La mostra. A Galleria Borghese i fasti dei Valadier, orafi per l'Europa neoclassica

Da Andrea a Giuseppe si dipana la parabola di una bottega d’arte in cui spicca l’opera di Luigi, artista molteplice che segnò la storia del neoclassicismo

Luigi Valadier, "Erma di Bacco" (1773) bronzo, particolare)

da Avvenire

Sono trascorsi esattamente 260 anni da quando, nel 1759, Luigi Valadier rilevò, alla morte del padre Andrea, la bottega di orafo che il genitore aveva aperto a Roma nel 1714 in via del Babbuino. È probabilmente questa, una delle ragioni, ossia la ricorrenza, che ha spinto Anna Coliva – direttrice della Galleria Borghese – a dedicare al grande orafo l’elegante mostra di cui è la curatrice.

Infatti, mancava al ventaglio d’iniziative che la studiosa ha organizzato nella splendida villa romana dal 2006 (quando s’insediò) a oggi, un evento dedicato a questa figura che deve considerarsi uno degli esponenti di spicco di quel gusto raffinato ed estetizzante che si era palesato sull’ultimo scorcio del XVIII secolo.

Adesso, l’esposizione intitolata Valadier. Splendore nella Roma del Settecento, risarcisce tale mancanza anche alla luce del fatto che la collezione del museo romano custodisce alcuni dei capolavori del grande artista, come l’Erma di Bacco (divenuta icona della mostra) e due tavoli dodecagonali.

Si tratta di oggetti che rappresentano bene quale fosse il gusto dominante intorno alla metà del secolo a Roma. Il fatto interessante è che – per molto tempo – si ritenne che l’erma fosse di antica fattura e soltanto approfondite ricerche documentarie d’archivio dimostrarono che l’aspetto di tipo anticheggiante era stato voluto da Valadier che aveva prodotto artificialmente la patina verde e i residui dorati. I tavoli, invece sono stati disegnati da Antonio Asprucci, l’architetto autore del pittoresco tempietto dedicato a Esculapio che si specchia nel laghetto di Villa Borghese. A Valadier si devono le belle teste delle quattro stagioni che si trovano sotto il ricco piano d’appoggio.

Del resto, l’artista-orafo, già come suo padre, ebbe un ruolo privilegiato proprio con la famiglia Borghese, grazie alla quale contribuì a dar forma all’idea estetica del neoclassicismo romano. Lo dimostrano le splendide e ricchissime caraffe in argento dorato per il servizio da tavola della famiglia, pure esposte in mostra. Infatti, il valore aggiunto (e irripetibile) dell’esposizione, è quello di presentare i capolavori di Valadier all’interno di un ambiente che si configurò come espressione pure di tale nuovo gusto. Il quale, per esempio, ebbe la plastica dimostrazione di quell’innovativo percorso artistico nelle bronzee applicazioni ornamentali, realizzate dall’orafo, per il camino di quella che oggi è la sala XVI della Galleria.

Per questo, per avere la giusta impressione e sondare il reale valore culturale di questa meritoria operazione, è necessario visitare questa mostra, dove troneggiano le monumentali lampade d’argento realizzate per il santuario di Santiago di Compostela. Si tratta di meravigliose “ampolle” trasparenti lavorate a racemi dalle dimensioni monumentali che sono esposte in sospensione a enormi staffe di legno realizzate appositamente per l’occasione. Ci sono poi altri capolavori, come le imponenti, anche se di ridotte dimensioni, statue in metallo e argento dorato, della basilica cattedrale di Santa Maria Nuova a Monreale o il San Giovanni Battista proveniente dal Battistero Lateranense che, per la prima, volta lasciano la loro collocazione originale.



Luigi Valadier, "Arianna" (già "Cleopatra", 1778-1784) bronzo

La capacità di Valadier gli permetteva di affrontare con la stessa grazia oggetti monumentali e addirittura statue come le copie di capolavori antichi, quali per esempio la traduzione in bronzo dell’Antinoo Capitolino(oggi Louvre), realizzata per Madame du Barry e il conte d’Orsay, oppure la straordinaria copia in bronzo dell’Arianna addormentata (poi dettaCleopatra) dei Musei Vaticani scolpita per re Gustavo III di Svezia, ma anche temi assai diversi. Valadier sembra onnivoro delle forme, capace d’imitare l’antico come un falsario, oppure d’inventare vasi come quello in marmo rosso proveniente dalla Frick Collection di New York o, ancora, la tazza in porfido sostenuta dalle Tre Grazie che fu realizza per la Casa Reale Svedese.

Del resto, il rango e il numero dei committenti dell’artista rivelano lo straordinario successo della sua carriera di orafo e argentiere, esaltando la vastità di campo, l’originalità e l’impronta internazionale della sua produzione, che la mostra intende rappresentare con importanti testimonianze.

Figura eclettica, Luigi Valadier non aveva alcuna difficoltà nel passare all’invenzione di opere di tutt’altro genere (pure in mostra) come la ricostruzione del tempio di Iside a Pompei commissionata da Maria Carolina d’Austria. È allora interessante e utile fare i confronti con i disegni e i progetti esposti e avvantaggiarsi degli strumenti didattici (totem multimediali) che accompagnano il visitatore in un percorso di grande suggestione, anche attraverso i luoghi di Roma che saranno resi poi ancora più belli dal figlio di Luigi, Giuseppe Valadier.

Roma, Galleria Borghese
Valadier. Splendore nella Roma del Settecento
Fino al 2 febbraio

Faenza. Picasso, vasaio alla ricerca dell'anima del mondo

Un gigantesco progetto ha legato dal 2017 alla fine di quest’anno decine di esposizioni dedicate a Picasso e il Mediterraneo. Ora al Museo delle Ceramiche la sua attività di scultore e ceramista

Un'opera ceramica di Picasso esposta a Faenza: particolare dalla “Civetta con testa maschile” (1953)

«Picasso-Mediterraneo è un evento internazionale che si svolge dalla primavera del 2017 alla fine del 2019. Più di settanta istituzioni hanno immaginato una serie di mostre sull’opera “ostinatamente mediterranea” di Pablo Picasso». È la nota sintetica di un gigantesco progetto che, nella sostanza, si realizza piuttosto come un’opera di propaganda del Museo Picasso di Parigi. Un modo per fare e incamerare soldi, in definitiva. Mentre l’apporto conoscitivo resta abbastanza limitato (pur sempre con standard espositivi medio-alti). Il culmine si è avuto nel 2018 con oltre trenta mostre allestite in alcuni Paesi europei: in Francia ben 20, in Spagna 9 e in Italia 6. Ma anche nel 2019 sono state 14 le esposizioni allestite in varie città mediterranee. Da queste cifre si intuiscono anche le graduatorie degli interessi che si giocano dentro una simile invasione picassiana: lui è la gallina dalle uova d’oro, nonostante la borsa valori ponga ancora ai vertici del mercato gli “aerostati” Hirst, Koons e Cattelan. La Francia è infatti il mercato che governa i valori dell’opera di Picasso e il Museo parigino è il Sancta Sanctorum dell’artista, la miniera che alimenta un’attività espositiva in patria e all’estero davvero impressionante, e la Spagna si adegua (anche perché il mercato spagnolo è debole sulla scena internazionale), mentre l’Italia è soprattutto lo scenario composto di passato e presente sul quale l’opera del genio di Malaga agisce come un guitto, lasciando un segno di Zorro sulla fronte di ogni abbonato del turismo e dell’industria culturale.

Il tema mediterraneo non è né nuovo né particolarmente seducente.Nel 1982 Villa Medici allestì proprio una mostra su Picasso e il Mediterraneo– Le Grand Bleu, come l’artista era solito chiamare il nostro mare – il cui catalogo veniva introdotto da Jean Leymarie. E oggi, nel sud della Francia, a Tolone, si è aperta la scorsa settimana un’altra mostra legata al progetto triennale, che questa volta si concentra su Picasso e il paesaggio mediterraneo, nel cui catalogo Maria Teresa Ocaña – già direttrice del Museo d’Arte della Catalogna –, osserva che questo genere pittorico fu uno dei più precoci sperimentati dal giovanissimo Picasso quando ancora si trovava a Malaga. Lì operava il pittore Antonio Muñoz Degrain eseguendo paesaggi «di un’immaginazione e di un colore esuberante» che Picasso ammirava. Quando poi si trasferisce a Barcellona, dove il padre ha ottenuto un posto da professore alla scuola di Belle Arti, Picasso approfondisce con maggiore libertà il colore e le luci del Mediterraneo dipingendo piccole marine. Naturalmente, anche il paesaggio è un tema che segue, anzi viene domato e vinto dai successivi sviluppi del linguaggio picassiano all’interno delle fasi cubista, neoclassica, postcubista e realista, fino alle tarde declinazioni neoespressioniste. Quando ha davanti un paesaggio, Picasso cerca di metamorfizzarlo con una mente proteiforme dove la lotta con la realtà deve portare alla vittoria dello stile che l’artista sta praticando come scienza dello sguardo.



Un'opera ceramica di Picasso esposta a Faenza: lastra tagliata e dipinta a forma di civetta (1957)



Dopo la seconda guerra mondiale Picasso si trasferisce per molto tempo nel sud della Francia e soggiorna in varie località della Costa Azzurra. È lì che comincia a sperimentare la ceramica come arte dove pittura e scultura possono ritrovarsi al di là delle comode distinzioni metodologiche degli stessi storici e critici. È forse il caso di ricordare che da studi recenti sembra emergere traccia di una versione più antica delTrattato sulla pittura di Leonardo (oggi perduta) dove il genio rinascimentale attribuiva il primato non alla pittura, come afferma nel testo oggi conosciuto, ma alla plastica di modellato dipinta. Anche Picasso – la cui natura ancipite di pittore e scultore non viene mai meno nelle sue opere – scopre che dall’arte dei vasai e dai manufatti fittili si possono cavare opere dal valore magico. Lo vediamo ora a Faenza, al Museo delle ceramiche, nella mostra Picasso. La sfida della ceramica, a cura di Salvador Haro González e Harald Thell (catalogo Silvana). Anche qui è esposta una campionatura proveniente dal Museo Picasso di Parigi, una cinquantina di opere accanto a quelle possedute dal Museo faentino che vi accosta altre ceramiche più antiche, precolombiane, medievali e rinascimentali. Può darsi che abbiano ragione i curatori della mostra quando scrivono nel catalogo che l’opera in ceramica di Picasso fu per molto tempo sottovalutata rispetto a pittura e scultura. Ma bisognerebbe anche uscire dal luogo comune riassunto nel termine “sfida” che ogni volta dipinge Picasso come un bambino capriccioso che reagisce ai limiti che gli vengono posti dimostrando che può riuscire bene in ogni cosa si proponga di fare. In realtà, a guidarlo verso lande sconosciute è piuttosto la sua esorbitante vitalità interiore. Così è per la ceramica, che cominciò a sperimentare a Vallauris, poco distante da Antibes, altro luogo ispiratore del Picasso mediterraneo. In entrambe le località vi sogno musei picassiani che conservano testimonianze notevoli del suo lavoro negli anni fra i Quaranta e la fine dei Sessanta. La ceramica – tecnica nella quale Picasso ha realizzato migliaia di opere – è davvero il momento dove l’immaginazione picassiana dimostra che non c’è forma o materia dove il suo tocco non resusciti un’anima prigioniera nella materia. Un mattone scheggiato, un “vaso” afflosciato in sede di cottura, un frammento di pignatta, ma anche un piatto, una piastrella, una brocca, o qualsiasi altra forma plasmata nell’argilla diventa sotto le sue mani e i suoi occhi “opera”, cioè riporta il manufatto ad antichissimi significati artistici, quando anche le stesse suppellettili cadevano dentro una ritualità sacra. Qualcosa del genere accade nell’arte tribale, e non per caso Picasso fu uno dei più avidi accumulatori di quelle immagini.

È questo che l’artista ci dice nella ceramica: egli è un taumaturgo, è colui che governa le forze del fascinans e del tremendum, perché thaumaè meraviglia, ma anche timore per qualcosa che viene alla luce da regioni che vanno oltre o si trovano sopra la nostra comprensione del mondo. In questo senso, il segno dipinto sul vaso o sull’anfora, sul boccale come su un piatto, è una sorta di transustanziazione che riafferma i valore magico del gesto umano come anche della parola (magia universalis, non pratica da ciarlatani, ma viatico a una realtà dove il mondo non si esaurisce nelle sue apparenze, anzi, esse sono soltanto il verso di una profondità che palpita di energie e forze che spesso non si rivelano o lo fanno soltanto a chi è capace di coglierle e incanalarne in una esperienza di vita). La ceramica di Picasso è un ex voto alla vita, alla forza che si sprigiona mentre il tornio compie i suoi cerchi. L’ex voto di Dioniso- bambino. E non è strano che l’artista riveli l’interesse per la ceramica delle antiche civiltà, culture dove mito e arte si sposano con naturalezza. Ovviamente, in questa piccola mostra (ma soprattutto se si va a Vallauris e in altri luoghi francesi dove sono conservate opere ancor più importanti di quelle esposte a Faenza), si vedrà che Picasso non pensa come un vasaio di suppellettili, ma come un artista che vuole cavare dalla materia quella stessa idea che lo spingerebbe ad agire sulla tela o sul muro con la pittura o ad articolare forme tridimensionali per la fusione o per l’assemblaggio, come nella poetica dell’objet trouvé. Picasso, come Matisse, porta alla massima tensione la dialettica fra le due arti sorelle, pittura e scultura, ponendo il sigillo a una storia che era cominciata due secoli prima: quella che trova i maggiori innovatori della scultura in alcuni sublimi pittori, da Géricault, a Moreau, Degas, Derain ecc. E anche Picasso nella ceramica vuole ritrovare questo connubio delle arti.

Avvenire

In Istria. Dal faro di Salvore a Colmo, il borgo più piccolo del mondo

In viaggio dalla costa alla scoperta dell’interno, meno battuto dai flussi turistici ma con chicche imperdibili. A cominciare da Grisignana, la città degli artisti. O Levade, patria del tartufo

Istria, l'antico faro di Salvore (foto G. Matarazzo)

L’Italia fa parte della sua storia, è lì di fronte, dall’altra parte del golfo, a poco più di un’ora di macchina, anche se si superano due confini. Forse si vede anche da lì il più antico faro ancora attivo dell’Adriatico, a Salvore, in Istria, Croazia. Un faro e tante storie attorno. Di mare e di terra. A cominciare dalla sua costruzione nel 1818 dall’architetto Pietro Nobile per ordine della Deputazione della Borsa di Trieste con l’appoggio dell’imperatore austriaco Francesco I come segnale per i navigatori notturni: “cursibus navigantium nocturnis dirigendis”, riporta la targa lapidea all’entrata. La leggenda narra che fu un nobile austriaco, il conte Metternich, a volerlo per una bella nobildonna di queste zone di cui si era innamorato a un ballo a Vienna. La giovane croata però morì prima che il faro venisse terminato. Il conte non lo visitò mai, eppure la sua bellezza e l’amore di cui è intriso sono arrivati fino a noi. Le acque di Salvore sono state teatro anche di grandi battaglie: nel 12° secolo il Doge di Venezia con una trentina di galee tese un’imboscata alla flotta dell’imperatore Federico Barbarossa, due volte più grande. Quando Otto, il figlio dell’imperatore, si rese conto che la sua flotta non poteva essere salvata, decise di fuggire. Si nascose in queste coste, in una vecchia cisterna romana: a questo episodio Salvore deve il suo nome (il “re salvato”).

Roma, perché c'è un cervo sopra la chiesa? La basilica in piazza di Sant'Eustachio è sormontata da una scultorea testa di cervo

Sant'Eustachio<br>

turismo.it

La graziosa piazzetta di Sant’Eustachio a Roma si trova a due passi dal Pantheon, a pochi metri da piazza Navona e da Palazzo Madama. Insomma, non è strano che sia attraversata da centinaia di turisti ogni giorno, a tutte le ore. Molti poi, sono spinti qui dal desiderio di provare un espresso presso lo storico caffè omonimo. Ma non tutti sanno che alzando gli occhi al cielo e prestando attenzione alla sommità della Basilica di Sant’Eustachio, noteranno una stranezza: alla base della classica croce, c’è una scultorea testa di cervo. Per la precisione la croce si innalza proprio sulla testa dell’animale.

Sì, un cervo, con tanto di ramificate corna, che i più attenti osservatori ritroveranno anche in altre icone del rione (che si chiama anch’esso Sant’Eustachio). Ma cosa ci fa una testa di cervo in cima ad una chiesa? Un cervo che ha persino l’onore di sorreggere la croce cristiana dev’essere stato certamente un animale importante, vero o leggendario che fosse. La piazza prende il nome dalla chiesa di Sant’Eustachio, ma in precedenza si chiamava piazza della Schola. Il luogo di culto fu costruito nell’VIII secolo, in onore del santo che, all’epoca dell’Impero Romano, abitava qui. O almeno questo è quanto narra la leggenda.

Eustachio è stato identificato con Placido, un encomiato generale dell’esercito all’epoca di Traiano. Secondo la raccolta medievale della Leggenda Aurea, Placido un giorno si stava dedicando alla caccia, quando avvistò un cervo. Lo seguì fino al limitare di un burrone, quando la bestia si voltò e tra le sue corna comparve un croce luminosa. Il cervo si rivolse al generale, dichiarando di essere Gesù e chiedendo il motivo della persecuzione. Placido, spaventato, corse a casa dalla moglie, la quale aveva avuto a sua volta una visione. Fu così che i due decisero di recarsi dal vescovo e convertirsi al cristianesimo. Anni dopo, sotto Adriano, colui che ora veniva chiamato Eustachio fu condannato a morte con l’intera famiglia a causa della sua religione. Pare che tuttavia le fiere del Colosseo, che dovevano sbranarlo, si fermarono, e, chinando la testa, lo lasciarono vivere. L’imperatore condannò quindi Eustachio e famiglia ad una morte altrettanto cruenta, quella del toro di Falaride (si rinchiudeva lo sventurato in un toro di bronzo che veniva scaldato fino ad arroventare la vittima). Ma, si narra, una volta aperto lo strumento di tortura i loro corpi risultarono privi di vita, ma intatti.

Si dice che la chiesa sorga dove un tempo si trovava il giardino della casa del martire, su cui successivamente Nerone fece costruire le sue terme e Costantino, primo imperatore convertito al cristianesimo, vi eresse un oratorio. Documenti del 795 testimoniano in questo luogo la presenza di una diaconia (una sorta di centro di assistenza per i poveri) che nei secoli fu ampliato, e quindi consacrato, fino a giungere all’aspetto tipicamente barocco che ha oggi. Con la testa di cervo che sovrasta la chiesa e la piazza.