L'addio a madre Yewubdar Guebrou, la suora “regina del pianoforte”

«La suora scalza che diventò la “regina del pianoforte” dell’Etiopia». Così, pochi giorni fa, la Bbc ha salutato Yewubdar Guèbrou, morta all’età di quasi cent’anni, dopo una vita per molti aspetti straordinaria. A cominciare dal nome di battesimo – in amarico (la lingua ufficiale dell’Etipia) “la più bella” - che Yewubdar usò fino alla sua professione religiosa, all’età di 21 anni.

Nata ad Addis Abeba nel 1923 da un’importante famiglia aristocratica - il padre era sindaco della città di Gondar - si avvicina prestissimo alla musica: da bambina viene mandata in un collegio svizzero con la sorella (prime ragazze etiopi inviate all’estero per studiare) e lì, all’età di otto anni, inizia a suonare il violino e il pianoforte. Fin da subito gli insegnanti si rendono conto di trovarsi davanti a un talento fuori dal comune.

La giovane pianista torna in patria nel 1933, ma sono anni bui per l’Etiopia, che di lì a pochi anni viene conquistata dalle truppe fasciste: arrestata, Yewubdar è prigioniera di guerra e viene deportata in Italia. Tre membri della sua famiglia vengono uccisi; scioccata, la ragazza in seguito comporrà una canzone in loro memoria. A guerra finita, Yewubdar può finalmente riprendere gli studi musicali. Stavolta è al Cairo, sotto lo sguardo vigile di un famoso violinista polacco. Torna in Etiopia in compagnia dal suo insegnante, incontra personalmente l’imperatore Hailé Selassié, alla cui presenza si esibirà più volte e inizia a lavorare al ministero degli Affari esteri, prima segretaria donna. Si profila persino la possibilità di continuare gli studi alla Royal Academy of Music di Londra, ma il progetto non va in porto. La ragazza, comunque, presenta tutte le caratteristiche per diventare un personaggio di successo: donna di grande fascino, guida l’auto, va a cavallo, prende parte agli eventi mondani dell’alta società e, abituata com’è a viaggiare fin da piccolina, di destreggia bene con le lingue (arriverà a parlarne fluentemente ben sette). «I ritratti fotografici di quel periodo – ha scritto sul Guardian una critica musicale - mostrano una splendida giovane donna con un sorriso ironico e un audace senso della moda».

Sorprendendo tutti, però, a soli 19 anni, la giovane Yewubdar, animata da forte fede cristiana, che professa nella Chiesa ortodossa etiope, fugge da Addis Abeba per entrare nel monastero di Guishen Maryam. Vi rimane due anni, fino a quando indossa il velo e cambia il nome in Tsegué-Maryam. La vita nel monastero, però, si rivela troppo austera e dura per lei, che torna dai genitori e, successivamente, riprende a scrivere composizioni per violino, pianoforte e organo.

Negli anni Sessanta Tsegué-Maryam (vero nome di Yewudbar) va a vivere nella provincia di Gondar per studiare le opere di San Yared, mistico del VI secolo al quale la Chiesa ortodossa etiope fa risalire l’origine della propria tradizione musicale sacra. Con l’appoggio dell’Imperatore, nel 1967 incide la sua prima registrazione, in Germania; i proventi vengono devoluti a un orfanotrofio per bambini di famiglie colpite dalla guerra, così come avverrà per le successive incisioni.

Nel 1984 la suora-musicista lascia il suo Paese, in balia del regime marxista di Mengistu, e mette radici in un monastero nei pressi di Gerusalemme, dove si dedica al pianoforte per varie ore al giorno. La fama e il successo a livello internazionale arrivano quando la religiosa ha ormai varcato la soglia degli 80 anni. Nell’arco della sua vita suor Guèbrou ha composto oltre 150 brani musicali, incidendo vari album. Sottolinea la Bbc, che le aveva dedicato un documentario nel 2017: «I suoi brani si trovano ovunque: alcuni di essi vengono suonati durante i periodi di lutto nazionale, mentre altri fanno da sfondo musicale per audiolibri e programmi radiofonici. Ma molte persone non sanno che si tratta di sue composizioni».

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Fonte: Newsletter 

Domenica 18 giugno 2023 il Premio Strega torna per la quinta volta nella sua storia a Verbania

Il premio letterario più prestigioso d’Italia ha scelto di nuovo le sponde del Lago Maggiore. La serata si svolgerà al Teatro Il Maggiore con la presentazione dei cinque finalisti e a seguire Strega Party nella location panoramica sul lago. A puntare sulla cultura per qualificare la città sono anche in questo caso coinvolti in un  lavoro di squadra Comune, Biblioteca Ceretti, Libreria Alpe Colle,  affiancati dalla Fondazione Il Maggiore e dalla ospitalità offerta dal >>> Grand Hotel Majestic. Unire le forze per migliorare la nostra città, per creare momenti utili prima di tutto per costruire senso di cittadinanza, relazioni e coscienza civile – commenta il sindaco Silvia Marchionini -. Ogni passo dipende da noi, dalla nostra quotidianità, dalle nostre scelte. Ed è fondamentale ricordare il lavoro preziosissimo della Fondazione Bellonci di Roma e della Ditta Strega Alberti di Benevento che dal 2018 hanno scelto e voluto fortemente portare il Premio Strega a Verbania, una decisione coraggiosa, un buon modo per creare rete tra centro e provincia, per un’Italia capace di stupire in ogni suo angolo creando lavoro e cultura attraverso i libri.

Fonte: verbaniamilleventi.org

 - Segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone e Albana Ruci turismoculturale@yahoo.it

Nuovi investimenti sulla cultura per una società «neo-umanista»


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Italia ha  bisogno oggi più che mai di potersi riconoscere in un patrimonio storico e artistico senza pari, rilanciando i consumi culturali

Nel serrato dibattito degli ultimi mesi sulle politiche pubbliche, reso più vivace dalla nascita di un governo di destracentro con ampia maggioranza parlamentare e una premier donna, si deve registrare una Grande Assente: la Cultura. Per la verità, in un’epoca di emergenze continue e gravi che fanno parlare ormai abitualmente di “permacrisi” (ovvero di crisi permanente), era piuttosto prevedibile. Di fronte alla confluenza di gravi problematiche di salute pubblica, economiche, belliche, dunque attinenti la sopravvivenza stessa e i bisogni primari, la cultura passa inevitabilmente in secondo piano. “Di cultura non si vive”: molte persone impegnate nei diversi settori culturali amaramente sottoscriverebbero tale affermazione; “la cultura non si mangia”, aggiungerebbero con un pizzico di cinismo beffardo altri, non troppo sensibili al fascino dell’arte, della musica, della letteratura.

A questo punto sarebbe facile per contrappasso sposare una posizione vivacemente antitetica, che andava assai di moda sul finire degli anni Ottanta del Novecento: “di cultura si vive, eccome”, se solo sapessimo mettere a frutto i giacimenti culturali di un Paese che – questo lo slogan di allora ripetuto allo sfinimento – è «un museo a cielo aperto ». I meno giovani ricorderanno questo tipo di argomentazione, che in alcuni casi suonava quasi come un invito alla riscossa per tutti gli operatori dei diversi settori culturali: musei, siti archeologici, enti lirici, teatri. Sembrava fosse stato scoperto il petrolio italiano fatto di colonne, mosaici e statue, accatastati senza rispetto in armadi polverosi nei sotterranei dei grandi musei. Per un po' si continuò a pensare che bastasse tirarli fuori, sottrarli alla occhiuta, gelosa ed escludente custodia degli storici dell’arte, mapparli, aggiungervi un po’ di cosiddetti “servizi aggiuntivi” (caffetterie, angoli riposo, ristorantini) e la nostra economia sarebbe volata.

Naturalmente così non è andata. Il grande lancio della commercializzazione della cultura naufragò presto sulle prime inefficienze e contraddizioni. I mecenati (grandi imprese in cerca di lustro) snobbavano tlo spettacolo dal vivo (troppo effimero, transeunte, per lucidare un blasone-brand) a favore del restauro di un bene archeologico, immutabile, immobile da secoli, e dunque stabile ritorno pubblicitario per l’azienda che ne avesse finanziato il recupero. Lo strumento della fiscalità non riuscì a rafforzare più di tanto l’azione dei mecenati, e anche quella si rivelò una bolla. Altre fragilità e disorganizzazioni fecero il resto: come quando per bando pubblico si affidarono a diverse aziende informatiche grandi progetti di mappatura dei beni esistenti, che non riuscivano però a dialogare attraverso le banche dati approntate dato che i linguaggi e i programmi utilizzati erano differenti…

La cultura non mise le ali all’economia né in quegli anni Ottanta né nei decenni che seguirono, anche perché i problemi erano e sono molto più complessi; a cominciare da strade e infrastrutture mancanti. Paradigmatico il caso della Sicilia, che gronda siti archeologici di bellezza incomparabile ma ancora oggi ha un sistema di collegamenti e di viabilità che esclude ogni possibilità di accesso concreto a molte di tali archeo-meraviglie. E tuttavia forse non fu questa la sola debolezza di un rilancio che voleva tradurre in oro luccicante e sonante i vecchi gioielli di famiglia. Ai nostri giorni le cose non vanno molto meglio, se nei programmi elettorali delle recenti elezioni politiche la cultura ha ottenuto poca o nessuna attenzione, con affermazioni e propositi generici, senza indicazioni chiare delle risorse finanziarie per i diversi interventi, con la solita oscillazione tra quanti vogliono più ruolo per il pubblico e quanti preferirebbero mettere tutto in mano ai privati. È forse giunto, perciò, il momento propizio per parlare di politiche culturali con un occhio più evoluto, che del passato sappia fare tesoro aggiungendo però una consapevolezza nuova, figlia dei nostri tempi così liminali, così disorientanti, che ci stanno traghettando in un altro mondo, in un’altra epoca, in cui senza bussole sarà certamente più facile perdersi.

Finora nel nostro Paese il mondo delle politiche culturali nei diversi settori è stato affrontato facendo riferimento ad alcuni paradigmi concettuali. Anzitutto la conservazione, tipica dell’approccio degli storici dell’arte, interessata soprattutto alla preservazione del bene. Successivamente, come accennato sopra, si è affermata l’idea della promozione-valorizzazione-commercializzazione, figlia in parte di un democratico desiderio di portare la cultura alle masse, in parte del più concreto desiderio di mettere a frutto capitelli e dipinti. Dal punto di vista strettamente politico è prevalso troppo spesso, invece, un paradigma elettoral-assistenzialistico: non a caso gli enti lirici hanno sempre assorbito buona parte del Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus) potendo vantare numerosi addetti (maestranze, elettricisti, costumisti ecc.) e dunque un buon bacino di consenso potenziale.

Ma oggi molte cose sono cambiate, anche nella percezione delle istituzioni della cultura, per lo meno in ambito internazionale. I libri, il teatro, le mostre entrano in maniera più o meno codificata e a buon diritto nel paniere che definisce il benessere dei diversi Paesi. O, quantomeno, si riscontra che i Paesi che risultano in cima alle classifiche della felicità attribuiscono ai consumi culturali un grande posto nel modo di occupare il cosiddetto tempo libero (concetto anche questo in via di ridefinizione). Pensiamo alla Finlandia che da anni è in testa alla classifica della felicità dei Paesi («Sustaineble Development Solution Network», World Happiness Report 2022) e che si basa su uno stile di vita che potremmo definire da “giovane colto” (muoviti, studia, leggi, vivi la cultura, vivi la natura, ama, condividi, ricerca) anche per i pensionati, che trovano occasioni culturali in situazioni di prossimità domestica. Quanto ai giovani veri e propri, hanno facilmente a disposizione in piccoli centri distribuiti territorialmente il necessario per produrre le loro intuizioni musicali, registrarle e metterle in rete, in modo da avere occasioni concrete di farsi conoscere. Purtroppo l’Italia non è neanche sulla scia di questo modo di vivere “giovanile e colto”. Sempre nello stesso Rapporto, l’Italia perde ulteriori postazioni e passa dal 25° al 31° posto.

Nonostante la ritrovata normalità e l’accelerazione dell’estate 2022 nella fruizione di eventi e spettacoli dal vivo, i consumi culturali sono ancora lontani dai livelli pre-Covid e risalgono lentamente. L’indice realizzato da Impresa Cultura Italia-Confcommercio e Swg ha raggiunto nei primi 9 mesi del 2022 i 68 punti (+9 sul 2021 e +12 sul 2020), distante però più di 30 punti dal valore di riferimento del 2019. Valori di riferimento che non erano certo stellari. Dalla crisi di antica data del comparto culturale, accentuata oggi da un’emergenzialità globale, è possibile però, per dirla con il sociologo Mauro Magatti, trarre una lezione generativa, che non resti impantanata nelle contraddizioni della politica culturale nel nostro Paese, ma da esse tragga una provocazione e uno stimolo potente a ripensarsi alla luce del cambiamento d’epoca in una nuova centralità. Il mondo della cultura nei suoi diversi comparti non ha mai avuto, come in questi tempi di mutazione velocissima, di fronte a sé una sfida più entusiasmante, più nobile e fondativa.

Oggi, come ha argomentato Stefano Zamagni su “Avvenire” del 13 gennaio 2023, uno dei problemi sociali più importanti che emergono all’orizzonte è fornire una risposta solida alla posizione transumanista, sostenuta dai colossi dell’high tech, che si propone non tanto il potenziamento ma il superamento di ciò che è umano nell’uomo. Il progetto che si può contrapporre con forza a questa tesi è quello neoumanista, sostenuto anche dalla Chiesa, la cui culla è proprio l’Europa. Un neo-umanesimo che nella libera espressione creativa da una parte e nel nutrimento, nella fruizione culturale dall’altra trova la sua espressione più vera. Un progetto che ricordi all’Uomo, che si è perso e non sa più chi egli sia, che non è fatto solo di materia e conoscenza razionale (su queste basi l’intelligenza artificiale sta dilagando in modo anche inquietante e potrebbe essere assai competitiva in poco tempo) ma di emozioni, sentimenti, motivazioni, valori, creatività, intuizioni, etica, responsabilità, dubbi, ripensamenti, e tanto altro: il “codice dell’anima”, come avrebbe detto Hillmann. Il talento indomabile di poeti, scrittori, pittori, musicisti interpreta nelle loro anime all’eterna ricerca del Bello e del Vero il mistero insondabile dell’umano e della sua perenne domanda di senso. A una distruttiva, robotica barbarie transumanista può essere argine roccioso e inespugnabile la loro umanità caparbia, intensa e inquieta.

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