Novecento. Frugoni: fare gli italiani con la storia dell'arte

 

«Nell’autunno del ’44 mio padre insegnò a Brescia al liceo Calini ma mia madre ed io continuammo a rimanere a Solto ». Lo racconta Chiara Frugoni nelle prime righe dell’introduzione a una curiosa “cattedrale” tripartita secondo le arti classiche del Belpaese, eretta da Arsenio, suo padre, che sarà poi uno storico e insigne medievista, morto precocemente in un disastro automobilistico nel 1970, dove perì anche il figlio Giovanni. Solto, un paesino nei pressi del Lago d’Iseo, in provincia di Bergamo, dista un’ottantina di chilometri da Brescia: avevano casa lì i nonni di Chiara. Lei e la madre fin dall’estate del 1943 erano sfollate a causa della guerra e dei bombardamenti che si ripetevano. Finché le scuole rimasero chiuse anche Arsenio visse lì da sfollato, ma poi dovette cercare di guadagnare qualcosa per la sopravvivenza familiare, e la scuola fu una soluzione che incontrò anche le sue attitudini didattiche e il desiderio d’insegnare. All’epoca, il professor Frugoni faceva la spola da Solto a Brescia in bicicletta: aveva vari talenti, anche pratici, e uno spiccato senso dell’impegno civile che espresse sia nell’impegno antifascista sia in imprese educative: una di queste fu scrivere una “storia dell’arte italiana”, dall’antichità al Novecento, in vari cicli di conferenze ripartite fra Architettura, Scultura e Pittura: in tutto 31, che poi l’editrice La Scuola avrebbe pubblicato tra il 1946 e il ’47. Una tempestività emblematica quella che Frugoni persegue con questa opera in trentuno volumetti. Una sorta di “ricostruzione” dell’Italia ferita dalla guerra. Impresa che ha anche dell’incredibile se si pensa al clima di precarietà che dominava. Frugoni si basò principalmente sull’Enciclopedia Treccani, i volumi del “saper vedere” di Matteo Marangoni, i saggi di Piero Toesca e La storia dell’arte italiana di Guido E. Mottini. Morcelliana negli ultimi tre anni ha ripubblicato in tre tomi queste conferenze che per settant’anni erano state dimenticate. Invertendo l’ordine con cui vennero pensate, il primo volume uscito nel 2020 è quello sulla pittura, introdotto da Chiara Frugoni; nel 2021 è apparso quello sull’Architettura e, adesso, La storia della scultura d’Italia, con prefazione di Salvatore Settis (pagine 232, euro 35, come i precedenti, ricco d’illustrazioni). Chiara ricordò che queste conferenze furono scritte in «tempi brevi e frammentari». Le possibilità di fare, durante la guerra, erano ovviamente molto ridotte; a questo proposito, nel 2021 uscì dal Mulino un volume di Gianni Sofri dedicato all’“anno mancante” nella vita di Frugoni, proprio quel 1944 in cui scrisse anche le sue conferenze sull’arte. Dopo il terribile bombardamento di Brescia a luglio Frugoni lasciò Solto e raggiunse il Lago di Garda, dove si era organizzata la Repubblica Sociale Italiana, e rimase a lungo a Gargnano perché erano molto ricercate persone capaci di fare da interpreti tra alcuni ufficiali tedeschi e l’esercito del Duce. Uno di questi ufficiali, Hans Jandl, incaricato di vigilare su Mussolini, scelse Frugoni come suo interprete e insegnante di italiano. Fra i tedeschi la cosa non era piaciuta, ma Frugoni con la sua cultura seppe guadagnarsi la loro fiducia. Nel libro di Sofri sono ripercorsi gli interrogativi su che cosa trattenesse Frugoni a Gargnano oltre a insegnare l’italiano al tenente colonnello Jandl. L’alone di mistero ha fatto pensare anche a cose malevoli, ma Frugoni dimostrò sempre una specchiata convinzione antifascista. Forse, ecco una possibile risposta, fra le altre cose dedicò molto tempo alle conferenze che pubblicò a guerra finita. Frugoni non era uno storico dell’arte, le sue inclinazioni erano per la medievistica, ma «occupandosi di fonti scritte medievali, ebbe sempre un’attenzione per le immagini» nota la figlia, lei stessa storica e medievista scomparsa l’anno scorso; e a questo proposito aggiunge che per ognuna delle tre arti Arsenio consultò circa mille immagini. Non dovette essere facile, non soltanto perché occorreva sapere dove cercarle in un periodo storico dove tutto era molto complicato, ma ancor più occorreva stabilire un indice delle personalità creatrici, delle opere stesse (talvolta di autori anonimi), ed esprimere giudizi di valore, rimanendo una trattazione divulgativa. I principi estetici che segue Frugoni si rifanno chiaramente a Benedetto Croce: attenzione alle questioni di stile e alle personalità creatrici, la poesiva e l’espressione; ma con una maggiore attenzione al contesto sociale nel quale le opere videro la luce. Ciò che ne esce non è un vero manuale di storia dell’arte o – nota Chiara Frugoni – «una storia dell’arte raccontata alla Gombrich». Piuttosto, scrive la studiosa, «il romanzo della storia dell’arte». Si trattava, credo, di riaffermare i fondamenti umani e umanistici, classici, dell’identità nazionale, dopo la catastrofe. Sarei quindi propenso a definire questa storia narrata agli italiani “ancora da fare”, il “romanzo dell’Italia antica e futura attraverso la storia dell’arte”. Il curatore dell’impresa editoriale, Saverio Lomartire, nel volume sulla pittura nota che Frugoni esprime «la consapevolezza del valore di testimonianza storica, sociale e di pensiero rivestito da quanto prodotto dall’umanità nei secoli con i colori (e con i mattoni, le pietre, i marmi, i metalli)». Naturalmente, Frugoni, non essendo uno storico dell’arte, ha anche le carenze e i travisamenti, imputabili credo a gusto personale: come quando, a proposito della pittura di Filippo De Pisis, scrive che «è gustosa, fresca, leggiadra, ma è davvero inconsistente » o quando dichiara una palese antipatia per il futurismo e la metafisica. E che dire quando, terminando le conversazioni sull’architettura, nel Novecento cita Piacentini, ma nemmeno un cenno va a Terragni, morto nel 1943, dopo aver lasciato due capolavori come la Casa del Fascio e l’Asilo Sant’Elia a Como? E a Giovanni Michelucci, che aveva costruito la Stazione di Firenze. Opere, ben più importanti, per l’identità italiana proiettata nell’Europa modernista. Ma è vero che lo storico coglie un fatto che contrassegna la nostra indole attraverso l’architettura quando nota che gli italiani sono meno sensibili al paesaggio naturale, così come potrebbe esserlo un nordico, un tedesco o un inglese, perché «sono un popolo di architetti e costruttori» tanto che «hanno perfino costruito il loro paesaggio », vedi i colli toscani «ricreati come scenario architettonico». Un discorso che, ricorda Lomartire, cade mentre da poco erano state varate la legge 1 giugno 1939 sulla tutela delle cose di interesse artistico e storico e lquella del 29 giugno 1939 sulla Protezione delle bellezze naturali. Con questa coscienza Frugoni anticipa il grande dibattito sulle tutele: del paesaggio (contro la speculazione di costruttori senza scrupoli) e dei centri antichi. Sono dunque conferenze che denotano anche un impegno socio-politico per educare gli italiani al bello, al vero, alla libertà dopo la distruzione. Il fatto è che l’arte, come la cultura, non impediscono né guerre né totalitarismi. La funzione più utile della cultura è quella della ricostruzione dopo la distruzione, ridare le ragioni di una identità che combatta le future tentazioni violente e autoritarie, mentre oggi ci rendiamo conto che spesso la cultura è misero marketing del Grand tour. Introducendo il volume sulla scultura, l’ultimo edito da Morcelliana, Salvatore Settis si sofferma sulla pubblicazione, in appendice, di un testo breve che Frugoni dedicò nel 1967 a Warburg, in occasione della traduzione italiana per La Nuova Italia dei saggi riuniti nel volume La rinascita del paganesimo antico. Frugoni aveva capito ciò che spingeva Warburg verso l’arte: «mostrare come le esperienze interne ed esterne dell’uomo giungano ad esprimersi nelle forme che l’uomo stesso si crea; mostrare la funzione della creazione figurativa nella vita della civiltà e il rapporto variabile che esiste tra esperienza figurativa e linguaggio parlato». Settis loda Frugoni, però mette in guardia dal “circolo ermeneutico” che finisce per trovare soltanto ciò che già cercava: limite “deterministico” in cui incorre oggi l’iconologia. Si è finito per dir poco della scultura. Ancora Settis nella prefazione parla di metodo più che di singoli giudizi o scelte clamorose nella scultura: l’attenzione alle dinamiche formali, il rapporto fra imitazione ed espressione, che per la scultura medievale diventano precipue, prendono una china più personale con l’emergere di alcuni grandi nomi: da Antelami a Wiligelmo, a Nicola e Giovanni Pisano, seguendo una linea dove la partita fra arte e stile è sempre più legata alla rivelazione del genio senza negare il cromosoma italiano, quello più classico. Che non gli impedisce di demolire uno scultore come Giambologna, per la “superficiale piacevolezza” (già Marangoni aveva parlato per il Mercurio volante del Bargello di “figuretta fermacarte”); idem per il ridimensionamento di Francesco Mochi e per la critica al carraccismo dell’Algardi, mentre, dopo aver dedicato molte pagine a Michelangelo (ma troppo poche a Donatello), loda il valore coloristico della scultura ricca di sensi del Bernini, “marmi fatti carne” e la “grazia schietta” di Serpotta. In una linea peraltro all’epoca condivisa da molti (si pensi alla stroncatura di Longhi), ecco l’accusa rivolta a Canova di incomprensione del rapporto tra arte e realtà, quando nota che «si può creare uno stile sul vero, ma non si può infondere il vero in uno stile ». Da cui la ripresa del Thovez in L’illusione di un classico dove definì le danzatrici canoviane «magnifiche spoglie esanimi». Una critica che rivela l’impostazione fortemente etica e “ricostruttiva” del discorso storico di Frugoni.

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Napoli. Restaurata la facciata del Gesù Nuovo e il suo misterioso bugnato "a piramide"

È stato presentato oggi a Napoli il restauro della facciata della chiesa del Gesù Nuovo. Promosso dai Gesuiti (Provincia euro-mediterranea della Compagnia di Gesù), l'intervento restituisce un’opera iconica del tessuto partenopeo. Gli interventi hanno interessato il bugnato (unico esempio in città), gli elementi marmorei del fregio e dei finestroni. I lavori si sono resi necessari in seguito alla caduta di calcinacci e di una parte del finestrone principale, avvenuta il 15 dicembre 2017. Durati un anno e curati dalla Soprintendenza, hanno interessato un prospetto di dimensioni monumentali, lungo circa 56 metri e alto 31 metri. Nella chiesa del Gesù Nuovo è tra l'altro sepolto san Giuseppe Moscati.

I restauri hanno riscoperto le tonalità originarie del piperno con cui è realizzato il bugnato, che precede la chiesa stessa: «Da oggi – ha spiegato il teologo gesuita padre Jean-Paul Hernandez – può essere ammirato così come le potevano vedere i loro costruttori nel 1470. Infatti, all’origine, questa era la facciata del palazzo nobiliare che i principi Sanseverino di Salerno fecero costruire in un luogo di Napoli da dove potevano, a quei tempi, facilmente osservare il porto. In una lapide conservata sulla sinistra della facciata compare anche il nome dell’architetto: Novello di San Lucano. I Gesuiti hanno deciso di conservare il bugnato e la struttura, aggiungendo le parti in marmo bianco, che simboleggiano i due angeli che si trovavano all'interno del tempio di Gerusalemme. È come dire che chi entra in questa chiesa può fare un'esperienza simile a quella che si faceva nei racconti biblici».

La forma piramidale del bugnato e l'aspetto insolito della facciata hanno stimolato la fantasia della popolazione e la nascita di interpretazioni leggendarie. In particolare è stato pensato che la facciata fosse legata a un messaggio segreto che, secondo la leggenda partenopea, è "scritto" nei simboli misteriosi incisi in alcune delle pietre che lo compongono. «In realtà - precisa Hernandez - il bugnato è un modo simbolico di voler raccogliere tutta l'energia solare, come accade con le piramidi. Qualcuno ha pensato che qui avessimo una sorta di messaggio esoterico, ma molto probabilmente sono solo i segni degli scalpellini lasciati dalle diverse maestranze».

Franco Beneduce, vescovo ausiliare di Napoli, ha ribadito la «volontà della Compagnia di Gesù di recuperare un simbolo per la città e per la Chiesa tutta e di restituire bellezza ad un luogo in cui ci si prende cura del prossimo».

L'ingegnere Gianfrancesco Bidello, che ha curato il restauro, ha spiegato che «si tratta di un intervento di notevole difficoltà su una struttura sulla quale non si operava da circa 40 anni». Si è dovuto anche porre rimedio a interventi precedenti sul bugnato non eseguiti correttamente. «Abbiamo eliminato gli strati di lavorazione e di tinteggiatura - racconta Bidello - dove abbiamo trovato tracce di una resina acrilica, il paraloid, oltre a incrostazioni, dovute ad agenti atmosferici e al traffico». Oggi la piazza non è più accessibile alle auto.

avvenire.it

A Capodimonte con gli spagnoli torna pure Raffaello

 

NAPOLI - Per la prima volta, dopo 400 anni, torna a Napoli la Madonna del pesce di Raffaello, il dipinto che fu punto di riferimento per gli artisti del "Rinascimento Meridionale" e che fu trasferita dai governanti spagnoli e a Madrid intorno alla metà del Seicento. Occasione per rivedere l'opera, collocata nel suo "territorio" di origine, è la mostra "Gli spagnoli a Napoli.

Il Rinascimento meridionale" che verrà inaugurata lunedì al Museo e Real Bosco di Capodimonte grazie al progetto realizzato in partenariato con il museo del Prado. In cartellone fino al 25 giugno, il progetto espositivo curato da Riccardo Naldi, docente di Storia dell'arte moderna all'Università L'Orientale di Napoli e da Andrea Zezza, docente di Storia dell'arte moderna all'Università della Campania "Luigi Vanvitelli", ha già visto una prima versione in Spagna dove ha avuto un notevole successo di critica e di pubblico. La mostra è dedicata a uno dei momenti più fecondi e meno conosciuti della civiltà artistica napoletana: il trentennio all'inizio del sedicesimo secolo, un periodo che, sotto il profilo politico, vide l'estinguersi della dinastia aragonese, con il passaggio del Regno di Napoli sotto il dominio della Corona di Spagna. Sotto il profilo culturale segna invece il raggiungimento dell'apice della sua grande stagione umanistica: le novità artistiche elaborate in quegli anni da Leonardo, Michelangelo e Raffaello furono prontamente recepite e reinterpretate in modo originale in una Napoli ancora molto viva, per la quale la perdita della funzione di capitale autonoma non costituì un ostacolo allo sviluppo culturale, ma, al contrario, contribuì alla definizione di un nuovo ruolo di cinghia di trasmissione della cultura rinascimentale tra le due sponde del Mediterraneo. Una felice stagione di scambio culturale di cui la mostra mette nel giusto rilievo l'altissima qualità delle opere e il loro carattere cosmopolita, focalizzandosi sulla strettissima connessione tra pittura e scultura. Il confronto tra le cosiddette "arti sorelle" trovò infatti a Napoli un terreno particolarmente fertile e la mostra ne propone un'ampia selezione, proponendo i maggiori protagonisti, dai pittori Andrea da Salerno e Marco Cardisco, agli scultori Giovanni da Nola e Girolamo Santacroce. Se al Prado, nella mostra Otro Renacimiento, l'ispirazione era concentrata sulle forme e volumi dell'architettura napoletana, a Capodimonte, invece, il focus è proprio nel dialogo tra le opere pittoriche e quelle scultoree. Ma la differenza principale tra la mostra di Napoli rispetto a quella di Madrid è il forte legame con il territorio: molte delle opere degli artisti del periodo sono presenti nelle chiese cittadine (grazie ad un accordo con il Comune di Napoli sarà possibile visitare le testimonianze spagnole in alcune chiese della città), in particolare San Giovanni a Carbonara, San Domenico Maggiore, Santi Severino e Sossio e San Giacomo degli Spagnoli. Ed è proprio nella Basilica di San Domenico Maggiore che si percepisce il legame più forte tra la mostra e la città: la Madonna del pesce di Raffaello, esposta in sala Causa al Museo e Real Bosco di Capodimonte, era infatti stata realizzata per la Cappella della famiglia del Doce (o di Santa Rosa) proprio in San Domenico Maggiore.

ansa

Everywhere Everything domina gli Oscar con 7 premi


 ROMA, 13 MAR - EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE dei Daniels è il dominatore degli Oscar 2023 con 7 statuette tra cui miglior film, migliore attrice e migliori non protagonisti su 11 candidature.

E' un film di avventura, azione, fantascienza, dramma familiare con tematiche Lgbt, comedy e romance tutto insieme e con lo sfondo di grandissima attrazione del metaverso, con protagonista una donna cinese americana (Michelle Yeoh).

    L'opera di Daniel Kwan e Daniel Scheinert, noti collettivamente come i visionari Daniels, ossia la Hollywood piu' indipendente, tornerà in sala da domani, distribuito da I Wonder Pictures che vedendoci lunghissimo lo hanno preso in tempi non sospetti.
    Il secondo vincitore della serata al Dolby Theatre di Los Angeles è l'antibellico NIENTE DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE del tedesco Edward Berger, che esce dalla 95/ notte degli Oscar con 4 (RPT 4) statuette tra cui film internazionale e colonna sonora su 9 candidature. Il film è l'adattamento cinematografico dell'omonimo romanzo di Erich Maria Remarque ambientato durante la Prima Guerra mondiale. (ANSA).