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Turismo Rio2016 Olimpiadi, può essere la chiave per il rilancio del Brasile?

Una capitale amministrativa, Brasilia, un cuore turistico, Rio de Janeiro, e un fulcro finanziario, San Paolo: sono i tre volti – ma ce ne sarebbero molti altri – del Brasile, lo stato più grande e popoloso dell'America Latina con i suoi 8,5 milioni di chilometri quadrati di superficie, più o meno come l'Europa. Un Paese dalle molte anime, visitato ogni anno da milioni di persone (6,4 nel 2014, l’anno dei Mondiali, il 10,6% in più rispetto all’anno precedente e numeri non molto inferiori nel 2015) e in un momento di crisi fortissima come quello che sta attraversando il Paese, proprio il turismo, con il suo indotto passato da 3,9 miliardi di dollari nel 2005 ai circa 8,5 miliardi dell’anno scorso, può essere il volano per il rilancio. Stando ai dati del World Travel Turism & Council, nel 2014 il contributo diretto di viaggi e turismo all'economia del Paese è stato pari al 3,5% del Pil, cifra salita nel 2015 e che da qui al 2025, secondo le stime, crescerà ulteriormente al 3,7% del Pil. Ancora superiore il contributo complessivo, attualmente pari al 9,6% del Pil e atteso in rialzo al 10,2% entro il 2025. Quest'anno un contributo potrà arrivare dai Giochi Olimpici, che si terranno a Rio de Janeiro ad agosto. Stando ai dati dell’Ufficio brasiliano per il Turismo, per le Olimpiadi sono stati investiti circa 11 miliardi di dollari (il 57% dal settore privato e la parte restante da quello pubblico) e sono attese circa 500.000 persone, che avrebbero potuto essere di più,se non fosse stato per l'allarme generato dalla diffusione del virus Zika. Chi vive a San Paolo o a Rio racconta che molti turisti si sono fatti scoraggiare e che i Giochi avrebbero potuto portare molte più persone in Brasile, perché il problema c’è, ma la percezione che se ne ha all'estero è molto peggiore della sua reale entità. "Non è un problema così grande come viene dipinto, il panico non aiuta, basta prendere le giuste precauzioni", spiega Carlos Jereissati Filho, amministratore delegato di Iguatemi Group, la divisione che si occupa della gestione di shopping mall e che fa parte di Jereissati Group, colosso brasiliano con attività nei settori del real estate commerciale, delle materie prime e delle telecomunicazioni. Visitando le città più grandi la sensazione che si ha è che il Paese voglia andare avanti nonostante la crisi. È il caso di San Paolo, cuore pulsante della finanza brasiliana: le strade sono sempre trafficate, le vie principali, come la celeberrima Avenida Paulista, dello shopping, anche di lusso, come il quartiere Jardin, e quelle dove si trovano le principali banche e istituti finanziari, come l'Avenida Brigadeiro Faria Lima, sono affollate di persone che corrono al lavoro, passeggiano, entrano ed escono dai negozi, si soffermano nei numerosi ristoranti. "San Paolo è una città che vive molto la sera, ci sono tantissimi locali e ristoranti, di giorno la gente lavora tantissimo, poi ama uscire, anche perché il clima non è mai eccessivamente freddo neppure durante l'inverno", racconta Carlos Jereissati Filho. A Rio, città dal sapore completamente differente, le scene si ripropongono analoghe. Sono persone che abitano nelle metropoli, ma ci sono anche moltissimi turisti (per fare un esempio, l’anno scorso a San Paolo l’anno scorso i visitatori stranieri sono stati oltre 2,2 milioni). Anche i visitatori brasiliani sono in aumento: "Con la crisi, i brasiliani viaggiano meno all'estero, quindi riscoprono anche il loro Paese. Il Brasile è del resto enorme, per volare da nord a sud occorrono più di otto ore", racconta ancora Carlos Jereissati Filho.
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50 anni di carriera In 50mila a San Siro per l'ultima notte dei Pooh

Lacrime e sorrisi, fuoco e fiamme, effetti speciali ipertecnologici e ballo del mattone, sinfonie progressive e pop da hit parade. E 50mila persone sugli spalti di San Siro a cantare a squarciagola per 3 ore filate, da "Piccola Kety" a "Chi fermerà la musica". Chi poteva farlo, se non i Pooh, che hanno deciso di fermarsi dopo 50 anni di carriera? Non prima, però, di regalarsi un ultimo tour di quelli che sanno fare loro, mastodontico, spettacolare, popolare e ricco di cuore. 

Sarebbe semplicistico definire un trionfo la prima tappa del loro "Reunion - L'ultima notte insieme" venerdì sera a Milano (sabato si replica) che vede i Pooh per la prima volta in 5: Roby Facchinetti, Dodi Battaglia e Red Canzian hanno recuperato dopo 6 anni il batterista Stevano D'Orazio e dopo ben 44 anni Riccardo Fogli, voce del gruppo dal 1966 al 1972. Il concerto è stato un lungo, caldissimo e affettuoso abbraccio da parte dei fans di tutte le età che sono cresciuti con le canzoni della più longeva band italiana. 

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Tutto esaurito anche negli stadi di Roma (15 giugno) e Messina (18 giugno) per un totale di 176.715 spettatori e 8 milioni di euro ricavati in sole 4 date. Prima di sbarcare dall'8 all'11 settembre all'Arena di Verona e poi nei palasport italiani. Il concerto di Milano andrà in onda su Canale 5 a settembre, seguito il 16 settembre dal triplo cd "Pooh 50. Reunion - L'ultima notte insieme" che conterrà anche l'inedito "Ancora una canzone", pubblicato in tutte le versioni possibili corredato da dvd, libro da 200 pagine, documentario. Sul palco i 5 hanno sciolto la tensione che accumulavano ormai da mesi, in vista del 31 dicembre quando calerà per sempre il sipario sulla loro avventura. "Un'emozione da non contenere le lacrime " ha confessato ai giornalisti prima del concerto Riccardo Fogli, per lui un boato quando scende dalla scale e schitarra "Banda nel vento" e al ritornello in salire di "Pensiero" che sul finale ha fatto tremare i muri dello stadio. Elegante la "sua" romantica "In silenzio" come pure i suoi duetti con gli altri nella commovente "Pierre" e nel tenero "50 primavere" dedicato alle nozze d'oro dei genitori di D'Orazio. 

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Scorrono con divertimento davanti a noi gli anni 60, i 70, gli 80 sino ad oggi: sempre, inesorabile, un successo dei Pooh a ricordare un momento importante della nostra vita. Nostalgia canaglia, ma anche un tappeto musicale che ha saputo evolversi dal beat, al rock, al pop, al rock, alla canzone d'autore. "Con le nostre canzoni abbiamo attraversato la storia dell'Italia, del mondo, la vita delle persone e anche la nostra" aggiunge Dodi Battaglia, mentre D'Orazio ricorda il paroliere storico Valerio Negrin, recentemente scomparso, l'unico a non godersi la grande festa. 

"Valerio è stato capace di raccontare questo paese che stava cambiando non a chi le cose le sa, ma a chi non le sa- dice D'Orazio - Le nostre canzoni sono nazionalpopolari, abbiamo usato il pop per raccontare altre cose. Nel 1976 quando abbiamo deciso di autoprodurci abbiamo scritto un album pieno di storie che non avevano nulla di facile, che parlavano di prostituzione, immigrati, omosessualità. Nessuno voleva passarcele alla radio". La massima soddisfazione per i Pooh è che la gente si riconosca nei loro brani. E il pubblico lo ha dimostrato ieri sera ad ogni nota, dalla travolgente "Amici per sempe" alle umanissime e dolenti "Dammi solo un minuto", "Noi due nel mondo e nell'anima" e "Uomini soli" con cui vinsero Sanremo, un grido verso il Cielo capace davvero di unire tutti i cuori (e di far piangere un commosso Riccardo Fogli). Come è capace di elevare a un altro livello la musica e lo spirito la suite "Parsifal", anno 1973, non solo virtuosismo di batteria e chitarra (con un Dodi Battaglia in stato di grazia), ma intenzionale inno alla pace, dedicato all'eroe capace di gettare le armi per cercare il senso della vita. 

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L'aspetto più interessante del concerto è infatti la riscoperta di quei brani di rock progressive fine anni 70, come gli strumentali "La gabbia" e "Viva", la fase più sperimentale dei Pooh. Dopo il tripudio delle hit anni 80 che fanno saltare San Siro, si chiude con il nuovo gradevole brano "Ancora una canzone". È quella che vorrebbe ancora il pubblico che non li vuol lasciare andare via. E non ha davvero torto.
Avvenire

Ancona sorpresa glamour, la verde Portonovo e i 'ciavattoni'

Arrivare dal mare ha i suoi vantaggi: lo sguardo abbraccia dal Monte Conero alla Mole del Lazzaretto, la dominanza del Duomo di San Ciriaco, le bianche colonne vanvitelliane pensate per essere viste dai naviganti. Ma anche raggiungere Ancona via terra, attraversando chilometri di dolci colline marchigiane punteggiate dai filari di Verdicchio o Rosso Conero, che diventano sterminati campi di lavanda avvicinandosi al mare, predispone bene. ''Ho girato tutto il mondo ma non sono mai stato ad Ancona prima d'ora'' diceva un noto chef stellato sorseggiando un bicchiere di Verdicchio durante l'ultima edizione di ‘Tipicità in blu’. Ecco l'occasione per colmare la lacuna e godersi due giorni all'insegna del glamour nel capoluogo delle Marche, città affaccendata e pratica, dedita al commercio e agli scambi, abitata da gente spiccia, curiosa ma affatto incline all'incantamento.
Città protesa verso il mare quasi come volesse sottrarsi a un entroterra incombente. Sito antichissimo, fondato dai siracusani di stirpe Dorica nel 387 a.C., dopo l'iniziale ritrosia capace di schiudersi offrendo sorprendenti risorse. 
 
Arrivare dal mare dicevamo, niente di più probabile. Marina Dorica è l'elegante porto turistico anconetano, l'oasi-rifugio più grande e capiente lungo la rotta dell'Adriatico, quarto porto turistico nazionale. Fondale profondo, quasi 2000 posti barca di cui una notevole quota di barche a vela, caratteristica che inorgoglisce il presidente Moreno Clementi.
Panorama suggestivo dalla 'prua' foderata di teak dell'edificio a forma di nave che ospita Marina Dorica, il dilemma sarà la scelta tra uno dei sette tra ristoranti e pizzerie del porticciolo, che al tramonto si riempie di frotte di giovani anconetani, fedeli all'aperitivo all'ombra dell'ultimo sole.
A meno che non si decida di godersi il tramonto nella verdissima baia di Portonovo (poco più di 12 km lungo la strada provinciale del Conero), calice in mano e piedi lambiti dalle onde sulla spiaggia di bianchi sassi. Nessuno dei tanti ristoranti della baia mancherà di offrirvi i 'moscioli selvatici', presidio gastronomico della zona. Più saporito della comune cozza, il mosciolo anconetano non si alleva, si riproduce spontaneamente sullo scoglio del Trave dove si pesca con le mani. Non perdetevelo, da Marcello, sposato con gli spaghetti, oppure alla marinara, appena pescato.
Anche Giacomo Casanova soggiornò ad Ancona, segregato in quarantena nel Lazzaretto che allora era collocato sotto l'imponente Duomo a croce greca, dove sorgeva il tempio di Venere Euplea protettrice dei naviganti. Dall'altro lato della collina, divisa in due dal parco del Cardeto, era il tempio di Castore e Polluce. La cattedrale che domina il grande porto, custodisce un'altra curiosità: un dipinto della Madonna di san Ciriaco, donata quale ex voto da un navigante veneziano, che intimorì perfino Napoleone. Finito tra gli oggetti di razzia dell'Imperatore di passaggio ad Ancona, il dipinto - dice la leggenda - mosse gli occhi e spaventò a tal punto Napoleone che questi ordinò subito di restituire l'effigie agli anconetani, che ne sono devotissimi.
Passeggiata nel centro storico, lungo via Pizzecolli fino a piazza del Papa (ritrovo della movida del sabato sera) carica di richiamo storici e archeologici, molti reperti custoditi nel Museo archeologico delle Marche. Dalla cultura alla tavola, imperdibile l'appuntamento con lo stoccafisso, piatto tipico della cucina anconetana. Ottimo quello della Trattoria storica Carotti, nella popolare zona del Piano sulla strada per Posatora. Con i ciavattoni (tipo di pasta) o in teglia con le patate, si chiude comunque con il 'turchetto', rum anice e caffè, bevanda preferita dai pescatori prima di uscire in mare.
Ancona da sempre storica porta d'Oriente, oggi più vero che mai. Da poche settimane un idrovolante permette di raggiungere Spalato in soli 55 minuti, a tariffe più che accessibili. Il nuovo servizio è stato inaugurato in concomitanza con 'Tipicità in blu', appuntamento di maggio voluto dal Comune per promuovere il profilo turistico di 'Ankon'. Una novità, salutata da grande successo, anche le minicrociere in partenza dal molo del Mandracchio verso il Conero, assaporando on board un vino marchigiano, le pietanze della tradizione marinara, godendosi il water front di Ancona. 
ansa

In cammino sull'Appia antica

"Un monumento unico da salvare religiosamente intatto, per la sua storia e per le sue leggende, per le sue rovine e per i suoi alberi, per la campagna e per il paesaggio, per la vista, la solitudine, il silenzio, per la sua luce, le sue albe e i suoi tramonti". Le parole di Antonio Cederna rivivono nella passione che ha portato Paolo Rumiz, Riccardo Carnovalini, Alessandro Scillitani e Irene Zambon a vivere, passo dopo passo, l'antica via Appia, dimenticata in secoli di dilapidazione e incuria. Dall'avventura durata 29 giorni e 611 chilometri di cammino nell'estate 2015, a 2327 anni dall'inizio della costruzione della Regina Viarum, nasce il libro e l'omonima mostra "L'Appia ritrovata. In cammino da Roma a Brindisi", allestita all'Auditorium Parco della Musica di Roma fino al 18 settembre.
Fotografie di Riccardo Carnovalini, integrate da un reportage di Antonio Politano e da istantanee estratte dai filmati "on the road" di Alessandro Scillitani, materiale cartografico e documentario con autorevoli testimonianze in un percorso espositivo che vuole riscoprire e restituire la prima grande via europea, tracciandone il percorso integrale e gettando luce sulla bellezza e sugli scempi che coesistono lungo il percorso.
    L'esposizione si dispiega in corrispondenza delle tappe di Rumiz e i suoi compagni, soffermandosi sugli scenari che si aprono durante il cammino, come il "riuso" di lasciti antichi, gli animali, gli ostacoli, i paesaggi di campagna e le città attraversate dalla via Appia, come Terracina, Benevento, Taranto, Brindisi. E poi l'acqua, la sete, e i frutti della terra perché, come scriveva Calvino, il viaggio passa anche tra le labbra e l'esofago.
    Le immagini accompagnano tra le fortezze preromane sugli strapiombi, lungo sentieri boscosi e alla scoperta di fioriture a picco sul mare, guidano nella Campania Felix, sui monti del Lupo e del Picchio e gli altri della costellazione sannitica, nell'Italia dimenticata degli Osci, degli Enotri e degli Japigi fino all'Apulia. Alcuni incontri hanno caratterizzato l'itinerario dei quattro camminatori, come Giulio e Giuseppe Cederna e il musicista e cantautore Vinicio Capossela.
    "Percorrere l'Appia significa ritrovare i valori del Mezzogiorno, l'opportunità di indirizzare un turismo di qualità a riconoscere i valori territoriali, ambientali, culturali italiani", ha detto Franco Salvatori, presidente emerito della Società Geografica Italiana, che ha realizzato la mostra insieme con la Fondazione Musica per Roma, nell'ambito del Festival della Letteratura di Viaggio. "Ci siamo tuffati nel mare di Brindisi, a lungo desiderato, e pensavamo che la fatica fosse finita - ha raccontato Paolo Rumiz - ma ci siamo inflitti dei tormenti successivi, perché sapevamo che la strada che avevamo percorso non era finita con il nostro passaggio: volevamo essere sicuri che il sentiero che avevamo aperto sarebbe stato percorso da altri".
Un nuovo viaggio è, infatti, iniziato alla fine del cammino, "con il ritorno sui luoghi, con il tentativo di soluzione dei nodi più difficili, con la scrittura di un libro" e con il progetto, finanziato dal ministero dei Beni Culturali e Turismo, di messa a sistema del Cammino dell'antica via Appia che, assicura il ministro Dario Franceschini, sarà pronto "entro la fine di ottobre". I quattro camminatori sulla madre di tutte le vie hanno srotolato una pergamena svelando una meraviglia dimenticata e hanno teso il filo d'Arianna a nuovi appassionati viaggiatori.
ansa

Gaudì, 90 anni fa la morte dell'architetto di Dio. Autore dei capolavori di Barcellona, da Sagrada Familia a Casa Milà

Novant'anni fa moriva Antoni Gaudì, l'architetto spagnolo tra i massimi esponenti del Modernismo catalano, ideatore a Barcellona di capolavori quali Parco Guell, Casa Batllò, Casa Milà, inseriti (con altri quattro) nella lista dei patrimoni dell'umanità dell'Unesco. Il 7 giugno del 1926, Gaudì fu investito da un tram (il primo messo in circolazione nella città), ma per il suo aspetto dimesso venne scambiato per un povero vagabondo e trasportato all'ospedale della Santa Croce, ospizio per mendicanti. Riconosciuto soltanto il giorno successivo, morì il 10 giugno.
Nonostante questa fine quasi miserabile, Barcellona onorò l'artista che l'aveva arricchita con edifici di straordinaria, innovativa bellezza disponendone la sepoltura nella cripta della Sagrada Familia, forse la sua opera più significativa e famosa (ancora oggi in continuo divenire), dopo un funerale cui parteciparono migliaia di cittadini, per i quali il grande artista era ormai diventato 'l'architetto di Dio'. Del resto, negli ultimi dieci anni di vita si era completamente dedicato alla realizzazione di quel tempio espiatorio, che riassumeva le principali tematiche della sua originalissima visione, capace di armonizzare arte, architettura e vita. Antoni Gaudí y Cornet era nato a Reus, nella Catalogna meridionale, il 25 giugno 1852.
Nel 1869 per i suoi studi si trasferiva a Barcellona, città all'epoca in tumultuoso cambiamento e dove stavano maturando i fermenti culturali del Modernismo catalano e della 'Renaixcensa', movimento finalizzato al recupero della lingua e della cultura catalana. Gaudí, che condivideva tali aspirazioni autonomistiche, contribuì attivamente a quel vento di rinnovamento che caratterizzò Barcellona nei decenni a cavallo tra '800 e '900. Diplomatosi nel 1878 alla Scuola Superiore di Architettura, Gaudì durante gli studi era riuscito a lavorare con i migliori architetti del tempo, approfondendo anche la tecnica dei nuovi materiali da costruzione come il cemento. Appena laureato si recò quindi a Parigi per l'Esposizione Universale, dove incontrò l'industriale catalano Eusebi Guell, destinato a diventare il suo principale mecenate, futuro committente delle opere più importanti e celebrate.
Intanto, nel 1883, a soli 31 anni, diventava architetto capo della Sagrada Familia, il tempio espiatorio della città di cui iniziava a realizzare la cripta (1884-1887) e poi l'abside (1891-1893). Si trattava di una costruzione monumentale e complessa, nella quale riversò tutto il suo genio, nonostante l'impegno in contemporanea per altri progetti, come la Casa Vicens, in cui rifiutava il rigore geometrico della tradizione per reinterpretare lo stile mudejar accostando mattone e azulejo. La sua vera rivoluzione cominciava però con Palazzo Guell, commissionatogli dal suo mecenate, in cui sperimentava per la prima volta gli archi di catenaria, poi elemento costante del suo linguaggio architettonico. A seguire, ecco Casa Calvet, un edificio in pietra che sancì il successo professionale di Gaudí nella sua Barcellona e dove dal 1900 nascono via via i più acclamati capolavori: dal Parco Guell a Casa Batllo. Quest'ultima appare come plasmata da mani gigantesche, con la facciata rivestita da un mosaico di pietre vitree colorate, mentre i balconi in ghisa ricordano delle ossa e lo strano tetto ondeggiante rimanda alle squame di un rettile primitivo.
La Casa Milà (1906-'12), dalla movimentata e plastica facciata in pietra, fu invece l'ultima opera civile dell'architetto, dal 1914 completamente preso dai lavori della Sagrada Familia. Come a Barcellona, sull'onda delle repressioni della 'settimana tragica' (1909), si era spenta la stagione di grande fioritura culturale e urbanistica, così anche la vita di Gaudì era diventata sempre più asociale e solitaria, tanto da vivere in una stanzetta nel cantiere della chiesa. Lì continuava a progettare quelle forme straordinarie, imprevedibili e oniriche, realizzate utilizzando i più diversi materiali (mattone, pietra, ceramica, vetro, ferro), da cui traeva le massime potenzialità espressive. Seguendo, tra religiosità e misticismo, l'assioma per cui l'architettura crea un organismo, il quale, come tale, deve sottostare alle leggi della natura.
ansa

Il "mare" più bello d'Italia è ai piedi delle Dolomiti

PERCHE’ SE NE PARLA Il mare tra i monti continua a stregare gli italiani: parliamo di Molveno, tra le Dolomiti del Brenta, patrimonio dell'umanità UNESCO, con il suo bellissimo lago. Un vero e proprio paradiso naturalistico che ha spinto gli utenti del portale turistico PaesiOnLine a conferire al piccolo comune in provincia di Trento il riconoscimento di località Top Rated nella categoria "Montagna". Il premio è conferito "direttamente" dagli utenti di PaesiOnLine ed è assegnato sulla base dei post e delle recensioni che questi lasciano ogni giorno sul sito. A premiare Molveno è stato probabilmente l'esclusivo binomio tra attività di lago e di montagna, ma anche l'offerta di servizi offerti nel pieno rispetto dell'ambiente.
 
PERCHE’ ANDARCI Molveno, con il suo lago e il suo lido, rappresenta un felice punto d’incontro per tutti coloro che sono attratti dalla montagna, ma non vogliono rinunciare al mare. Dieci ettari di verdi prati, che si distendono sulle rive di un grande lago azzurro incastonato fra le Dolomiti di Brenta: tanto spazio per camminare, giocare, stendersi al sole, leggere e fare sport.
 
DA NON PERDERE Per il sesto anno consecutivo il lago di Molveno è stato premiato con le cinque vele di Legambiente, il massimo riconoscimento per la qualità ambientale, la tutela e l’impegno per la conservazione degli specchi d’acqua in Italia. Per gli amanti dello sport sono presenti campi da tennis, piscina olimpionica, bocce, minigolf, pattinaggio a rotelle, calcio, pallavolo, vela, surf, barche, canoe, pesca, parapendio, percorsi ricchi di fascino con il “Dolomiti di Brenta Bike e Trek.
 
PERCHE’ NON ANDARCI Tanti gli spazi anche per i piccoli, che rendono questa meta luogo perfetto per far contenta tutta la famiglia. Qualche turista, però, si è lamentato della gastronomia locale e ha osservato quanto non fosse semplice girare con bambini in braccio, Ma sono dettagli...  
 
COSA NON COMPRARE L'artigianato locale trentino comprende la lavorazione di legno, pietra, tessuti e ricami. Ci sono, ad esempio, i presepi intagliati dagli artigiani della val Gardena ma anche giocattoli e oggetti per l'arredamento. C'è ancora oggi la tradizione del Loden, la cosiddetta "lana cotta", o la lavorazione realizzata con il rachide di penna di pavone. Sono in vendita anche gli strofinacci con le foto da cartolina di Trento: brividi.
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