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La mostra a Forlì. Preraffaelliti: l’arte del passato per parlare dell'uomo moderno

 

Ford Madox Brown, “Deposizione”, 1868 (particolare) - Forlì, Musei San Domenico


Con oltre 300 opere ai Musei San Domenico di Forlì un’esposizione scruta la lezione dei pittori inglesi, di Morris e Ruskin

L’obiettivo, confessato o sottinteso, dei Musei San Domenico di Forlì, è sempre stato quello di dire l’ultima parola, quella definitiva, sugli artisti e i movimenti presentati, sui temi affrontati. A volte l’obiettivo è stato raggiunto e riconosciuto da attestati prestigiosi a livello internazionale quale il Global Fine Art Awards che ha premiato le mostre L’Eterno e il Tempo tra Michelangelo e Caravaggio (2019) e Ulisse. L’arte e il mito (2021). Altre volte i riconoscimenti internazionali sono mancati, ma non quelli di gran parte della critica nostrana e anche il riscontro del pubblico è stato sempre lusinghiero.

Così che anche in questa occasione, come del resto nelle precedenti, non ci si è risparmiati nello sforzo organizzativo e nell’impiego di risorse finanziarie per mettere in piedi una rassegna che lasciasse un’impronta. E la mostra Preraffaelliti. Rinascimento moderno (fino al 30 giugno; maxi catalogo Dario Cimorelli Editore), recentemente inaugurata dopo una preparazione che ha richiesto più di tre anni, con un monumentale allestimento che presenta trecentocinquanta opere (si va dalle tele, alle sculture, dai gioielli, agli oggetti d’arredo), parecchie delle quali escono eccezionalmente da prestigiosi musei e da esclusive collezioni private, un segno di sicuro lo lascerà. Almeno per un quinquennio.

Sì, perché da un po’ di tempo a questa parte le mostre sui Preraffaelliti si confezionano a scadenza quinquennale. Questa di oggi, infatti, segue la mostra Preraffaelliti. Amore e desiderio tenuta a Milano nel 2019 che a sua volta veniva dopo Preraffaelliti. L’utopia della bellezza realizzata nel 2014 a Torino. Dunque il tema è stato ampiamente indagato e allora quali sono i punti di interesse di questa avvincente quanto impegnativa esposizione? Li sottolinea Gianfranco Brunelli, direttore generale delle grandi mostre dei Musei San Domenico, che ha coordinato la rassegna curata da un nutrito gruppo di studiosi italiani e stranieri.

«Quella che viene raccontata, ampiamente come non mai, è la storia di un movimento che non rappresenta un ritorno reazionario agli stili del passato, ma un progetto visionario capace sia di rendere le opere che ne nacquero qualcosa di decisamente moderno, sia di restituire forza e presenza alla tradizione italiana. Per questo, per la prima volta viene affiancata una consistente rappresentanza di artisti italiani, tra cui opere di antichi maestri, alle opere britanniche, ma anche opere di artisti italiani di fine Ottocento ispirate ai precursori d’oltre manica, così da creare una sintesi tra le diverse esperienze della Gran Bretagna e dell’Italia».

Dunque siamo a metà del XIX secolo quando si sta schiudendo il mondo del futuro con la caotica e sorprendente rivoluzione industriale alle porte. Perfettamente consapevoli di vivere un momento storico irripetibile che ribalta e accelera ogni aspetto della società, uniti da un comune sentire ostile alla società formalistica e arida che sembra dominare l’Inghilterra e in sintonia con la filosofia purista di John Ruskin, un terzetto di artisti decide che l’arte deve farsi foriera di un cambiamento di stile e di contenuti in opposizione alle alienanti contraddizioni della nascente produzione industriale.

Dove trovare ispirazione, strumenti e valori per affrontare tale compito? Nell’antichità, nel passato. Un passato più fantastico che storico, più sognato che reale. L’arte deve forgiare un nuovo alfabeto e la bellezza è la grande sorgente a cui abbeverarsi, una pozione magica che avrebbe nutrito spirito e mente con la sua purezza e sincerità. Una bellezza da rintracciare in momenti storici precisi, a partire dall’arte italiana pre-rinascimentale per arrivare fino alla linea di confine rappresentata da Raffaello che è l’emblema del cortigiano, di colui che pone la sua indubbia eccellenza al servizio del potere.

Un’autentica rivoluzione agli occhi della tradizione accademica dell’Inghilterra vittoriana. I tre, sui vent’anni, John Everett Millais, Dante Gabriel Rossetti e William Hunt (ai quali la mostra dedica ampi focus con opere iconiche) fondano nel 1848 la confraternita dei Preraffaelliti che elegge come riferimenti Old Masters del Medioevo e del primo Rinascimento quali Cimabue, Beato Angelico, Sandro Botticelli, Filippo Lippi, Luca Signorelli, che aprono il percorso espositivo. Un percorso che si allarga alla seconda generazione preraffaellita che comprende William Morris, Edward Burne-Jones, Frederic Leighton, George Frederic Watts (presenti con vere e proprie personali: di Burne-Jones ci sono oltre venticinque opere) che con una rilettura formale dell’intero Cinquecento gettano lo sguardo fino all’area veneta di Veronese e Tiziano e realizzano lavori di sorprendente originalità visiva e di perfezione estetica, contraddistinte da una messa a fuoco nitida e dall’attenzione al dettaglio in ogni punto della superficie.

Blu oltremare, rosso carminio, verde pavone (è il colore utilizzato nell’allestimento) sono i pigmenti principali della tavolozza preraffaellita, stesi in macchie nette a mosaico e mai velati, sulla tela preparata con il bianco per mantenere i colori abbaglianti, dalle tonalità stridenti e dissonanti. A condurre il movimento all’interno del Novecento è la terza generazione dei Preraffaelliti influenzati dai giganteschi arazzi (sono in mostra) di Burne-Jones dedicati al Santo Graal presentati alla Esposizione Universale di Parigi del 1900.

L’esposizione ha il merito di soffermarsi su questo periodo, quasi mai o raramente approfondito, e di offrire l’occasione di apprezzare l’opera di artisti quali John William Waterhouse, Robert Anning Bell, Charles Haslewood Shannon, poco conosciuti, ma che reggono benissimo il confronto con i loro più affermati colleghi delle generazioni precedenti. Così come è altrettanto apprezzabile l’attenzione che viene riservata, al termine del percorso espositivo, alla fascinazione che gli artisti italiani di fine Ottocento (tra questi Giulio Aristide Sartorio e Adolfo De Carolis) subiscono per il “Rinascimento moderno” d’oltre Manica.

avvenire.it

Ai Musei San Domenico di Forlì due secoli di intersezioni tra arte e moda

L’esposizione indaga l’abito che modella, nasconde, dissimula e segna il corpo; segno di potere, di riconoscimento, di protesta

Se l’abito fa l’artista (e viceversa)

Forlì

È di vecchia data il flirt fra arte e moda. Poi, via via nel tempo, il rapporto si è consolidato trasformandosi in un matrimonio di fatto (e di interesse, secondo Achille Bonito Oliva). A sancire l’unione ci ha pensato nel 1996 Germano Celant con il megaprogetto denominato “Il tempo e la moda” organizzato a Firenze con l’obiettivo di assegnare alla moda quel titolo nobiliare che gli avrebbe consentito l’ingresso ufficiale nel consesso delle arti. E ciò, aveva sentenziato Celant, in quanto «il colpo di forbice è simile al colpo di pennello, entrambi isolano con decisione assoluta una forma o una figurazione, marcano una superficie che genera una realtà». Che, più o meno, è come la pensava Oscar Wilde secondo cui «o si è un’opera d’arte o la si indossa». Passando attraverso i principali movimenti artistici del Novecento, la mostra era una carrellata sugli autori più in vista dell’espressività contemporanea che hanno interpretato l’abito come una seconda pelle, superficie cromatica e volumetrica sulla quale tessere l’opera. Non solo. Una delle sezioni del progetto, curata direttamente da Celant, si spingeva oltre, chiamando in causa moda e arte per una collaborazione sperimentale che vedeva coinvolte un gruppo di coppie stilista-artista (Gianni Versace-Roy Lichtenstein, Miuccia Prada-Damien Hirst, Karl Lagerfeld-Tony Cragg, per esempio), ciascuna autrice di un’opera a quattro mani.

L’evento fiorentino, tra appuntamenti mondani e qualche innocuo fuori programma a tempo determinato, aveva anche il non secondario compito di scuotere una città ingessata nella propria storia, puntando sul rapporto tra arte e moda, per riaffermare la propria identità culturale e ribadire nello stesso tempo il diritto di partecipare ai banchetti del presente.

Questa esposizione dedicata a “L’arte della moda. L’età dei sogni e delle rivoluzioni. 17891968” allestita a Forlì ai Musei San Domenico (fino al 2 luglio, catalogo Dario Cimorelli Editore), che interviene sullo stesso tema affrontato da Celant, non ha ambizioni del genere. Intendiamoci, non che gli organizzatori forlivesi non siano stati attenti e sensibili all’aspetto dell’audience, anzi («somiglia a un vero e proprio kolossal», hanno detto della mostra), ma l’argomento è stato trattato con enfatica problematicità senza calcare la mano sugli effetti speciali che non siano quelli legati all’imponente numero e alla qualità delle opere esposte provenienti da collezioni pubbliche e private, dai musei più prestigiosi del mondo e dalle più importanti case di moda.

La mostra, diretta da Gianfranco Brunelli e curata da Cristina Acidini, Enrico Colle, Fabiana Giacomotti e Fernando Mazzocca, attraverso trecento opere tra quadri, sculture, accessori, abiti d’epoca e contemporanei indaga, lungo un percorso cronologico e tematico (l’apertura è affidata all’allegoria dell’arte della tessitura del grande dipinto di Tintoretto Atena e Aracne), gli stili, i materiali, il sistema di comunicazione e di rappresentazione della moda dipinta, ritratta, scolpita, realizzata da grandi artisti e stilisti (tra i primi si incrociano, tra gli altri, Matisse, de Chirico, Picasso, Hirst, Fontana, Mondrian; tra i secondi si va da Armani a Ferragamo, da Dior a Prada, da Balenciaga a Gucci).

Ecco allora l’abito che modella, nasconde, dissimula e segna il corpo. L’abito come segno di potere, di ricchezza, di riconoscimento, di protesta. Come cifra distintiva di uno stato sociale o identificativa di una generazione. L’arte come opera e comportamento, come racconto e spirito del tempo. È il riflesso di un’epoca, infatti, quello evocato nella seconda metà del XVIII secolo dagli abiti riportati nei ritratti dipinti da George Romney e Joshua Reynolds che documentano il gusto e la predilezione per forme semplici e naturali espresse da una società aggiornata ed evoluta come quella inglese. I tessuti, le fogge, le pieghe diventano motivi dominanti di una pittura di luce, basata più sulle atmosfere e sul colore, che sul disegno, aprendo gli orizzonti della modernità. Così che la sobria praticità della moda inglese si diffonde in tutta Europa trasformandosi, anche per la nascita dei negozi, in oggetto di consumo sempre più diffuso.

La testimonianza di tali trasformazioni tra la fine dell’Ancien Régime, la Rivoluzione francese e gli anni dell’Impero, la ritroviamo nella produzione ritrattistica di Antoine-Jean Gros e Francois-Xavier Fabre che restituiscono il sapore di una società trasformata dalle ambizioni dei nuovi protagonisti che succedono a quell’aristocrazia che la Rivoluzione aveva fatto uscire di scena. E se poi gli anni del Romanticismo vedono come protagonisti della rappresentazione pittorica della moda, da una parte Francesco Hayez fino alla metà dell’Ottocento e in seguito, sul versante francese, James Tissot, che documentano l’evoluzione della figura femminile in un abbigliamento dipinto con straordinaria materialità e nitore, il Novecento è caratterizzato dalle Avanguardie, a partire dal 1905 con l’Espressionismo.

Agli artisti di quel movimento si ispirano stilisti come Paul Poiret che con le sue figure allungate, estenuate dai colori che appaiono abbacinanti e, in seguito, è quasi in parallelo con la nascita del Cubismo che cresce nella moda l’esigenza dell’impiego di forme geometriche, linee spezzate e lamellari. Nel clima di Picasso nasce Coco Chanel che riscrive da cima a fondo l’immagine della figura femminile con l’accuratezza matematica delle forme euclidee ed è a questa tendenza a geometrizzare l’abito che viene fatta risalire risalire ufficiosamente la nascita del Minimalismo in moda.

Negli anni Venti e Trenta è ancora più stringente il rapporto tra arte e moda. Dapprima ne è artefice la stilista Elsa Schiaparelli che stabilisce un vero e proprio sodalizio con alcuni maestri del Surrealismo ricavandone molti spunti di creatività. Con il Futurismo la moda viene ritenuta addirittura indispensabile perché tramite le sue fogge e i suoi colori può “propagare” un’idea così che Giacomo Balla parla di Vestito Antineutrale in una pubblicazione in cui detta alcune regole sull’abbigliamento futurista.

E mentre negli anni Quaranta e Cinquanta sono l’Informale e l’Espressionismo astratto a influenzare la moda “estrema” di Balenciaga e del primo Dior con la sua linea “a corolla”, gli anni successivi segnano prepotentemente l’entrata in scena della Pop art, che cerca l’incontro dell’arte con il contesto di massa, e del Made in Italy che lancia il Bel paese come la patria di riferimento del gusto e dello stile.

Il 'Cibo' di McCurry a Forlì. Ottanta scatti dal mondo ai Musei San Domenico dal 21 settembre

 © ANSA

ansa
FORLI' - Arriva in prima mondiale ai Musei San Domenico di Forlì, dal 21 settembre al 6 gennaio, la mostra 'Cibo' di Steve McCurry, un'esposizione inedita con 80 scatti del fotografo americano quattro volte vincitore del World Press Photo. Un racconto per immagini sul cibo come elemento universale, pur così diverso da Paese a Paese, ponte di conoscenza tra i popoli. Un giro del mondo sui modi di produrlo, trasformarlo e consumarlo, mettendo in evidenza il suo valore, l'attenzione al non spreco.
    Il progetto scenico si sviluppa in cinque sezioni che seguono il ciclo di vita del cibo: le foto, scattate tra America Latina, Asia ed Europa nella sua ultratrentennale carriera, sono accompagnate da strutture scenografiche e video per un'esperienza "immersiva dal punto di vista fisico ed emozionale". "Ogni fotografia di Steve McCurry - commenta la curatrice Monica Fantini - cerca l'universale nel particolare.
    E' paradigmatica di una persona o di un'intera comunità".