L’ultimo avvistamento, all’inizio di aprile, è stato di un pastore a Campea, frazione del Comune di Miane in provincia di Treviso. Negli stessi giorni altri esemplari sono stati avvistati in Valbormida, sull’Appennino Savonese, in Liguria. E questi sono soltanto gli ultimi episodi di un fenomeno che, per gli esperti che lo stanno studiando da tempo, è in fase di consolidamento ed espansione. Insomma, non ci sono più dubbi: il lupo è ritornato in pianta stabile sulle Alpi, mentre dall’Appennino non se n’era mai andato. Il più recente censimento dei capi (il primo in assoluto a livello alpino), effettuato nell’inverno 2014-2015 nell’ambito del progetto Life Wolfalps – piano da sei milioni di euro, cofinanziato dall’Unione Europea – ha evidenziato che sulle Alpi vivono stabilmente 23 branchi per circa 150 esemplari complessivamente.
Nelle sole valli del Piemonte è stata stimata la presenza di 21 branchi e quattro coppie riproduttive, mentre un branco e una coppia sono stati avvistati in Valle d’Aosta e un altro branco si aggira in Lessinia, tra le province di Verona e Trento. Un’altra coppia vive in Friuli, tre individui solitari sono stabili nell’area tra Trentino, Alto Adige e Lombardia, dove sono stati effettuati anche avvistamenti sporadici. Comprendendo anche l’Appennino, al 2014 era stata verificata dal Congresso italiano di Teriologia (la parte della zoologia che studia la biologia dei mammi-feri) una presenza di 773 individui in 20 aree analizzate, mentre la presenza stimata si avvicinava ai 1.900 lupi sull’intero territorio nazionale.
Come ricorda l’antropologo Annibale Salsa, già presidente nazionale del Club alpino italiano, il ritorno del lupo sulle Alpi avviene a circa novant’anni dalla sua scomparsa. L’ultimo esemplare, infatti, era stato abbattuto nel 1925 in Val Corsaglia, nel territorio delle Alpi Liguri-Piemontesi. «Sulle Alpi – scrive Salsa sul portale dell’Accademia della montagna del Trentino – il controllo del territorio risulta più capillare rispetto a quello dell’Appennino, dove invece prevale l’insediamento accorpato che favorisce la presenza di vasti spazi selvatici. Ciò spiega la ragione per cui, lungo la dorsale appenninica, il lupo non si è mai estinto e ha continuato a scorrazzare dalla Calabria fino al crinale tosco-emilianoromagnolo come massima espansione verso Nord». Più su il lupo non si spingeva, perché, sottolinea Salsa, «fino agli anni Cinquanta del Novecento le Alpi erano intensamente abitate».
È con lo spopolamento delle “terre alte”, a partire dal boom economico degli anni Sessanta, quando la gran parte della popolazione contadina si è riversata nelle città per cercare lavoro nelle fabbriche, che si ricreano le condizioni per la vita del lupo sulle Alpi. Oltre allo spopolamento, un secondo fattore determinante, ricorda l’antropologo genovese, sono state le «politiche di ripopolamento delle aree protette mediante immissioni di ungulati, che hanno consentito ai lupi di superare la barriera bioecologica degli Appennini». Il ritorno del lupo ha però provocato importanti problemi di convivenza con l’uomo e le sue attività in montagna, soprattutto legate alla pastorizia e all’allevamento del bestiame.
Predazioni sempre più frequenti hanno causato ingenti danni economici e anche la legittima preoccupazione delle popolazioni. L’ultimo episodio riportato dalle cronache è avvenuto a metà aprile a Roccalbegna, in provincia di Grosseto, dove un branco di quattro lupi ha attaccato un gregge, custodito da una donna pastore che non ha potuto fare altro se non assistere impotente all’uccisione di alcuni capi. «Due di loro correvano a monte e uno aveva in bocca una pecora – ha raccontato la donna –. Un altro correva dietro a un’altra pecora. Mi sono messa a urlare forte, ma nessuno mi sentiva». Ancora più duro il commento di Mariano Allocco di Prazzo in Valle Maira (Cuneo), allevatore di cavalli e contadino, oltre che restauratore di vecchi ruderi e scrittore. «La questione del lupo attiene alla libertà dell’uomo», dice Mariano, che si oppone alla «visione romantica» del lupo e per questo ha riunito pastori e allevatori e abitanti della Valle in un’associazione per sensibilizzare l’opinione pubblica sui problemi causati dal ritorno del grande predatore.
Così scrive Allocco: «Parliamoci chiaro: la presunzione della convivenza possibile tra predatore e animali in alpeggio è un assunto ideologico. In Val Maira l’alpeggio ovino ha chiuso e tra breve andrà ridiscusso quello brado di bovini ed equini e l’alpeggio così come lo si è gestito per secoli non sarà più possibile». Certamente, la soluzione non può essere la caccia indiscriminata, il bracconaggio o, peggio, la dispersione di bocconi avvelenati, che risultano mortali non soltanto per il lupo, ma per tutta la fauna selvatica della montagna e pericolosi anche per l’uomo.
A questo riguardo, il progetto Life Wolfalps prevede «il monitoraggio della popolazione di lupo dell’arco alpino e l’attivazione di misure di prevenzione degli attacchi sugli animali domestici». Inoltre, sono previste azioni specifiche per contrastare il bracconaggio e strategie di controllo dell’interazione tra lupo e cane. Anche il Wwf ha raccolto oltre 140mila firme a sostegno di una petizione per vietare gli abbattimenti autorizzati, previsti invece dal nuovo Piano per la conservazione e gestione del lupo in Italia, del ministero dell’Ambiente, che ne consente fino a sessanta all’anno. «La sfida di oggi – conclude Salsa – consiste nel capire se il modello gestionale futuro dell’ambiente montano debba ispirarsi alla scelta bipolare “et-et” (convivenza possibile uomo-predatore) o a quella “aut-aut” (o l’uomo o il predatore). Mettiamoci quindi al lavoro con buon senso, abbandonando le tifoserie opposte, per guardare in faccia alla realtà».
Avvenire
segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone
Eremite, storie di donne nel deserto
Si chiamavano Macrina, Paola, Sabiniana, Teodora, Olimpia, Eugenia, Marcella, Vitalina, e molte altre ancora. Il loro numero era cospicuo: la testimonianza di Palladio, autore del IV secolo della Storia Nausicaa,indica in addirittura 3000 il loro numero. Solo nel monastero egiziano di Tabennisi se ne contavano ben 400 coabitanti insieme. Sono le madri del deserto. La versione 'rosa' del più celebre e famoso movimento monastico iniziato da Antonio (250-356), egiziano, che si stabilì non lontano dal Sinai.
Un fenomeno poco conosciuto quello delle donne che lasciarono tutto per cercare Dio nella solitudine di un deserto. Un’esperienza che, purtroppo, nel corso degli anni venne messa tra parentesi anche nel mondo cristiano, come avvenne per altre esperienze religiose femminili. E che invece possiede una sua peculiarità feconda anche per l’oggi, come testimonia Gabriele Ziegler nel suo recente testo Madri del deserto. Eremite del primo Cristianesimo (Libreria editrice vaticana, pagine 160, euro 12,00).
Sono molte le notizie che Ziegler mette in evidenza nella sua ricerca. Anzitutto rintraccia gli elementi caratteristici e plausibilmente unitari di queste donne emerite: tra queste la capacità, pur vivendo un’esperienza di isolamento, di essere solidali nella loro ricerca ascetica di Dio: «Le madri del deserto non erano combattenti solitarie, al contrario erano in rapporto con le sorelle e si consigliavano con loro». Schiettezza e perspicacia nei rapporti con i pari di sesso maschile caratterizzavano queste figure femminili, che potremmo definire virili se non fosse che tale termine le incapsulerebbe ancora in cliché tipici di una visione maschile. Ne è comunque un esempio questo passo tratto dalle testimonianze su Sarrha, donna che, si legge nella raccolta di vite femminili Meterikon, «visse nella lussuria per 15 anni», in seguito eremita sul Nilo per 60 anni: «Secondo natura sono donna, ma non lo sono nei pensieri», disse in un confronto con due uomini. Un modo, questo, per affermare la parità di valore intellettuale rispetto ai padri.
Il noto monaco e scrittore Anselm Grün segnala nella sua prefazione come l’esperienza delle eremite abbia costituito una rottura (in meglio) nel mondo antico in tema di parità di genere: «Rispetto ai filosofi greci, che disconoscevano alle donne la capacità di filosofare, i padri della Chiesa e i primi monaci riconoscono nelle donne la stessa energia necessaria per l’ascesi».
Altro elemento unificante di tale esperienza e- ra la qualifica che veniva assegnata a queste donne: chi sceglieva l’eremitaggio veniva chiamata 'amma', ovvero «una donna saggia che possa accompagnare le altre nel percorso di vita. Le madri del deserto divennero qualcosa come levatrici spirituali che aiutarono altre a maturare nell’anima e a fare il loro cammino di vita», scrive Ziegler. Un esempio di tale statura umana e spirituale la troviamo in Olimpia: da giovane fidanzata con Nebridius, tesoriere dell’imperatore Teodosio, venne ordinata diaconessa a nemmeno 40 anni. Fu discepola di Giovanni Crisostomo e mantenne con lui numerosi scambi epistolari.
Si diceva prima di alcuni tratti di queste donne intrisi di modernità. Tra questi spicca l’elemento di una sessualità riconciliata. Lo testimonia ad esempio la vicenda di Paolo, il primissimo eremita, impiantatosi sul monte Gherit vicino al Mar Rosso, vissuto tra il 228 e il 341: quando rimase paralizzato, venne curato e assistito solo da donne. «In questo modo – scrive Ziegler – chiarisce che la piena castità non comporta il tentativo di isolarsi da ogni tipo di sessualità». L’autrice annota come «le madri del deserto non ammisero che una donna fosse ritenuta a priori una tentatrice, come Eva. Sostenute dalla loro esperienza e dal confronto con donne provate dal deserto, esse dimostrarono che quella funesta identificazione non è vera». E anche l’astinenza sessuale non era considerata un assoluto imprescindibile, «qualsiasi forma di ascesi non ha valore in sé: il parametro per una vita che sia sostenibile e che ci renda sopportabili per gli altri è quello dell’amore».
Sempre sull’esperienze del deserto e della vita dei padri è da segnalare un altro libro molto recente, curato dallo scrittore Ermanno Cavazzoni (dal suo Il poema dei lunatici Federico Fellini ricavò il film La voce della luna): Gli eremiti del deserto (Quodlibet, pagine 144, euro 14,00), conduce il lettore, soprattutto quello postsecolare, ovvero colui che guarda con disincanto al mondo, a riscoprire la capacità mistica di quegli uomini che abbandonarono il mondo per cercare Dio in solitaria. Anche qui i numeri ci parlano di un popolo: solo nel deserto etiope se ne contavano 600, mentre 5000 erano quelli stimati nella regione di Alessandria d’Egitto.
I padri del deserto divennero in tal modo presenze magnetiche per il popolo (Ilarione ad esempio godeva di una fama in tutto l’Oriente al punto che «non riusciva a restare nascosto, troppi lo conoscevano per sentito dire o di persona ») in termini di aiuti, miracoli e capacità di diventare ponti con il divino. Con una caratteristica di preciso 'anti-carrierismo' ecclesiastico che ha dei tratti davvero curiosi e interessanti. Ammonio, quando lo volevano fare vescovo della città, prese un paio di forbici e si tagliò un orecchio: «Vedete che non posso esser vescovo, perché la legge vieta di fare sacerdote chi è senza un orecchio ». Ma la gente tornò alla carica e lui arrivò a dire che si sarebbe anche tagliato la lingua se avessero provato a farlo salire alla dignità episcopale.
Anche quando si parla di padri si scovano elementi di grande modernità: leggendo episodi della vita di Antonio, si scopre che essi consideravano le tentazioni di carattere sessuale come le meno pericolose, mentre il tarlo della superbia era il pericolo da cui l’anima maggiormente deve guardarsi.
avvenire
Un fenomeno poco conosciuto quello delle donne che lasciarono tutto per cercare Dio nella solitudine di un deserto. Un’esperienza che, purtroppo, nel corso degli anni venne messa tra parentesi anche nel mondo cristiano, come avvenne per altre esperienze religiose femminili. E che invece possiede una sua peculiarità feconda anche per l’oggi, come testimonia Gabriele Ziegler nel suo recente testo Madri del deserto. Eremite del primo Cristianesimo (Libreria editrice vaticana, pagine 160, euro 12,00).
Sono molte le notizie che Ziegler mette in evidenza nella sua ricerca. Anzitutto rintraccia gli elementi caratteristici e plausibilmente unitari di queste donne emerite: tra queste la capacità, pur vivendo un’esperienza di isolamento, di essere solidali nella loro ricerca ascetica di Dio: «Le madri del deserto non erano combattenti solitarie, al contrario erano in rapporto con le sorelle e si consigliavano con loro». Schiettezza e perspicacia nei rapporti con i pari di sesso maschile caratterizzavano queste figure femminili, che potremmo definire virili se non fosse che tale termine le incapsulerebbe ancora in cliché tipici di una visione maschile. Ne è comunque un esempio questo passo tratto dalle testimonianze su Sarrha, donna che, si legge nella raccolta di vite femminili Meterikon, «visse nella lussuria per 15 anni», in seguito eremita sul Nilo per 60 anni: «Secondo natura sono donna, ma non lo sono nei pensieri», disse in un confronto con due uomini. Un modo, questo, per affermare la parità di valore intellettuale rispetto ai padri.
Il noto monaco e scrittore Anselm Grün segnala nella sua prefazione come l’esperienza delle eremite abbia costituito una rottura (in meglio) nel mondo antico in tema di parità di genere: «Rispetto ai filosofi greci, che disconoscevano alle donne la capacità di filosofare, i padri della Chiesa e i primi monaci riconoscono nelle donne la stessa energia necessaria per l’ascesi».
Altro elemento unificante di tale esperienza e- ra la qualifica che veniva assegnata a queste donne: chi sceglieva l’eremitaggio veniva chiamata 'amma', ovvero «una donna saggia che possa accompagnare le altre nel percorso di vita. Le madri del deserto divennero qualcosa come levatrici spirituali che aiutarono altre a maturare nell’anima e a fare il loro cammino di vita», scrive Ziegler. Un esempio di tale statura umana e spirituale la troviamo in Olimpia: da giovane fidanzata con Nebridius, tesoriere dell’imperatore Teodosio, venne ordinata diaconessa a nemmeno 40 anni. Fu discepola di Giovanni Crisostomo e mantenne con lui numerosi scambi epistolari.
Si diceva prima di alcuni tratti di queste donne intrisi di modernità. Tra questi spicca l’elemento di una sessualità riconciliata. Lo testimonia ad esempio la vicenda di Paolo, il primissimo eremita, impiantatosi sul monte Gherit vicino al Mar Rosso, vissuto tra il 228 e il 341: quando rimase paralizzato, venne curato e assistito solo da donne. «In questo modo – scrive Ziegler – chiarisce che la piena castità non comporta il tentativo di isolarsi da ogni tipo di sessualità». L’autrice annota come «le madri del deserto non ammisero che una donna fosse ritenuta a priori una tentatrice, come Eva. Sostenute dalla loro esperienza e dal confronto con donne provate dal deserto, esse dimostrarono che quella funesta identificazione non è vera». E anche l’astinenza sessuale non era considerata un assoluto imprescindibile, «qualsiasi forma di ascesi non ha valore in sé: il parametro per una vita che sia sostenibile e che ci renda sopportabili per gli altri è quello dell’amore».
Sempre sull’esperienze del deserto e della vita dei padri è da segnalare un altro libro molto recente, curato dallo scrittore Ermanno Cavazzoni (dal suo Il poema dei lunatici Federico Fellini ricavò il film La voce della luna): Gli eremiti del deserto (Quodlibet, pagine 144, euro 14,00), conduce il lettore, soprattutto quello postsecolare, ovvero colui che guarda con disincanto al mondo, a riscoprire la capacità mistica di quegli uomini che abbandonarono il mondo per cercare Dio in solitaria. Anche qui i numeri ci parlano di un popolo: solo nel deserto etiope se ne contavano 600, mentre 5000 erano quelli stimati nella regione di Alessandria d’Egitto.
I padri del deserto divennero in tal modo presenze magnetiche per il popolo (Ilarione ad esempio godeva di una fama in tutto l’Oriente al punto che «non riusciva a restare nascosto, troppi lo conoscevano per sentito dire o di persona ») in termini di aiuti, miracoli e capacità di diventare ponti con il divino. Con una caratteristica di preciso 'anti-carrierismo' ecclesiastico che ha dei tratti davvero curiosi e interessanti. Ammonio, quando lo volevano fare vescovo della città, prese un paio di forbici e si tagliò un orecchio: «Vedete che non posso esser vescovo, perché la legge vieta di fare sacerdote chi è senza un orecchio ». Ma la gente tornò alla carica e lui arrivò a dire che si sarebbe anche tagliato la lingua se avessero provato a farlo salire alla dignità episcopale.
Anche quando si parla di padri si scovano elementi di grande modernità: leggendo episodi della vita di Antonio, si scopre che essi consideravano le tentazioni di carattere sessuale come le meno pericolose, mentre il tarlo della superbia era il pericolo da cui l’anima maggiormente deve guardarsi.
avvenire
Turismo sessuale e sfruttamento in crescita
Vent’anni di impegno sembrano persi sul fronte della lotta all’abuso dei minori nel turismo globale e a confermarlo è uno studio, il maggiore finora sull’argomento, diffuso nei giorni scorsi sotto il patronato Onu da Ecpat International, organizzazione specializzata nel contrasto alla pedofilia che ha sede nella capitale thailandese Bangkok. Quella dello sfruttamento sessuale di bambini da parte di turisti e viaggiatori è una problematica in crescita nonostante l’impegno di organismi internazionali, gruppi locali e governi. A rafforzarla una serie di circostanze, in parte legate al recente sviluppo socio-economico di diverse aree, in parte alle caratteristiche locali dei paesi dove lo sfruttamento è più radicato. Con un contributo in negativo della criminalità informatica. Oltre 70 iniziative di tutela dei minori e studiosi si sono associati per fornire nel Global Study on Sexual Exploitation of Children in Travel and Tourism (Studio globale sullo sfruttamento sessuale dei bambini nei viaggi e nel turismo) l’immagine precisa e scioccante della problematica «da cui non è immune alcuna area del pianeta».
«Con questo testo abbiamo ora a disposizione la maggior banca dati disponibile sull’argomento e il risultato principale è che, nonostante 20 anni di duro lavoro, lo sfruttamento è cresciuto a una velocità superiore ai tentativi di fermarlo», ricorda Dorothy Rozga, direttore esecutivo di Ecpat (End Child Prostitution, Child Pornography and Trafficking of Children for Sexual Purposes), che ha coordinato il rapporto. «Con un’evoluzione – precisa – nella tipologia di chi abusa. Oggi chi sfrutta sessualmente i minori durante viaggi o soggiorni di varia durata e scopo non sono più tanto maschi bianchi, occidentali, benestanti e di media età, ma individui che provengono da ogni settore sociale e fascia d’età; non sempre pedofili conclamati, ma individui per cui l’abuso è solo occasionale, opportunista». Contribuiscono a questa nuova situazione principalmente due fattori: la relativa economicità dei viaggi e le nuove tecnologie. Queste ultime che supportano insieme la conoscenza e condivisione delle destinazioni più opportune e condizioni di maggiore anonimità.
«Un elemento che li accomuna – ricorda Dorothy Rozga – è la ridotta possibilità per chi abusa di essere arrestato, condannato e punito. Non a caso i colpevoli di reati sessuali preferiscono paesi con legislazioni approssimative e scarso impegno nella loro applicazione. Paesi dove più concreto è il senso di impunità». «Ricercare natura e obiettivi di questi cambiamenti – avverte il rapporto – è urgente». In Medio Oriente e Africa settentrionale gli autori citano come elementi che favoriscono lo sfruttamento i conflitti in corso, la condizione subordinata della donna in molte culture; anche tradizioni come il 'matrimonio temporaneo' che offrono la possibilità di abusi senza formalmente infrangere la legge religiosa. Paesi poveri dell’America Latina e dell’Asia meridionale che già hanno una pessima reputazione, vedono un ulteriore sviluppo del turismo straniero ma anche interno. Insomma, una situazione in evoluzione che «rende difficile tracciare l’origine di chi abusa e la loro destinazione – dice lo studio – e la distinzione tra paesi di origine e di destinazione va sfumando». L’Europa, un tempo nota per essere fonte principale del turismo pedofilo, sta emergendo ora come destinazione, soprattutto per quanto riguarda alcune nazioni centrali e orientali del continente che mancano di una legislazione adeguata a tutela dei minori.
Come ricordato da Kirsten Sandberg, a capo del Comitato per i diritti dei bambini dell’Ufficio dell’Onu per i Diritti umani, l’esplosiva crescita dei viaggi nell’ultimo ventennio è stato un incentivo alla sfruttamento, con oltre 1,1 miliardi di turisti nel 2014 contro i 527 milioni del 1995. «Paesi che vanno sperimentando ora un flusso di visitatori mirato allo sfruttamento sessuale, come Moldavia, Portogallo e Ucraina, vedono il turismo come un settore con fantastiche potenzialità economiche – sottolinea Mark Capaldi, ricercatore-capo di Ecpat –. Tuttavia è molto difficile modificare la cattiva reputazione di una paese che venga individuato come ospitale per il turismo sessuale e pedofilo». L’esempio della Thailandia è illuminante. Non solo resta la difficoltà di inquadrare il problema all’interno e di comprendere come Ong e governo possano contrastare sfruttamento e abusi, ma ogni tentativo di limitare il problema porta a una diffusione in paesi limitrofi. Come dimostrano i casi di Laos, Cambogia e Vietnam, che vanno emergendo come paesi meta di turismo pedofilo.
Ovviamente, turismo sessuale, prostituzione minorile e traffico di esseri umani sono sovente connessi. Un altro caso-limite è quello filippino, con 100mila bambini stimati dall’Unicef che ogni anno si aggiungono alla disponibilità di questo particolare 'mercato', vittime anche di corruzione e malaffare che incentivano la prostituzione nell’incapacità delle autorità di garantire diverse prospettive di vita, ma anche legalità e protezione. Il Sud-Est asiatico, che oltre alle Filippine include anche Thailandia, Indonesia e Malaysia è hub globale di questa forma di sfruttamento e chiamata in causa è anche una 'industria' locale tradizionalmente rilevante. Dal rapporto emergono altri dati significativi, come quello che occorre guardare oltre gli stereotipi. Porre l’enfasi infatti solo sui turisti occidentali attivi sessualmente in località finora note per essere loro aree di azione, ad esempio, può celare altri rischi. «Molti indizi indicano che gli uomini di provenienza asiatica sono più interessati di altri ad abusare di bambini, cercando ove possibile la verginità», indica ancora lo studio di Ecpat, e «le nazionalità di chi abusa tendono sempre più a rispecchiare la consistenza dei flussi turistici provenienti da Giappone, Cina popolare, Taiwan, Singapore Malaysia, Hong Kong, Corea del Sud. Con ancora una presenza consistente di australiani, statunitensi, britannici e altre nazionalità europee».
In questo la Thailandia, definita 'calamita globale' di turismo sessuale, ora con il 70 per cento di turisti di origine asiatica, guida una doppia tendenza. La prima, la diversificazione delle località di maggiore consistenza del fenomeno, dalle 'tradizionali' Bangkok e Pattaya a altre, come la settentrionale Chiang Mai e la meridionale Hat Yai: una che accoglie soprattutto visitatori malesi e singaporeani, l’altra seconda aperta all’afflusso di cinesi. Una 'decentralizzazione' problematica: «Le Ong locali – segnala il rapporto Ecpat – suggeriscono che mentre è ancora possibile individuare minori vittime di sfruttamento sessuale a Bangkok, questi sono molto meno visibili e più a rischio in località meno battute. Occorre anche guardare oltre lo scopo dello studio e ricordare, come fa Ecpat, che la maggior parte degli abusi sui minori, ha radici nell’abito familiare, di vicinato, incentivati o comunque poco sanzionati dalle legislazioni e dalle tradizioni locali. Questo spiega anche perché per la maggior parte non vengono denunciati e le vittime subiscono pressioni per non denunciare o vengono tacitate da vergogna e discredito, colpevolizzate per avere subìto. Per questo spesso costrette a cercare un destino diverso, lontano da casa, nei luoghi della prostituzione locale o del turismo sessuale.
avvenire
Rio2016 Olimpiadi Brasile la torcia pronta per attraversare tutti gli stati per viaggi turismo
Tra le prime tappe dell’itinerario, la capitale Brasilia, Caldas Novas e Chapada dos Guimarães.
fonte: gist.it
Prima di accendere la fiamma durante la cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici 2016, il 5 agosto, la torcia olimpica attraverserà 335 città appartenenti a tutti gli Stati del Brasile. Il viaggio è iniziato il 21 aprile scorso a Olympia, in Grecia, luogo in cui sono nate le Olimpiadi. Dopo un breve itinerario attraverso il territorio greco, e in particolare ad Atene, la torcia raggiungerà la capitale del Brasile, Brasilia, il 3 maggio.
La prima parte del lungo itinerario vedrà protagonista l’area Centro-Occidentale del Paese, seguita da Sud-Est, Nord-Est, Nord e Sud. Nel corso della staffetta la torcia verrà portata da circa 12.000 tedofori e percorrerà 10.000 miglia. Il simbolo olimpico attraverserà 83 comuni scelti come “città celebranti” tra cui le 27 capitali degli Stati brasiliani e il Distretto Federale.
Brasilia: Scoprire la bellezza di una città pianificata
Brasilia, meta di studio degli architetti e appassionati di design di tutto il mondo, è un vero e proprio museo a cielo aperto. Le linee sinuose di Oscar Niemeyer e il sorprendente impianto urbanistico firmato da Lúcio Costa sono presenti in tutti i suoi monumenti, edifici pubblici, parchi e anche nel paesaggio della capitale del Brasile.
Si tratta principalmente di una destinazione per il turismo culturale, ma la città vanta anche una vocazione sempre più forte per i settori business e tempo libero, e offre la possibilità di praticare ecoturismo e turismo d’avventura spostandosi solamente di pochi km dal centro urbano.
Brasilia è una città pianificata e ospita attrazioni turistiche di forte richiamo come la Esplanada dos Ministérios, la più ampia area di edifici pubblici della capitale, la Praça dos Três Poderes, il Congresso Nazionale, il Palácio do Planalto, sede della Presidenza della Repubblica, la Cattedrale e il Palazzo Alvorada. Per il tempo libero invece spiccano il Parque da Cidade, il Lago Paranoá con i sui locali e ristoranti lungo la riva, e il Pontão do Lago Sul. Anche l’Ermida Dom Bosco è un luogo ideale per godersi la natura, in particolare al tramonto.
Il Ministero del Turismo ha investito circa 23,8 milioni di Reias in infrastrutture turistiche e lavora costantemente per rendere la capitale un importante centro richiamo nazionale ed internazionale. L’ultimo intervento, che ha avuto grande impatto in occasione della Coppa del Mondo, ha riguardato segnaletica turistica in tre differenti lingue presso le principali attrazioni turistiche. Un’altra opera di particolare importanza è stata la ristrutturazione del Centro de Convenções Ulysses Guimarães, che ha reso Brasila una tra le sedi principali per assistere a eventi e spettacoli.
Da Brasilia, la torcia proseguirà verso Anapolis, Goiania e Caldas Novas, situate nello stato di Goiás.
Caldas Novas – la culla delle sorgenti di acqua calda in Brasile
Le acque calde di Caldas Novas rendono la città tra le le più popolari destinazioni turistiche dello Stato di Goiás. Caldas Novas ospita il più grande complesso di acque termali del pianeta, con un fiume, piscine e fonti d’acqua riscaldate naturalmente, arricchite dalla presenza di una spiaggia artificiale.
La città offre grandi attrattive agli appassionati di danza e musica. Le feste si svolgono in varie strutture della città, che si accende una gioiosa atmosfera appena cala la sera. Bar, ristoranti e locali ospitano abitualmente esibizioni di musica dal vivo e offrono l’ottima cucina locale a base di pesce e frutta. Il peixe na telha, specialità locale, viene servito nella maggior parte dei ristoranti.
La città ospita 100.000 strutture alberghiere, è raggiungibile con voli regolari e riceve 3 milioni di turisti ogni anno.
Ecoturismo – I migliori percorsi per ammirare la natura
La steffetta della torcia olimpica attraverso l’area Centro-occidentale del Paese toccherà anche destinazioni davvero speciali per l’ecoturismo.
Nello stato del Mato Grosso, il celebre simbolo dell’evento sportivo più atteso del mondo toccherà quattro destinazioni: Várzea Grande, Chapada dos Guimarães, Nobres e la capitale, Cuiabá. I turisti presenti al passaggio della torcia potranno ammirare le bellezze naturali dello Stato brasiliano sede di tre dei cinque biomi del Brasile: Cerrado, Pantanal e Amazzonia.
Tra le immense risorse naturali del Mato Grosso, una riserva ambientale custodisce il maggiore tra gli altopiani del Brasile: il Parco Nazionale Chapada dos Guimarães, un insieme di meraviglie paesaggistiche dove contemplare le innumerevoli specie di flora e fauna del Cerrado.
Il parco fa parte del bacino del Alto Paraguai, dove si origina il fiume Cuiabá, uno dei principali affluenti del Pantanal, altra imperdibile attrazione dello Stato. La capitale Cuiabá è una delle principali porte di accesso al Pantanal, considerato il primo sito al mondo per ricchezza di risorse naturali.
Chapada dos Guimarães
Situato a 35 km da Cuiabá, il Parque da Chapada è sede di un paesaggio naturale incredibile che attira turisti nazionali e internazionali. Chi visita questa destinazione può ammirare le incredibili vette e le valli della regione. Secondo la Secretária de Estado e Desenvolvimento l’area ospita 487 cascate distribuite in un’area disseminata di siti archeologici e paleontologici.
Nel Mato Grosso do Sul, lo Stato confinante, la torcia attraverserà otto città. Tra queste, la capitale Campo Grande. Gli amanti della natura potranno approfittare della vicinanza di Bonito, a 250 km dalla capitale, per ammirare da un’imbarcazione l’incontro delle acque del Rio Sucuri con il Rio Formoso. Si può vedere una grande varietà di pesci colorati grazie alla trasparenza delle acque dal fiume Sucuri, davvero incredibile.
Bonito è un luogo imperdibile per chi ama il contatto con la natura. Qui si possono praticare immersioni, discesa in corda doppia, equitazione, passeggiate, ma anche ammirare splendide cascate e assaporare la cucina regionale, per cui viene utlizzato generalmente il forno a legna.
Vengono organizzati safari di osservazione della fauna selvatica, passeggiate a cavallo immersi nella vegetazione lussureggiante, gite in canoa al tramonto, escursioni nella foresta alla ricerca di un contatto ancora più stretto con la natura.
Gli alberghi nella zona offrono pacchetti di 3-5 giorni che solitamente includono una guida per le escursioni, pasti e in alcuni casi anche il trasferimento dall’aeroporto alla struttura.
Vino Cantine aperte in Trentino Alto Adige
Sabato 28 e domenica 29 maggio torna l’appuntamento “Cantine aperte” con eventi, degustazioni e visite alle aziende vinicole e ai vigneti. In tutta Italia si aprono al pubblico le porte delle più prestigiose cantine e delle aziende produttrici che aderiscono al turismo enologico, in grado di abbinare il viaggio e le visite alla conoscenza del territorio attraverso il vino. Nella regione del Trentino Alto Adige, che ha una lunga tradizione enologica, sono coinvolte nell’evento numerose cantine storiche, oltre a due distillerie e ad un frantoio, che si potranno visitare salendo a bordo dell’Enobus, un autobus gratuito in funzione dalle 10 alle 18 tra cantine e masi. Oltre alle visite e alle degustazioni, molte aziende propongono anche eventi legati al vino, spettacoli, corsi e appuntamenti ludici.
Tra le cantine collegate con l’Enobus ci sono Endrizzi, casa vitivinicola dal 1885 a san Michele all’Adige, in provincia di Trento, dove alle 11.30 c’è una degustazione guidata dei vini più premiati della cantina e, all’ora di pranzo, una gustosa proposta gastronomica. Per i visitatori sono stati allestiti mercatini con specialità alimentari trentine, laboratori per bambini e animazioni con spettacoli. Il costo della visita è di 10 euro a persona. La cantina La Vis, a Lavis, propone di conoscere l’azienda Cembra, cantina di montagna di Cembra Lisignago, e il maso Franch, dove si degustano per 8 euro vini dei produttori dell’associazione “Strada del Vino e dei Sapori del Trentino”. Si visitano la cantina e il vigneto e si degustano le eccellenze enogastronomiche anche nel maso Poli, sempre a Lavis, che a fine giornata propone un lungo aperitivo musicale. Il costo, in questo caso, è di 10 euro.
L’elenco delle cantine è davvero lungo e le proposte sono davvero allettanti; tra queste ci sono la Cantina Roverè della Luna Aichholz, a Roverè della Luna, sempre in provincia di Trento, che apre le sue porte per degustare i vini migliori, dal nuovo Vervè Trentodoc Brut Millesimato 2012 al Traminer Aromatico Doc Trentino 2015 e al Lagrein Doc Trentino Vigna Rigli 2013. Sono previste anche visite guidate alla scoperta dei vitigni più rappresentativi della cantina e del territorio. Il costo della visita varia dai 5 ai 10 euro. La più alta tra le aziende trentine, Arunda in provincia di Bolzano, organizza visite e degustazioni in abbinamento agli speck altoatesini; anche la Cantina Mori Colli Zugna apre al pubblico con una degustazione di vini e di prodotti gastronomici dei soci della “Strada del Vino e dei Sapori del Trentino”, e con una mostra d’arte allestita presso l’enoteca. Il maso Toresella di Cavit, a Sarche di Calavino, in provincia di Trento, oltre alle degustazioni permette di assistere allo spettacolo teatrale gratuito Genesi di un primato. Alle Cantine Mezzacorona Rotari ci sono molti spettacoli ed attività ludiche per i bambini e degustazioni e visite alle cantine per i genitori al costo di 5 euro. Per le visite alle cantine Ferrari di Trento è necessaria la prenotazione, che prevede la visita al vigneto Alto Margon e alla villa Margon e, in cantina, di assistere al rito del sabrage, il colpo di sciabola alle bottiglie Maximum Brut. Il costo è di 15 euro.
La manifestazione “Cantine aperte” permette anche di visitare la distilleria Marzadro, a Nogaredo, con degustazioni della grappa Anfora e di una selezione di tre riserve invecchiate in botti, grappe abbinate al cioccolato italiano Domori per un costo di 5 euro. L’altra distilleria è Bertagnolli con una visita guidata gratuita e una degustazione organizzata dall’azienda agricola Mas dela Fam di Trento. Borgo dei Posseri, in località Ala, propone invece una degustazione gratuita seguita da un percorso multisensoriale che porterà gli ospiti all’interno di alcuni gazebo immersi nelle vigne. Infine, c’è la visita al frantoio Bertamini, ad Arco, per scoprire le caratteristiche organolettiche dell’olio del Garda.
Per informazioni: www.mtvtrentinoaltoadige.it
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segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone - Turismo Culturale
segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone - Turismo Culturale
Viandanza, viaggiare a piedi per conoscersi
E' dedicato a tutti coloro che hanno avuto il coraggio o l'incoscienza di scegliere il cammino come altro modo di stare al mondo, sposando la filosofia della condivisione, della gratuità, dell'apertura all'incontro: Viandanza, il libro di Luigi Nacci edito da Laterza, è un inno alla gioia di scoprirsi pronti a un'esistenza semplice e piena di poetiche meraviglie grazie ai piedi e alla loro forza di portarci ovunque la mente e il cuore scelgano di andare.
La via Francigena o il cammino per Santiago sono molto più che semplici strade che ogni anno migliaia di persone percorrono: quelle strade rappresentano vie maestre per conoscere se stessi, prima ancora che il mondo, un "luogo" infinito di ricerca per guardarsi dentro (guardando anche il fuori che ci circonda) con altri occhi. Occhi nuovi, più luminosi, che non sono ansiosi di trovare la meta, ma solo di esplorare e vivere il viaggio in una autentica "viandanza" (termine che lo stesso autore ha inventato). Il punto infatti non è semplicemente camminare tanto per fare un passo dopo l'altro, ma predisporsi a una rivoluzione interiore.
"Dentro ognuno di noi c'è Abele. La nostra parte nomade, il deserto in cui abbiamo vagato e che poi, divenuti stanziali, abbiamo rinnegato. E' il baratro sul quale non vogliamo affacciarci", scrive Nacci. Ecco perché per viaggiare ci vuole coraggio. Non capita spesso infatti di riuscire a perdere le proprie certezze, di preferire la fatica al posto alle comodità per godersi poi il gusto della scoperta, di prendersi il giusto tempo per sentirsi vivi, assaporando con lentezza ogni emozione. Se l'obiettivo è costruire sogni con la mente e con gli occhi, allora neppure la lingua ha più importanza: viandante diventa sinonimo di camminatore, pellegrino, nomade, transeunte, anche migrante perché no. Ciò che conta è vivere storie antiche con la consapevolezza del "qui e ora", e non avere paura del caos o del fallimento, ma stringere in mano la certezza di riuscire a rialzarsi.
Scritto con un linguaggio evocativo che introduce alla particolare condizione emotiva del viaggio, il libro sollecita continuamente il lettore attraverso domande antiche che rimandano alla condizione dell'uomo, alla sua fragilità, al suo desiderio di trovare il proprio posto nel mondo. Sullo sfondo di splendidi paesaggi e strade che mai trovano una fine, c'è la poesia che prende per mano il viandante: Nacci con la sua Viandanza fa viaggiare e riflettere, portandoci alla scoperta di ciò che siamo stati e che forse, un giorno, potremmo diventare.
LUIGI NACCI, VIANDANZA. Il cammino come educazione sentimentale (Editori Laterza, pp.142, 14 Euro).
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