Restauri. Al via gli interventi sui mosaici della cupola del Battistero di Firenze
Le mostre di Domenica 5 Febbraio 2023, da Orazio Gentileschi a Quayola
Da Orazio Gentileschi a Quayola, fino alla 'protesta creativa' di quattro giovani artiste iraniane: sono le mostre di questa settimana,
BERGAMO - "Salto nel vuoto.
Arte al di là della materia" è allestita dal 3 febbraio al 28 maggio alla Gamec per esplorare il tema della smaterializzazione. Ultimo capitolo della Trilogia della materia, curata da Lorenzo Giusti e Domenico Quaranta, l'esposizione è divisa in tre sezioni tematiche - Vuoto, Flusso e Simulazione - e mette a confronto i lavori di alcuni grandi protagonisti e protagoniste della storia dell'arte del XX secolo e pionieri dell'arte digitale insieme ad autrici e autori delle generazioni più recenti.
BOLOGNA - Si intitola "Ways of seeing", la personale di Quayola in programma dal 3 febbraio al 31 maggio presso CUBO, il museo d'impresa del Gruppo Unipol, nella sede di Torre Unipol.
A cura di Federica Patti, la mostra propone 'Storms', una serie di video e stampe, tra cui sei inedite realizzate appositamente per l'occasione, in cui l'artista conduce la propria ricerca sulla tradizione della pittura di paesaggio, esplorandone la sostanza pittorica attraverso tecnologie avanzate. Le opere di quattro giovani artiste iraniane (Pegah Pasyar, Reyhaneh Alikhani, Golzar Sanganian e Khorshid Pouyan), formatesi all'Accademia delle Belle Arti di Bologna, compongono la mostra "Voci dall'abisso", dal 2 al 5 febbraio alla Galleria di Palazzo Fava - Palazzo delle Esposizioni. Concepita come gesto di ribellione creativa ai drammatici fatti accaduti negli ultimi mesi in Iran, la collettiva fa emergere le singole personalità delle artiste, declinate in lavori condotti con le più diverse forme, dalla pittura a olio alla scultura, dalla grafica alle installazioni, dal riuso dei materiali al recupero dell'antica tecnica di tessitura kilim.
MURANO (Ve) - Al Museo del Vetro di Murano fino al 7 maggio "Shattering Beauty", personale di Simon Berger curata da Sandrine Welte e Chiara Squarcina in collaborazione con la Fondazione Musei Civici di Venezia e Berengo Studio.
Attraverso una selezione di circa 20 opere, tutte inedite e realizzate con un approccio alternativo al ritratto in vetro (ossia frantumando il materiale, in un processo che Berger definisce "morfogenesi"), l'artista si concentra sull'esplorazione della fragilità della condizione umana.
ROMA - A Palazzo Barberini fino al 10 aprile "Orazio Gentileschi e l'immagine di san Francesco. La nascita del caravaggismo a Roma", a cura di Giuseppe Porzio e Yuri Primarosa. Nel percorso viene esposto per la prima volta un dipinto di Orazio Gentileschi raffigurante San Francesco in estasi, messo a confronto con tre opere conservate a Palazzo Barberini e con un quadro proveniente dal museo del Prado: il San Francesco in meditazione attribuito a Caravaggio, il San Francesco sorretto da un angelo dello stesso Gentileschi, il San Francesco in preghiera del Cigoli e il San Francesco sorretto da un angelo di Madrid, altro capolavoro della fase giovanile di Gentileschi.
All'Auditorium Conciliazione dal 6 al 21 febbraio "Donne di Roma. Mostra fotografica e documentale", ideata e organizzata dall'Associazione culturale Chelu e Mare: in un percorso cronologico che dall'antica Roma arriva ai giorni nostri, la mostra vuole raccontare le tante figure femminili che alla città eterna hanno dato un rilevante contributo storico, ripercorrendo le loro conquiste culturali, sociali, politiche ed economiche.
MILANO - "Duetto" è la doppia personale allestita dal 31 gennaio al 24 marzo negli spazi di Viasaterna che vede insieme l'opera radicale di Giuseppe Chiari (Firenze,1926-2007) e la pratica multidisciplinare di Luca Massaro (Reggio Emilia,1991). Nel percorso una selezione di opere su carta e collage realizzate da Chiari tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '90 e le "tele" metalliche di lineare purezza ed esuberanti sculture di Massaro tratte dal recente Dizionario Vol.1 (Art Paper Editions, 2023).
PALERMO - Fino al 4 marzo a Villa Zito "Cesare Viel. Corpi estranei/Toccare un tesoro", a cura di Elisa Fulco e Giulia Ingarao, ultima tappa del progetto Corpi estranei. Utilizzando la scrittura nei suoi lavori, rendendo ossia la parola di volta in volta immagine, walldrawing, manoscritto, scrittura su striscioni, voce e performance, l'artista entra in relazione con la collezione di Villa Zito, tra cortocircuiti, avvicinamenti e riconoscimenti.
ansa.it
La mostra a Verona. Dorazio, trame di colore come architetture
Piero Dorazio, “Balance and counterbalance”, 1965 – opera esposta nella mostra “La nuova pittura. Opere 1963-1968” a Verona
Scienza cromatica e gesto, tocco e segno che dissestano la geometria (ma non la regola) e rigenerano la memoria dell’arte, in una continuità di ricerca da “Forma 1” in poi, hanno sostanziato prima il lucido richiamo al senso delle avanguardie storiche, poi la vera e propria difesa dell’identità della pittura moderna e della sua autonomia. Parliamo dell’opera di Piero Dorazio (l’«architetto della cromia» secondo la definizione di Marcello Venturoli) la cui pittura va per cicli. Il naturalismo pittorico iniziale della fine degli anni Quaranta del secolo scorso – contrappuntato da opere neoplastiche monocromatiche e rilievi in legno dipinto e plexiglas – via via si frantuma sino quasi alla perdita dell’immagine per diventare, nel 1948, vero astrattismo: colore su colore, gradualità su registri azzurri, verdi, gialli, viola, linee in negativo. Nel 1953, in quello stesso clima in cui nascono i “buchi” di Fontana, le formulazioni di Dorazio spaziano da un rigoroso geometrismo a forme libere e immaginifiche fino a diventare trame e segnare uno dei periodi più pregnanti della carriera dell’artista. Le prime di queste risalgono al 1959. Sono in carboncino su carta dove è più immediato fissare un’idea, perentorie, nerissime su bianco, ma è il colore a prendere il sopravvento e, a partire dal 1963, la struttura reticolare delle trame cede il passo a un nuovo impianto compositivo orchestrato di volta in volta su registri lineari, su campiture a puzzle, su fiammate di colore, sul frammento, sulle compenetrazioni appuntite, sui ritmi ripetuti di segni sinuosi, su fasce che si intersecano. Inizia da qui, per indagare il successivo quinquennio, questa mostra veronese curata da Francesco Tedeschi che, grazie a una trentina di selezionatissime opere, si focalizza su quella che è stata definita la “nuova pittura” di Dorazio. È distribuita tra la Galleria d’Arte Moderna Achille Forti e la Galleria dello Scudo da dove parte il percorso espositivo con Passato e presente, olio su tela del 1963, in cui l’intreccio del segno è superato dalla stesura di fasce policrome a fitta sequenza verticale. E se ancora la struttura reticolare, costituita da lunghe linee sottili, permane in opere come My best (1964) e Percorso male inteso (1965), è evidente come in queste tele si assista a un diradarsi e a un disciplinarsi della trama e all’affiorare di una griglia regolare sovrimpressa ai tracciati diagonali. È ciò che testimoniano due opere entrambe del 1966 che rappresentano due omaggi ad artisti verso i quali Dorazio ha manifestato particolare interesse. Si tratta di Tranart (a Gino Severini) e Ottimismo-pessimismo (a Giacomo Balla) opere che, se da una parte risentono di suggestioni provenienti dalla pittura americana in auge in quegli anni con la quale Dorazio entra in contatto in seguito alla sua permanenza negli Usa dove la sua opera registra prestigiosi riscontri, dall’altra segnalano come la sua ricerca sia il frutto di profondi legami con la storia dell’arte nazionale. Alla Galleria Forti sono due grandi tele ad accogliere il visitatore, entrambe presentate (insieme ad altre che figurano in questa mostra “La nuova pittura. Opere 1963-1968”, fino al 30 aprile) nella sala personale dell’artista alla XXXIII edizione della Biennale di Venezia del 1966: Cercando la Magliana del 1964 e Balance and counterbalance del 1965, opere che segnalano una vocazione architettonica che porta a nuove invenzioni compositive e a una rottura dell’ordine. Ciò per ottenere un equilibrio dinamico e al contempo a rifuggire da ogni irrigidimento, come dimostra l’utilizzo della linea curva e la sua fluidità in opere quali Endless Federico (I) (per Federico Kiesler) del 1965, Tira e molla, del 1966 e Litania, del 1968. © RIPRODUZIONE RISERVATA Verona, Galleria d’Arte Moderna Achille Forti e Galleria dello Scudo Piero Dorazio
avvenire.it
La mostra a Bergamo. Cecco non è solo di Caravaggio
Francesco Boneri detto Cecco del Caravaggio, “Flautista”, 1615-1620. Oxford, Ashmolean Museum – opera esposta nella mostra all’Accademia Carrara di Bergamo
Cecco, o Checco come talvolta era chiamato, non è in verità soltanto il diminutivo di Francesco. In quel nomignolo, associato al nome di Caravaggio, si condensa una storia di mistero e di torbide passioni che lo stesso interessato non mancò di rendere palesi in certi suoi quadri, facendo come si dice oggi outing, termine usato dal suo maggior studioso e massimo esperto dei caravaggeschi, Gianni Papi, per sottolineare la franca irrequietezza del pittore. A dire il vero, il primo a farne oggetto di ritratti dalla chiara inclinazione erotica e omoerotica fu lo stesso Caravaggio, che lo ebbe come amico e collaboratore, in una storia che ha fondato, tra l’altro, il mito omosessuale del Merisi – su cui, per esempio, Giovanni Testori scommetteva senza remore –, ma la faccenda oltre a non essere chiarita va inquadrata in un clima storico, culturale e ambientale come quello romano, dove la “promiscuità” di comportamenti e di costumi mista a sofisticate allegorie venne indagata qualche anno fa in una mostra a Villa Medici intitolata ai “Bassifondi del barocco” dove si sollevarono questioni sociali e morali, ma ben poco quelle che segnano la vicenda e le dicerie su Cecco del Caravaggio. Resta il fatto che, come ricorda Gianni Papi, a metà Seicento, quando ormai si sono perdute le tracce di quel Francesco Boneri, poi soprannominato Cecco del Caravaggio, un viaggiatore inglese, tale Richard Symonds, ne scrive ricordando la fama di amante del Merisi (“That laid with him”, che giaceva con lui, oppure “his owne boy”, il suo ragazzo) in relazione al dipinto Amor vincitore di Caravaggio, che era nella collezione di Vincenzo Giustiniani e oggi si trova alla Gemäldegalerie di Berlino. Furono Herwarth Röttgen e lo stesso Papi a dedurre da queste e altre controprove che il quadro caravaggesco dall’eros più ostentato aveva avuto come modello Cecco. A Berlino l’esibizione del nudo di Amore ragazzino sorridente e ammiccante, aveva scatenato ancora nel 2014 una feroce polemica – che la “Berliner Zeitung” definì “postmodernismo iconoclasta” – fondata sul presupposto che rendendosi ammirabile e accattivante quel quadro trasformava lo spettatore in virtuale pedofilo. Erano anni, quelli, dove la caccia al pedofilo si accaniva sull’immaginario artistico colpendo fotografie come quelle che Balthus aveva scattato a una sua modella poco più che bambina, al punto da far saltare una esposizione che doveva metterne in scena ben duemila.
La mostra dedicata ora a Cecco del Caravaggio, evento temporaneo che tiene a battesimo, nel primo piano, la nuova organizzazione e l’ampliamento dell’Accademia Carrara a Bergamo, è la prima e unica antologica dedicata finora al pittore caravaggesco (fino al 4 giugno): raccoglie una ventina di dipinti, su un catalogo che, come ricorda Papi, ne conta se va bene meno di trenta (manca in mostra la Resurrezione oggi a Chicago, perché considerata troppo fragile, e poco altro). Papi corona con questa mostra trent’anni di ricerche. Ci sono artisti che diventano figure elettive a cui, in un certo senso, uno storico o un critico si votano per tutta la vita inseguendone le tracce fin nei più piccoli meandri. È come se lo storico cercasse il dna che gli consentirà di far risorgere un personaggio vissuto secoli fa, così da poterlo finalmente incontrare. Questa mostra più che scoprire il dna di Cecco del Caravaggio, insegue i “resti umani” che egli ha disperso là dove è stato: la data limite è il 30 giugno 1620, dopo la quale non si hanno più riscontri della sua presenza in qualche luogo, magari in Lombardia o a Bergamo – dove sarebbe nato, mentre fino a che Papi non ne ha documentato le tracce si pensava che fosse di origini nordiche, tant’è che Roberto Longhi lo definì «una delle più notevoli figure del caravaggismo nordico» attribuendogli il quadro su cui poi ha fondato una serie di altre attribuzioni, La cacciata dei mercanti dal tempio. Viceversa, in un primo momento, aveva assegnato uno dei quadri più “scandalosi” di Cecco, Amore al fonte, al fiammingo Louis Finson, e nel 1951 lo portò a Milano nella grande retrospettiva su Caravaggio. Papi sottolinea che questa anagrafe nordica sembrava possibile a Longhi perché non teneva conto della «clamorosa novità delle iconografie, l’aura misteriosa e anticonformista che così prepotentemente lo connota».
Vedremo fra poco che Amore al fonte è veramente un quadro scabroso e controverso. Ma a proposito delle allusioni del viaggiatore inglese a Cecco come “boy” di Caravaggio, alla luce del quadro Amor vincitore, è bene che si tenga a mente che il titolo riprende un verso della X Egloga di Virgilio che recita: “Amor vincit omnia” (Amore vince tutto), che ha una sfumatura ben diversa dal titolo che si è soliti trascrivere, e infatti il verso si conclude “et nos cedamus amori” (arrendiamoci anche noi all’amore). Nella Roma del tempo e con due figure “libertine” come quelle di Caravaggio e Cecco, dire che amore ha la meglio su tutto, da un lato può avere una sfumatura cattolica, e quindi prestarsi all’allegoria; dall’altro, qualcuno potrebbe obiettare che questo sia in contrasto con la sapienza e la forza dell’intelletto, e consenta dunque una fuga dalla morale nelle ragioni affettive. Fuor di metafora, Caravaggio dipinge Cecco come un ragazzino che, con quel sorriso accondiscendente, lo autorizza a farne il proprio amante sfidando l’autorità che riteneva certi comportamenti erotici come reati gravi e vizi perseguibili (il sesso orale, per esempio). La mostra che Papi ha composto, accostando a quelle del pittore alcune opere di altri artisti che, secondo lo studioso, hanno avuto con lui rapporti di ispirazione e di collaborazione o addirittura trovarono in Cecco il loro maestro – il grande caravaggesco francese Valentin de Boulogne –, resta però in gran parte una ricostruzione indiziaria: le opere esposte sono quasi tutte frutto di attribuzioni, ma le conferme nei documenti per ora latitano. Si tratta, insomma, di un catalogo fondato sull’occhio del conoscitore e sulle sue associazioni formali che confermano una sorta di “familiarità” fra dipinti riconducibili a una stessa mano. Non tutte le attribuzioni convincono, ma è così che si muove il conoscitore, e Papi ha lavorato pazientemente negli anni su intuizioni sostenibili alla prova dell’occhio.
Già trent’anni fa, lo studioso aveva colto le sembianze di Cecco in alcuni dipinti di Caravaggio: la Conversione di san Paolo (Odescalchi), il Sacrificio di Isacco (ora agli Uffizi) il David e Golia della Borghese e quello del Kunsthistorisches. Cecco, però, farebbe la sua prima apparizione nel Martirio di san Matteo della Contarelli: sarebbe il chierichetto urlante che fugge verso destra; nondimeno, questo è anche il quadro dove Caravaggio si è dipinto con aria perplessa, quasi fosse colto da un dubbio etico. Ma sono le numerose domande che lo storico si pone, nel saggio nel catalogo Skira, a proposito di Savoldo di cui sono esposte tre opere (Cecco lo vide prima di Caravaggio?); su Bartolomeo Manfredi, che si ritrae mesto accanto all’amico (un’ombra dettata dal ricordo funebre di Cecco?); sul soggiorno del pittore a Napoli (forse già quando vi era fuggito Caravaggio, dopo l’omicidio Tomassoni?); e ancora: su Agostino Tassi, l’influenza che Cecco ebbe su Pedro Núñez del Valle, il possibile riscontro del bergamasco Baschenis sugli strumenti musicali dipinti da Cecco; in generale, Papi s’interroga sull’importanza delle sue nature morte, che rivelano «una pittura così disperatamente votata all’iperrealismo». Un’ansia generata probabilmente dalla condizione omosessuale e dalla promiscuità esistenziale che fondano la fama di Cecco del Caravaggio, procurandogli una malinconia da emarginato: se è vero che i pittori lo chiamavano “Checco” o “Chechia” di Caravaggio, forse con tono dispregiativo, insinuando che fosse la “bardassa” del Merisi (del resto, quando si legge nei documenti di un “Francesco garzone” che abitava con Caravaggio in vicolo San Biagio nel 1605, forse s’intende qualcosa di più di un aiutante).
Sappiamo dai documenti che nella sua cerchia di amici e amiche Caravaggio era una sorta di “maschio alpha”: il Malvasia nel 1678 scrive a proposito di Leonello Spada: «Queste fur le cagioni per le quali poi così volentieri fu accolto e accarezzato dal Caravaggio, ch’ebbe a dire aver pur finalmente trovato un uomo secondo il cuor suo; non so se perché, buttadosegli sotto Leonello, non altro procurò che di compiacerlo in tutto, sino a farsi nudo e servigli di modello… » e via di questo tono. Non potendo essersi verificato l’incontro del Merisi con Spada, Gianni Papi ritiene che gli elementi documentari – fra cui l’affermazione secondo cui portò il suo modello a Napoli – corrispondano meglio alla figura di Cecco, e quindi che quello di Malvasia sia un equivoco. In ogni caso, le parole del Malvasia, dicono come Caravaggio si comportasse da maschio dominante con i suoi “ragazzi”, forse esprimendo anche una inclinazione sadica.
Possiamo pensare che Amore al fonte sia una risposta tardiva a quegli “abusi”. Per quanto Cecco fosse insofferente alle regole, disinibito e causa di inimicizie, secondo Papi egli fu «il più intellettuale fra gli artisti del secondo decennio»; e resta fedele al metodo caravaggesco di rendere tale e quale il modello che ha davanti. Forse è una conclusione un po’ generica, ma indubbiamente Cecco sposta il naturalismo caravaggesco verso un realismo più mentale. Concordo con Anne Marie Lecq che nel 1982 definì Amore al fonte «la pittura forse più impudica che l’epoca e l’ambiente abbiano prodotto»; d’altra parte lo studioso tedesco Julius Kliemann nel 1995 aveva tentato di leggere il quadro fuori dallo schema omoerotico, prevalente nella critica, vedendoci un’allegoria spirituale (del desiderio di Dio) rivolta a un pubblico ristretto di sapienti. Ma questo, secondo Fabrizio Rubini, renderebbe fallimentare il metodo di Caravaggio e Cecco, perché inadeguato a palati ipercolti. Troppo ambigua, sottolinea Rubini, la posa che Amore assume per abbeverarsi alla fonte, vista come immagine scabrosa. Certo i simboli sparsi ovunque sulla scena (Rubini nota che riprende la tradizione dei parergon) e la freccia che interseca il piano pittorico con l’illusione di entrare nello spazio reale, così il cartiglio bianco e senza scritte sopra la testa di Amore, questi simboli rimandano a pensieri non ancora svelati che innervano, da un’opera all’altra, questa mostra coraggiosa e importante.
avvenire.it