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"NOW NOW. Quando nasce un’opera d’arte", la mostra | Intervista a Luca Fiore

Progetto di Casa Testori
A cura di Davide Dall’Ombra, Luca Fiore, Giuseppe Frangi e Francesca Radaelli

tag: #Meeting2019, Casa Testori, Arte, Cultura, Turismo Culturale
Il Video

Dopo il viaggio alla scoperta dell’arte contemporanea del 2015 e l’incontro con le opere monumentali del 2017, la mostra di quest’anno darà al visitatore la possibilità di entrare nel processo stesso dell’opera, partecipare al momento creativo, conoscere le dinamiche, la ricerca e gli accadimenti di un artista: tra frustrazioni ed entusiasmi. Al Meeting saranno presenti 6 giovani artisti che trasferiranno in Fiera il proprio studio, al lavoro con tecniche e linguaggi molto diversi tra loro. Non mancheranno spunti storici, una grande sorpresa e alcuni dei protagonisti della scena artistica italiana, che si alterneranno in mostra ogni giorno.


tratto da meetingrimini.org

segnalazione web a cura di Albana Ruci

Con il rock nel cuore, Bennato torna al Meeting

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Non c’è due senza tre: Edoardo Bennato ha già calcato le scene del Meeting nel 1993 e nel 1995. E per il 40esimo ritorna con un concerto il 22 agosto.
intervista tratta da meetingrimini.org
Che ricordo ha dei precedenti incontri con il popolo del Meeting? La cosa che mi ha colpito di più nelle due precedenti edizioni a cui ho partecipato è lo straordinario impegno di migliaia di giovani, volontari che, a loro spese, organizzano un evento che va avanti da quarant’anni. Soprattutto mi piace il concetto per cui la “diversità” diventa un terreno di incontro, di valorizzazione per differenti culture e non solo in ambito religioso.
La sua lunghissima carriera è costellata di successi, fino a quelli più recenti del 2017. Cosa proporrà per il concerto di Rimini? Per quanto riguarda il mio concerto cerco, come sempre, di coniugare la spettacolarità con i contenuti, il divertimento ed il pensiero, insomma un concerto ad alto contenuto rock & blues. Nel 2016 il mio brano “Pronti a salpare” ha avuto il privilegio di vincere il premio “una canzone per Amnesty” nell’ambito di Amnesty International, si tratta di una “canzonetta” che invita noi privilegiati, in teoria, del cosiddetto mondo occidentale che dovremmo essere pronti a salpare, a cambiare mentalità, in considerazione del nostro benessere futuro e quello dei nostri figli, non può più prescindere dalla soluzione dei problemi di quello che chiamiamo “terzo mondo”. Tra la spietatezza e il futile buonismo fatto per riempirsi la bocca nei “salotti buoni” bisogna trovare una terza via, non c’è più tempo da perdere.
I temi sociali da sempre hanno ispirato la sua produzione artistica, divenendo un marchio di fabbrica irrinunciabile. Cosa muove il suo istinto creativo? Cosa ha a cuore? Ciò che muove la mia creatività è il rock. La consapevolezza che, da sempre, ho sventolato una sola bandiera: quella del rock.

Miele: clima e import tagliano prime produzioni 2019 del 41%


(ANSA) - ROMA, 19 LUG - Parte male la campagna 2019 del miele nazionale per colpa del clima ma anche della forte concorrenza estera. La produzione di miele di acacia e agrumi ha fatto registrare una contrazione del 41% rispetto alle attese. In termini economici questo ha significato una riduzione dei ricavi per gli apicoltori di 73 milioni di euro. È la fotografia che emerge dalle stime che l'Ismea ha realizzato sulla prima parte della campagna produttiva dell'anno in corso. 

L'andamento climatico anomalo che ha caratterizzato il primo semestre dell'anno, infatti, ha messo definitivamente in ginocchio un settore già alle prese con problemi sanitari e minacciato dalla forte concorrenza del prodotto di provenienza estera. Le perdite produttive per il miele d'acacia, stimate intorno ai 55 milioni di euro, hanno penalizzato soprattutto le regioni del Nord (Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Lombardia, Veneto e Friuli Venezia Giulia). Per il miele di agrumi, la stima del danno, secondo l'Ismea, si aggira intorno ai 18 milioni di euro, con una situazione critica in tutto il Mezzogiorno e perdite produttive tra il 40% e l'80%. (ANSA).

20 luglio 1969-2019. Da Vecchioni a Mina, 10 canzoni (più 1) dedicate alla luna

Da Vecchioni a Mina, 10 canzoni (più 1) dedicate alla luna

Il 20 luglio 1969 gli astronauti della missione Apollo 11 mettevano per la prima volta piede sulla Luna. Eppure sulla luna l’uomo ci è sempre “salito”, almeno con la fantasia. Grazie ai poeti, prima di tutto. E poi con la musica. Non si contano le canzoni dedicate alla luna, in tutte le lingue del mondo. Ne abbiamo scelte dieci (alcune delle quali forse non così note)… più una.

1. Luna Rossa (1950)
Scritta Vincenzo De Crescenzo e Antonio Vian, fu presentata per la prima volta durante la Festa di Piedigrotta del 1950, cantata da Giorgio Consolini, accompagnato dall'orchestra di Nello Segurini e divenne presto uno dei gioielli dello sterminato repertorio napoletano (nel quale la luna ha un ruolo di primo piano, da Marechiaro a Luna caprese e Na voce, ‘na chitarra e un poco ‘e Luna)
Nella canzone un uomo vaga di notte per strada nella speranza che la sua amata si affacci dal balcone. “E 'a luna rossa me parla 'e te / io le domando si aspiette a me / e me risponne si 'o vvuo' sape' / cca' nun ce sta nisciuna”.
Infinito l’elenco di chi l’ha cantata:, Claudio Villa, Massimo Ranieri, Lina Sastri, Gabriella Ferri, Mia Martini, Renzo Arbore, Renato Carosone, Mango, fino a Joséphine Baker, Noa e Caetano Veloso. Frank Sinatra la incise con il titolo Blushing Moon e ce n’è persino una versione in arabo con M'Barka Ben Taleb. Qui la versione classicissima e superba di Roberto Murolo.
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2. U2 – Mysterious ways (1991)
La luna non c’è nel titolo di questo brano tratto da Achtung Baby, ma la attraversa completamente. Quale è il significato della canzone? Se per alcuni la luna è una metafora della donna e del suo potere di soggiogare l’uomo (proprio come la luna muove le maree) anche attraverso la dimensione sessuale, altri invece propongono letture sono decisamente più religiose, in linea con molte canzoni della band di Dublino: dal confronto tra Giovanni Battista e Salomè (e la danza del ventre nel video sembrerebbe confermarlo) fino a quelle in cui la luna diventa simbolo addirittura dello Spirito Santo. Per altri ancora, infine, è soltanto una canzone… sulla luna.
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3. Roberto Vecchioni – Blumùn (1993)
Uno swing allo specchio sugli anni che passano e un dialogo con Dio (che all’inizio, con la voce di Gene Gnocchi, dice: «Vecchioni, Vecchioni... / già il nome che hai avuto in sorte, / Vecchioni... ma non ti dice niente? / E continui a rubarmi giorno dopo giorno»). Ma sotto la vena malinconica e una bella nota di ironia, Blumùn celebra tutto il sapore della vita: «Questa luna nel cielo sembra panna, / che voglia di una lontana ninna nanna / Ho tanti amori, tanti figli addosso / che pare brutto salutarli adesso: / sono un uomo felice lo confesso. / anno dopo anno...».
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4. Neil Young – Harvest moon (1992)
Canzone che dà anche il titolo all’album pubblicato dal rocker canadese nel 1992, è un magnifico pezzo sull’amore che resiste intatto come il primo giorno. “Perché sono ancora innamorato di te / Voglio vederti danzare ancora / Perché sono ancora innamorato di te / Sotto questa luna del raccolto”. Per anime romantiche.
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5. La luna, da Forza venite gente (1981)
Con migliaia di repliche in Italia e nel mondo “Forza Venite Gente” è un vero caso teatrale, anche per per la sua durata. La canzone dedicata alla Luna è uno dei momenti più intensi. Un duetto tra Francesco e il Sultano, in cui il disco bianco “mantello bianco di pietà” diventa uno specchio in cui incontrarsi, “presenza muta di ogni Dio / del suo del mio / del Dio che sa”.
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6. Mina – Flying me to the moon (1972)
“Fammi volare fino alla luna / Fammi giocare tra le stelle / Fammi vedere che effetto fa / saltare su Giove e Marte / in altre parole, prendi la mia mano! / in altre parole, baciami bambina”. Grande swing e grande classe per questo brano scritto nel 1954 da Bart Howard (con il titolo originale In Other Words, ossia "in altre parole") la cui versione più celebre è quella cantata da Frank Sinatra ma è nel repertorio di tutti gli artisti più grande: Paul Anka, Tony Bennett, Shirley Bassey, Nat King Cole, Nina Simone, Perry Como, Ella Fitzgerald, Amy Winehouse, Gregory Porter, Diana Krall, Marvin Gaye, Astrud Gilberto, Michael Bolton, Michael Bublé. La versione di Mina che qui proponiamo, apre i concerti con una big band jazz documentati nel disco Dalla Bussola.
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7. Tom Waits – Grapefruit moon (1973)
Penultima canzone del suo primo album, Closing Time, è una lenta, dondolante ballata d’amore intonata sotto una “luna pompelmo” e una stella che brilla nell’oscurità. Qui Waits è ancora un romantico coroner, ma la luna è un tema e un’immagine che ne percorrerà tutta la carriera.
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8. Loredana Bertè – E la luna bussò (1981)
Senza dubbio la più celebre tra le canzoni italiane dedicate alla luna. Scritta da Mario Lavezzi insieme ad Oscar Avogadro e Daniele Pace è forse il primo reggae italiano. “E allora giù quasi per caso / Più vicino ai marciapiedi / Dove e vero quel che vedi / E allora giù senza bussare / Tra le ciglia di un bambino / Per potersi addormentare”.
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9. Paul Simon - Song About the Moon
Gioiello in un repertorio di gioielli, la canzone di Paul Simon spiega tutte le altre canzoni sulla luna. “Se vuoi scrivere una canzone su un volto / Se vuoi scrivere una canzone sulla razza umana / Scrivi una canzone sulla luna”. La luna come grande metafora, perfetta per ogni spunto, dall’amore alla scienza alla spiritualità… a una semplice ninna nanna. La Luna è un luogo dell’immaginazione, e anche dopo l'allunaggio, è ancora un luogo sconosciuto.
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10. Billie Holiday - Blue Moon (1952)
Abbiamo iniziato da una luna rossa, finiamo con la storia di una luna che da blu (il colore della tristezza) diventa d’oro quando l’amore si avvera. Composta da Richard Rodgers e Lorenz Hart nel 1934, è stata poi cantata da alcune delle più grandi voci del secolo scorso, da Elvis Presley a Frank Sinatra a Ella Fitzgerald, e come standard è stata interpretata da jazz man come Armstrong, Django Reinhardt, Dizzie Gillespie. Ma quella di Billie Holiday è indimenticabile. Nota per i calciofili: Blue Moon dagli inizi degli anni 90 è diventata l’inno ufficioso del Manchester City.
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+ 1. R.E.M. – Man on the moon (1992)
Eccoci al bonus. Il titolo ricorda l’allunaggio di 50 anni fa. Ma non è proprio una canzone dedicata alla luna, né a Neil Armstrong, quanto semmai a un grande “lunatico” e “stralunato” come Andy Kaufmann, comico surreale che con le sue performance portava alla luce le contraddizioni della società (non solo americana) propensa a credere a qualsiasi cosa. Cantava Michael Stipe: “Se credevi avessero portato un uomo sulla luna / Se credi non ci sia nessun trucco / Allora niente è divertente”. Man on the Moon è un film del 1999 su Andy Kaufmann, diretto da Miloš Forman e interpretato da Jim Carrey.
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Turismo. Enit, Piano triennale attento a sviluppo e occupazione

Enit, Piano triennale attento a sviluppo e occupazione

da Avvenire
«A settembre partirà il tavolo di lavoro per le professioni turistiche, perché vogliamo rinnovarle, e poi promozione e tante iniziative, il 2020 sarà l'anno dell'amicizia Italia-Cina nel turismo». Così il ministro dell'Agricoltura e del Turismo Gian Marco Centinaio, durante la presentazione con l'Enit della nuova strategia dell'Italia con il Piano triennale del turismo 2019-2021. Un settore trainante per l'economia del nostro Paese. Nel 2018 il Pil prodotto dal settore turistico è stato pari a 232 miliardi di euro (13,2% del Pil totale), con 3,5 milioni di occupati (14,9% dell'occupazione). E con una previsione a dieci anni di un aumento del Pil dell'1,7% (268,8 miliardi di euro) e +1,3% di occupati. Uno degli obiettivi del prossimo triennio, comunque, è la crescita del 10% annuo del saldo positivo della bilancia dei pagamenti tra le spese sostenute dai turisti che vengono in Italia dall'estero e gli italiani che si recano fuori i confini. Un contributo può arrivare anche dai 600 eventi messi in campo in tutto il mondo per promuovere l'Italia all'estero. Enit - che a novembre festeggia i 100 anni di attività - punta su tre categorie per far crescere le presenza: famiglie, millennials e turismo specialistico, che va da quello legato ai percorsi in bici alle immersioni in mare. 
«Il nostro Paese ha una bilancia dei pagamenti del turismo che segna 42 miliardi di euro di incoming e 25 di outgoing, il saldo positivo ogni anno è di circa 16 miliardi, l'obiettivo è farlo crescere stabilmente del 10% per ogni anno nei prossimi tre - ha spiegato il presidente Enit 
Giorgio Palmucci -. Ci sono mercati più maturi come i Paesi europei che già ci conoscono e a cui vogliamo far apprezzare i luoghi meno noti, che però contengono il 60% dei siti Unesco. In altri Paesi come Cina, India e in quelli del Sud America lavoriamo innanzitutto per far conoscere l'Italia e le sue destinazioni». In termini di presenze estere l'Italia, con oltre 216,5 milioni di pernottamento nel 2018 (+2,8), supera la Francia (140 milioni di notti) e cresce a differenza della Spagna nel 2018 che pur essendo prima nel confronto europeo con 301 milioni di pernotti segna una flessione dell'1,6%. 
«Con il nuovo piano triennale Enit sarà in grado di indicare al meglio i mercati obiettivo potendo supportare l'azione del settore privato e contribuire allo sviluppo delle destinazioni turistiche del Paese - ha concluso 
Centinaio -. Il turismo è un settore determinante per la crescita dell'economia italiana, è destinato a rimanere uno dei driver per la nostra ripresa economica e per l'occupazione».

GIUGNO DA RECORD PER L'AFA, 3 GRADI PIÙ DELLA MEDIA


IL SECONDO PIÙ CALDO DAL 1800. PRIMATO RESTA AL 2003 Il mese scorso è stato il secondo giugno più caldo in Italia dal 1800 - cioè da quando sono disponibili i dati sulle temperature  - a oggi. Lo rende noto l'Istituto di scienze dell'atmosfera e del clima (Isac) del Cnr, secondo cui il primato dell'afa resta al 2003. Nel giugno scorso, che quindi risulta il più rovente degli ultimi 15 anni, la temperatura è stata superiore di 3,30 gradi centigradi rispetto alla media. (ANSA).

ADDIO A CAMILLERI, L'ITALIA PIANGE IL PAPÀ DI MONTALBANO



31 MILIONI DI COPIE. NIENTE CAMERA ARDENTE, FUNERALI PRIVATI Andrea Camilleri è morto all'ospedale Santo Spirito di Roma dove era ricoverato da un mese. L'autore geniale dei libri del commissario Montalbano aveva 93 anni. Per volontà della famiglia non ci sarà camera ardente e il funerale si svolgerà domani in forma privata. Regista di teatro, funzionario Rai, poi il boom da romanziere a 60 anni: cento libri, 27 su Montalbano, un fenomeno da 31 milioni di copie. 'Il commissario finirà con me', disse. Ascolti record per la serie tv con Luca Zingaretti, vista 1,2 miliardi di telespettatori. Tutta Italia piange la morte del maestro. Mattarella: 'Ha avvicinato gli italiani ai libri'. Conte: 'Un maestro che ha saputo parlare a tutti'. La notizia fa il giro del mondo. 

«Nacque il tuo nome da ciò che fissavi» 18-24 agosto 2019 | Fiera di Rimini XL edizione Meeting per l’amicizia fra i popoli

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Quello a cui stiamo assistendo nel nostro tempo è qualcosa di nuovo, di inedito: non bastano più le parole abituali per afferrarlo, e le analisi con cui si è cercato per tanto tempo di capire la crisi – o meglio le diverse crisi – del nostro mondo sembrano armi spuntate.
Da un lato una capacità stupefacente di costruire, manipolare e controllare la realtà attraverso un potere tecnologico sempre più diffuso; dall’altro un sempre più profondo smarrimento riguardo al senso per cui ciascuno di noi sta al mondo e alla società che si vuole costruire. E così, paradossalmente, alla potenza della tecnica, che muove ormai l’economia e la politica globali, si accompagna l’impotenza endemica della povertà – povertà di beni e soprattutto di significato – che dilaga nel mondo.
Ma qual è la novità che urge? Essa sta nella realtà più nascosta e apparentemente più scontata, ma al tempo stesso più essenziale e decisiva di tutto il resto: l’io di ciascuno di noi.
È in questa realtà del soggetto umano il punto infuocato del mondo intero, quello da cui dipendono ultimamente tutti i macrofenomeni della storia. Ma la grandezza e l’inquietudine dell’io, in ciascuno di noi, sta nella sua autocoscienza, nella possibilità – sempre aperta – di cercare e di scoprire ciò per cui vale la pena vivere e costruire. Qui sta il punto d’appoggio per vivere tutto: è grazie ad esso, alla consistenza della nostra coscienza, che possiamo affrontare le sfide della storia.
Per questo la domanda più interessante, e insieme la più pertinente al nostro presente, è: ma da dove nasce l’io? Da dove viene il “volto” di ciascuno di noi? Cosa dà peso e significato irriducibile al nostro “nome” proprio? Perché senza volto non si può guardare niente e non si può godere di niente; e senza nome ci si riduce al niente di una massa indistinta.
È la domanda acutissima e insieme disarmata che Nicodemo rivolse a Gesù: «Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?». E la vecchiezza non è solo e tanto quella dell’età, ma è soprattutto quella del cuore e dello sguardo. Come nasce, e come può rinascere di continuo il volto di una persona?
I versi da una poesia di Karol Wojtyla, che danno il titolo al Meeting 2019, mettono a fuoco il fatto – sperimentato da tutti, almeno nei momenti più importanti e decisivi della vita – che il proprio “nome”, cioè la propria consistenza umana nasce da quello che si fissa, e cioè dal rapporto con un altro da sé, con ciò da cui ci si sente chiamati ad essere. L’immagine cui la poesia si riferisce è quella della Veronica che fissa Cristo mentre passa con la croce. Ma tanti incontri evangelici raffigurano questa dinamica: come quello di Zaccheo che si sente guardato da Gesù e viene chiamato per nome: «scendi in fretta, vengo a casa tua!».
L’io può rinascere solo in un incontro, come quello del bambino con la sua mamma o di una persona grande con un'altra persona amata o con un amico. Un incontro pienamente umano, perché apre all’io una prospettiva di bellezza, un desiderio di pienezza, un’urgenza di verità e di giustizia che da solo non si sarebbe mai sognato.
In ogni incontro vero è come se ciascuno si sentisse “preferito”: proprio lui, proprio lei. Sembra la cosa più fragile e più esposta al caso; ma è l’esperienza più potente che possiamo fare, l’unica che può farci restare in piedi di fronte alle sfide del tempo. Non è anzitutto in uno sforzo di volontà o in una coerenza etica, che potranno essere affrontati l’incertezza e la confusione esistenziale che segnano la nostra epoca. Nessuna tecnica per la “cura di sé”, nessuna riflessione avrebbe la forza generativa di un incontro: solo una preferenza su di sé può strapparci dal nulla.
In uno dei punti più acuti del Senso religioso don Giussani scrive: «In questo momento io, se sono attento, cioè se sono maturo, non posso negare che l’evidenza più grande e profonda che percepisco è che io non mi faccio da me, non sto facendomi da me. Non mi do l’essere, non mi do la realtà che sono, sono “dato”. È l’attimo adulto della scoperta di me stesso come dipendente da qualcosa d’altro. [...] Si tratta della intuizione, che in ogni tempo della storia lo spirito umano più acuto ha avuto, di questa misteriosa presenza da cui la consistenza del suo istante, del suo io, è resa possibile. Io sono “tu-che-mi-fai”. [...] Allora non dico: “Io sono” consapevolmente, secondo la totalità della mia statura d’uomo, se non identificandolo con “Io sono fatto”. È da quanto detto prima che dipende l’equilibrio ultimo della vita»
Accorgersi di “essere”, aver coscienza che si è “chiamati” ad esistere è l’esperienza più sconvolgente per tutta la cultura – dalla scienza all’economia, dalla politica all’arte: da essa dipende la possibilità stessa di un nostro impegno serio nella realtà.
Nell’edizione del Quarantennale il Meeting vuole offrire questo come il contributo più prezioso della sua storia e del suo impegno presente: solo l’incontro con persone “vive” può riaprire l’io di ciascuno di noi a tutte le dimensioni del mondo.
https://www.meetingrimini.org/edizione-2019/

Erbette, che bontà!! Al castello di Senarega



La torta Pasqualina, i pansoti, il minestrone genovese:
piatti della tradizione cucinati da mamme e nonne, che come base hanno erbe spontanee, tipiche del territorio ligure. A renderle peculiari è proprio il clima della nostra regione: l’ambiente soleggiato, l’influenza delle montagne e del mare, formano un mix unico.

Fin dall’antichità venivano utilizzate in cucina, inizialmente considerate un cibo povero, oggi ristoranti e osterie tipiche le propongono nei piatti della tradizione riportando alla vita l’antico sapere dell’utilizzo delle materie prime provenienti dalla terra. Prodotto principe è il Prebuggiùn (o Preboggión), a base di circa 7 erbe spontanee considerate “povere” ma molto gustose: la borragine, la malva selvatica, il ravanello selvatico, la pimpinella, la grattalingua comune, la silene rigonfia e il grespino comune.

Parte della bellezza della natura è proprio avvicinarsi agli antichi saperi: una passeggiata può rivelarsi fonte di grandi scoperte. E’ proprio quello che succede al castello di Senarega ormai da un anno: grandi e piccini vengono accompagnati da un esperto conoscitore delle piante locali, imparando a riconoscerle, raccoglierle e successivamente cucinarle, seguendo le ricette dei nostri nonni.

segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone - Turismo Culturale

Torino. De Chirico e «l'antichità come futuro»

De Chirico e «l'antichità come futuro»
da Avvenire
Facciamo l’appello. Una mostra su Giorgio de Chirico è in corso fino al primo settembre a Genova a Palazzo Ducale. Finita questa, il 25 settembre è preannunciata da settimane una grande retrospettiva “tutto De Chirico” a Milano, nelle sale di Palazzo Reale, a cura di Luca Massimo Barbero, che radunerà circa cento opere anche da grandi musei stranieri. Nei primi mesi di quest’anno alla Fondazione Magnani Rocca è stata messa in scena l’accoppiata De Chirico-Savinio, un vecchio mantra che ripete e insinua il dubbio se Alberto non sia, in fondo, pittore più importante di Giorgio (certo fu un gigantesco scrittore, critico teatrale, musicologo e altro ancora). Alla fine dello scorso anno ha visto la luce la corposa (e faticosa: oltre cinquecento pagine) ricostruzione semiotica e analitica dei valori estetici delle immagini metafisiche di De Chirico, condotta da Riccardo Dottori e pubblicata dalla Nave di Teseo. Infine, questa mostra della Galleria d’Arte Moderna di Torino su De Chirico e la sua influenza sull’arte contemporanea (“Giorgio de Chirico. Ritorno al futuro”; fino al 25 agosto), in particolare l’ultimo De Chirico, quello più svalutato dalla critica, che si condensa nella categoria della Neometafisica. Si può considerarlo il conatus di De Chirico, una sorta di divertito gioco postmoderno che diventa metalinguismo riferito alle proprie fasi artistiche precedenti, dal periodo ferrarese della Metafisica (ma anche prima, in realtà, per esempio la formazione durante l’infanzia greca e poi il soggiorno parigino) fino alla citazione, i manichini e i gladiatori, ai ritorni su se stesso, ai depistaggi, al disinvolto esercizio della firma. Come dirà Andy Warhol, che lo amava particolarmente proprio per questa libertà che sconfina talvolta nella contraffazione di sé, «ripeteva i suoi dipinti di continuo». In mostra, una foto di Gorgoni del 1972 li riprende a New York rivelando nel chiaroscuro le loro contrapposte personalità: ironica e istrionica.
Prima di affrontare lo spunto che ci offre la mostra torinese curata da Lorenzo Canova e Riccardo Passoni, è giusto domandarsi che cosa possa significare questa concentrazione ravvicinata di mostre dedicate al pictor optimus. Indica forse che il pittore offre nuove suggestioni e ispirazioni? Non ne sono sicuro. Anche se la sua fantasia sontuosa e l’uso spregiudicato di una pittura che dall’eleganza scarta improvvisamente nella sciatteria, come accade appunto nella Neometafisica, può far pensare a un nume adatto al nostro tempo. L’affastellarsi di mostre in un tempo così contratto fa piuttosto pensare a un nuovo tentativo di sostegno del mercato di De Chirico, e magari proprio quei periodi che la critica ha spesso rifiutato. La critica, ma non gli artisti, come recita il motto – “Ritorno al futuro” – su cui si sdipana la mostra torinese. Scrive Canova che De Chirico ha decostruito il sistema dell’immagine stravolgendone i canoni tradizionali, «mettendo in crisi i suoi stessi codici fondativi». Se il primo De Chirico metafisico divide col dadaismo – come sostenne Maurizio Calvesi – «il recupero dell’oggetto così com’è», in realtà la categoria che opera trasversalmente sull’intero percorso creativo di De Chirico è proprio quella del metalinguismo, l’idea che la finzione sia a sua volta la finzione di una coscienza di quello che si sta facendo. Per De Chirico l’oggetto dipinto è inevitabilmente di testimone di qualcosa che sopravvive come dettaglio muto, è il reperto che ci parla dell’ultima Thule, dell’isola perduta (o che va a perdersi): l’arte stessa, travolta dalle distruzioni di un mondo che sembra non rendersi conto di ciò che produce: vuoto, morte, rovine, cancellazioni di ciò che ricordava alla nostra umanità quanto avevamo saputo osare anche contro il volere degli dèi. Attraverso De Chirico – scrive Canova – i contemporanei hanno riscoperto «uno scenario dove la rappresentazione iconica, esclusa e dannata per lungo tempo, si riproponeva come una nuova possibilità di salvezza per un’arte che doveva confrontarsi con la potenza visiva della comunicazione contemporanea». Ma è proprio su questa china che è discesa, fino a perdere la propria identità, l’arte contemporanea, divorata dalle regole della comunicazione.
Attenzione però, Canova parla di rappresentazione iconica, cioè di qualcosa che rimanda a una tradizione, ma in sé non è meno concettuale di altre esperienze che dominano la scena degli anni Settanta, quando De Chirico batte i soldoni della sua Neometafisica (e permea persino l’Arte Povera, come si capisce anche dalla foto di Claudio Abate su Kounellis- Apollo). Questo, in realtà, De Chirico lo pensava fin dagli anni Dieci: come definire, altrimenti, dipinti come Il canto d’amore del 1914 oggi al MoMA oL’incertezza del poeta del 1913 oggi alla Tate Gallery? La Neometafisica è dunque una dichiarazione aperta di ciò che negli anni Dieci e Venti era sottinteso: di che cosa parliamo quando parliamo d’arte? La mostra di Torino si avvale, per le opere del pittore, dei prestiti della Fondazione De Chirico e vi accosta opere di artisti contemporanei degli ultimi decenni del Novecento, che rendono davvero evidente e sorprendente l’influenza che il pittore ha giocato sulle loro menti. Non si tratta qui di discutere la qualità pittorica dell’ultimo De Chirico, ma di riscontrare la citazione che egli induce nel-l’altro: Mimmo Rotella gli rende omaggio con una grande lamiera nel 1988 rievocando la musa inquietante e lo intitola eloquentemente De Chirico; Emilio Tadini, Concetto Pozzati, Mario Schifano negli anni Settanta disseminano teste di manichini e muse in contrappunto al loro immaginario; Warhol lo celebra nell’82 con le Muse inquietanti quadruplicate e attraversate da intersezioni grafiche che rendono astratto (cioè reale) il senso dell’immagine dechirichiana; di grande impatto le “mediazioni” di Valerio Adami ( Pour Vous Madame, Pour Vous Monsieur, 1964), Philip Guston ( Wall, 1971) e Alessandro Mendini (Senza Titolo, 1986); un po’ troppo autoreferenziali i gladiatori di Salvo del 1978. Se in Interno metafisico con mano di David del 1968 De Chirico sembra ridurre un brano di anatomia michelangiolesca a un feticcio iconico, in realtà alcuni suoi notevoli disegni degli anni Cinquanta ne testimoniano l’attrazione forte per il genio toscano. E di seguito, quasi come trait-d’union fra i due, troviamo esposti alcuni smalti di Tano Festa che rendono più esplicita questa liaison artistica. Metafisico ma dechirichiano per sottrazione d’immagine è il grande pittore Fabrizio Clerici; poetico ma secondo il teatro d’ombre di matrice avanguardistica e tedesca è l’Oasi d’ombra di Gino Marotta; lontani, su una verticale zenitale, i parallelepipedi cementizi di Giuseppe Uncini; del tutto liberi da ogni ossequio al maestro, anzi con un intento competitivo, i due autoritratti (a trent’anni di distanza fra loro) di Luigi Ontani; allusivo rimando filosofico alla pittura di De Chirico, infine, La caduta del mondo di Giulio Paolini e di “pesante” contrappunto stilistico l’ala appesa a un telaio vuoto con la tela a sua volta appesa al chiodo, l’opera Senza titolo di Claudio Parmiggiani del 1988.
Altri ancora sono gli artisti esposti, in una mostra che persuade, più di ogni dimostrazione sui documenti, riguardo all’influenza della “Musa De Chirico” sulla scena artistica di fine secolo scorso. E il titolo della mostra potrebbe forse fare pendant con quello di un celebre saggio di Rosario Assunto del 1973, che fu uno dei testi filosofici fondanti del postmoderno italiano e del ritorno alla pittura, L’antichità come futuro. Una ipotesi che manca dall’agenda critica contemporanea (sempre che i critici di oggi dispongano ancora di un’agenda).