione dell'olio, apprezzare perfino come è fatto un terrazzamento tradizionale ligure, ricostruito all'interno del Museo. Un lungo percorso per scoprire, anche con l'aiuto di filmati e di una voce narrante, nonché di reperti archeologici, libri e documenti antichi, presse monumentali, sistemi di pesatura, impianti e utensili per la produzione di olio antichissimi, giare e contenitori, che la storia dell'olivo comincia addirittura nel IV millennio avanti Cristo con le prime organizzazioni statali del Medio Oriente che danno il via alle grandi civiltà mediterranee.
    Dal Medio oriente alla Grecia, dove l'olivo è consacrato ad Atena, la dea della sapienza, che vincendo la contesa con Poseidone, re del mare, lo offre in dono agli abitanti di Atene.
    Albero sacro, considerato tramite tra l'uomo e la divinità, simbolo di pace. La tradizione vuole che sia il ramo di olivo portato dalla colomba ad annunziare a Noè la fine del castigo divino. Ramo che si dice provenisse dall'albero piantato sulla tomba di Adamo. Una lunga serie di riferimenti materiali costella le Sacre Scritture e la tradizione ebraico cristiana: di olivo dorato sono le porte del Tempio di Salomone, di olivo e di cedro, secondo una leggenda, era la Croce di Cristo. La visita si conclude con due sale dedicate all'arte e alla poesia ispirate dall'olivo e con le oliere e i lumi ad olio che narrano di tavole imbandite nelle corti europee e di fiammelle dorate che dall'impero romano rischiarano la notte fino all'inizio del secolo scorso. Mentre in parallelo un percorso tattile realizzato con l'Unione Italiana Ciechi permette anche ai non vedenti di approfondire temi botanici, colturali, storici e tecnologici dell'olivo in ambito mediterraneo.
    A Pasquetta il museo sarà aperto dalle 9 alle 12.30 e poi dalle 15 alle 18.30. L'iniziativa, spiega Claudia Carli, direttrice comunicazione Fratelli Carli, "nasce dal desiderio di valorizzare il patrimonio culturale imperiese, nella speranza di coinvolgere anche altre realtà che come noi hanno desiderio di promuovere il turismo in questa meravigliosa parte del ponente ligure dove l'olivo, appunto, è il protagonista indiscusso".
    Visitarlo, chissà, può servire anche un po' a fare il tifo per la sorte degli olivi pugliesi. O quantomeno a prendere coscienza del grande valore, anche storico e culturale, di queste piante.
    (ANSA).
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Lunedì dell'Angelo alla Tenuta della Landriana

A pochi chilometri da Roma, gli storici giardini della Landriana aprono le porte al pubblico per il lunedì di Pasquetta: patrimonio di architettura paesaggistica di raro pregio, il parco è stato recentemente rinnovato e riaperto in occasione della primavera. Durante il periodo di chiusura, infatti, sono stati realizzati importanti lavori di ringiovanimento delle piante, che si presentano ai visitatori in una veste completamente nuova e vivace.
L'oasi mediterranea nei pressi di Ardea, sulla costa laziale, viene consegnata al pubblico da una storia del tutto singolare, che intreccia il caso alla nascita di una profonda passione. Tutto ebbe inizio nel 1956, quando il marchese Gallarati Scotti e sua moglie, Lavinia Taverna, decisero di acquistare, ad un'asta giudiziaria, una proprietà rurale che chiamarono la "Landriana", in omaggio ad uno dei nomi della famiglia Taverna. Dopo aver piantato degli alberi per frenare i venti che soffiavano dal mare, un'amica di famiglia donò a Lavinia Taverna una bustina di semi e la marchesa, quasi per gioco, provò a seminarli. Il risultato dell'esperimento fu sensazionale: nacquero delle piantine e con esse un profondo amore di Lavinia verso il giardinaggio. La marchesa iniziò ad avvicinarsi al giardino con grande ardore, dedicandosi con estrema cura alla semina e allevando con amore le centinaia di piante nate grazie al suo attento lavoro nell'area che circondava la casa, senza seguire uno schema preciso. A dare una struttura al giardino fu in seguito l'architetto paesaggista Russell Page, che lo suddivise in spazi circoscritti dal disegno fortemente geometrico, attraverso la creazione di siepi e vialetti.
Alla sua morte, nel 1997, Lavinia Taverna ha lasciato al pubblico l'inestimabile patrimonio di un giardino moderno e unico in Italia, fatto di attente giustapposizioni, accurate potature, viali e camminamenti lastricati o in erba, schemi di colori armoniosi. Oggi la Landriana costituisce uno stimolo ed una fonte d'ispirazione preziosa per chiunque intenda avvicinarsi al giardinaggio, sia con un approccio poetico e riflessivo, sia con un'attitudine più concreta e scientifica.
Durante il lunedì di Pasquetta, visite guidate accompagneranno il pubblico alla scoperta degli angoli più suggestivi della tenuta di dieci ettari: la Valle delle Rose, il Viale Bianco, il Giardino degli Ulivi e il quieto Lago circondato dalle rose antiche che proprio in questa fase dell'anno regalano un magico scenario. Un punto ristoro nel cuore del parco permetterà di fermarsi per il pranzo. Le festività della nuova stagione ai giardini sul litorale laziale proseguono dal 24 al 26 aprile con il ventennale del flower show "Primavera alla Landriana": all'evento sono attesi circa 150 espositori internazionali che presenteranno non solo piante insolite e rare, come da sempre recita il claim della Landriana, ma anche soluzioni tra le più nuove e sostenibili per gestire giardini o balconi. Era l'aprile del 1995 quando la marchesa Lavinia Taverna decise di allestire nei suoi meravigliosi giardini mediterranei una delle prime mostre di fiori e piante in Italia: a distanza di vent'anni, i giardini della Landriana, oggi guidati da sua figlia Stefanina Aldobrandini, sono divenuti un punto di riferimento del florovivaismo di qualità e simbolo di un valore culturale fiorito nel tempo proprio come le sue piante.
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