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Turismo: Dai, crediamoci. #ReggioEmilia è una città seducente

La statuta di Marco Emilio Lepido
Dai, crediamoci. Reggio è una città seducente. L’abitudine di stare e abitare qui, sul guardrail della pianura, fa apparire tutto consueto e domestico. La crisi ha appannato la vita che era aperta e frizzante come il Lambrusco. Le temibili infiltrazioni mafiose, le cronache giudiziarie e processuali hanno ora un maledetto sopravvento sulla sostanza di questa città.
Eppure in tre-quattro giorni va capitando ogni cosa buona, che non è poi tanto inarrivabile, o così rara: Reggio è cultura e fa cultura. Cioè quell’anticorpo del quale tanto si blatera, se ne lamenta colpevolmente l’assenza, se ne invoca l’indispensabilità. Eppure c’è. È attivo. Giovedì sera il “Valli” ha presentato il suo bilancio consuntivo e quello della nuova stagione, confermando che Reggio ha passione per il teatro, la danza, la musica con 210 eventi, 80mila spettatori paganti e 4.631 abbonamenti; un 2016-2017 denso di prospettive e progetti.
Questa è una città che si raddensa e rappresenta nei teatri, che altrove non sono così concentrati e attivi. Perché sostituiscono la piazza, sono luoghi civili: elevano. Venerdì, poi, è stata inaugurata l’undicesima edizione di Fotografia Europea.
 
LO STARE AL MONDO
Non preoccupatevi, non sto scodellando una facile sintesi del fine settimana reggiano più charmant dell’anno. Analizzo e scrivo che qui si concentra e scorre il sangue arterioso e si elettrizzano i neuroni più efficaci per lo stare al mondo della nostra città.
 
Mi piace ribadire lo stare al mondo. Modo di dire che nell'italiano corrente e nel dialetto più illuminato coincide con il tema del festival: la via Emilia, strade, viaggi, confini. Come non mai Fotografia Europea, oltre ad aprire e illuminare la città, “cala” nella genetica più arcaica, originaria, fondativa di Regium Lepidi. 
Ma anche nell’essere oggi al mondo di questa conurbazione fuoriuscita dall’esagono medievale che, appesa all’itinerario della strada romana, si tende nel mezzo della regione e - come canta il titolo - è insieme strada, dunque movimento (anche ignoto) e confine.
 
Per i fotografi dei due rami della manifestazione, on e off, che si esprimono nelle 73 mostre disseminate in centro e in periferia, il tema è generoso, eleva la città, trasforma la nostra provincia lunga in una componente del breve mondo contemporaneo. Ma il gusto della scoperta è altro. Meno complesso.
 
ERBAZZONE E CONOSCENZA
Il gusto è incarnato dal desiderio dei reggiani e degli ospiti, tanti, tantissimi, di popolare la città. Animare con fame di erbazzone e conoscenza, macchina fotografica e festa, una Reggio altrimenti ritenuta sazia (abbastanza), disperata (non troppo), condizionata o intrisa dagli insediamenti mafiosi (purtroppo), ma d’alti valori civili (ancora).
 
Una Reggio che, chissà per quale credenza secolare, troppi suoi abitanti ritengono culturalmente blanda, subalterna, secondaria. Balle. 
 
La produzione e l'appetito intellettuale qui sono immensi e corrispondono a luoghi architettonici o urbani sorprendenti, come i chiostri benedettini di San Pietro dove è stata ospitata la presentazione di Fotografia Europea, le vie, le cupole, le atmosfere, il tracciato della via Emilia che ancora infilza la città o è tutore obliquo di Reggio.
 
SPAESAMENTO
Sentite, leggete, come le ispirazioni collettive fanno crescere la concreta certezza che questo luogo coltiva cultura? Non soltanto locale.
 
Venerdì pomeriggio il chiostro grande tardocinquecentesco di San Pietro, quello con le statue, il bugnato alla romana, con la platea sprofondata in quelle che erano le cantine conventuali, ha aiutato il gioco liberante che si chiama spaesamento. Rinforzato dal senso della fotografia, la quale mostra il mondo con l’occhio degli altri. È un gioco così forte che spacca quello che all’inizio di questa mia pensata domenicale ho definito guardrail della pianura, che muto in cultura, cioè la via Emilia, il posto diagonale nel quale la valpadana s’increspa, si disassa, scivola inclinata da Rimini a Piacenza e viceversa, avvista il Po da una parte e la cordigliera appenninica dall’altra.
 
È un luogo favorevole e benigno, incerto tra il west e la pampa padana, scandagliato da Pier Vittorio Tondelli, Luciano Ligabue, Luigi Ghirri, Edmondo Berselli. Ce n’è abbastanza per credere fermamente che lo spirito emiliano esiste. Queste mie convinzioni corrispondono alla carta dell’Italia capovolta che fa da logo all’edizione 2016 di Fotografia Europea. Capovolta, con Reggio, il Po, la cresta appenninica in primo piano, in una visione sognante e scorciata che però non insinua disordine. Ma suggerisce orientamenti nuovi. 
Al di là della medicine selettive anticrisi, antidepressive sociali, antimafia, esiste davvero una profilassi preventiva
potente. La cultura, appunto. Qui si fa cultura. Reggio è una città bella.
 
s.scansani@gazzettadireggio.it

fonte: Gazzetta di Reggio

Isole Svalbard in nave: oltre l’80° parallelo Nord, dove l’estate dura un giorno. Lungo quattro mesi


Nella notte che non c’è, nella città silenziosa, sotto il sole bianco che non dovrebbe esserci, scorrono fiumi di birra sui tavoli all’aperto dello SvalBar. Fa freddo, ma non il freddo che ci si aspetterebbe qui a due passi dal Polo Nord, solo un’aria frizzante, da montagna, basta una buona giacca a vento e qualcosa in testa. L’umidità è quasi assente, si chiama “deserto artico”, meno di 400 millimetri all’anno di pioggia e neve. Il freddo secco si sopporta meglio. L’orologio segna le due, le tre, ma nessuno se ne va a casa. Giovani dalla barba bionda, qualche tratto asiatico. Uomini, donne di tante nazionalità che sembra di stare al palazzo dell’Onu. Si arriva qui per “qualcosa” che attrae. Il mondo ancestrale, la semplicità. La fuga da tutto. Meno complicato dei Caraibi. Australiani, inglesi, italiani, svizzeri. Sembrano felici e rilassati. Con i loro boccali di birra.
Succede così, da questa parti. Da Helsinki in su si vive seguendo i ritmi della natura. Se la tua giornata è di ventiquattro ore vai di corsa, se dura mesi ti adegui. Da novembre è buio totale, il sole si acquatta 6 gradi sotto la linea dell’orizzonte sino alla fine di gennaio. Non c’è neanche il barlume crepuscolare. Il sole piano piano riappare dopo l’inverno, qualche ora, poi sempre di più, fino ai mesi della luce perenne. E allora non te ne andresti mai a dormire. Dopo una notte così lunga hai una giornata infinita. Un giorno lungo mesi in cui si fa succedere tutto quello che si può. Feste, concerti, spettacoli. Si pubblica un giornale in lingue inglese, l’icepeople, per informare la gente. Basterebbe il passaparola in una capitale che ha la popolazione di un block di Manhattan. Giù a Helsinki, Oslo, Copenhagen ci si scatena, qualche volta si esagera. Ma questo è un altro Nord, è un Nord più delicato, intimo, da intellettuali potremmo dire. Qui tutto è silenzioso, quasi irreale. Ti guardi intorno, la città è questa. Un grande prato con file di casette di Lego, rosse, gialle, blu, squadrate, efficienti, senza un fronzolo. Appoggiate sul prato e appese al cielo. Qualcuno mette un palco di corna di renna sopra la porta d’ingresso. I maschi le perdono dopo la stagione degli amori. Basta raccoglierle. Un ornamento innocuo. Motoslitte giacciono abbandonate disordinatamente qua e là, per il momento inutili, indispensabili per i mesi con la neve. D’estate si usano le Land Rover. Un po’ di neve è rimasta, a macchie, non se ne va mai, passa da un inverno all’altro.
Una sola strada. Una sola auto che va avanti indietro, manco fossimo sulla main street di un paesotto della provincia americana. Non è neanche un pick-up, ma una vecchia Volkswagen azzurrina, come non se ne fanno più. Neanche nel colore. Niente sgommate.Tutto in silenzio. È una città dolce, questa. Quando arriva il buio dell’inverno si cena alle 5 del pomeriggio e si va a letto alle 6. Per dire. Una vita da orsi. «Andiamo in letargo anche noi», dicono da queste parti.
Longyearbyen, la città. Svalbard l’arcipelago abitato più a nord del mondo, di cui è la minuscola, irreale, capitale. SvalBar, il locale dove si beve birra. Piccola genialità nel nome. Ce n’è un altro di locale, il Kroa, pieno. Ma domani non è sabato e neanche domenica. «Chi non vive qui, chi vive il ritmo delle 24 ore, non può capire». Finisce che quando arriva l’inverno sei spossato da tante cose hai fatto. Non è che si stia solo a bere birra di notte, qui. È dal 1600 che popoli vari si affannano tra questi fiordi. Il primo europeo ad arrivare è stato Willem Barentsz, olandese, era il 1596. Diffuse la notizia di un posto pieno di balene, foche, trichechi. Arrivarono i cacciatori. Nel 1905 un americano di nome John Munro Longyear avviò l’estrazione del carbone di cui l’isola di Spitsbergen, che in olandese significa “monti acuminati”, sembrava zeppa. Cominciò a bucherellare come una talpa. Arrivarono i minatori. Non hanno ancora smesso. Sulle alture intorno alla città vedi costruzioni strane, impalcature, che sono gli ingressi delle miniere. Nello Svalbard Museum, che è una costruzione modernissima, mappe, disegni, fotografie spiegano ogni cosa. Le colline qui intorno sono tutte un buco e gallerie infinite. Longyear diede il nome alla città che sorse per i minatori, ma la“corsa al carbone” non fu clamorosa come quella all’oro nel Klondike. Però diede lavoro a un sacco di persone. Stagionali che arrivavano dalla Norvegia. Tre mesi e poi a casa. È un museo magnifico come sanno fare i nordici, con la ricostruzione di stazioni baleniere, degli accampamenti dei trapper, i cacciatori di pellicce che vivevano per mesi isolati in baracche di legno fra i ghiacci. E una collezione, unica al mondo, di mappe e di testimonianze delle escursioni di un secolo fa.
C’è una nave là fuori, attraccata in banchina. Una bella nave filante, costruita ad Amburgo nel 1956 e poi rifatta tante volte nel corso degli anni, rossa, come tutte le navi nordiche che devono farsi vedere nelle nebbie e nelle bufere, solida. Si chiama Nordstjernen, ha cabine piccole, da marinaio, un salone di legni lucidi e il sapore delle vecchie navi. Fa parte della flotta Hurtigruten, quella dei postali, solo 80 metri di lunghezza, solo 15 nodi di velocità, al massimo. È una nave leggendaria, un bel modo per andarsene in giro per l’Artico. Anzi, l’unico. Così si va in nave. Dai un’occhiata alla carta geografica e scopri d’essere dentro un intricato merletto di isole scavate dai fiordi. Il mare Artico si insinua dappertutto distribuendo salmoni e azzurro dentro le terre gelide. Questo di Longyearbyen è l’Adventfjorden, braccio laterale dell’Isfjorden; Spitsbergen la più grande di tutte le isole dell’arcipelago. Non chiamatela crociera, è solo un modo, anzi l’unico modo, per raggiungere luoghi altrimenti inaccessibili.
Fin qui si arriva in aereo. Prima tappa Oslo. Un paio di giorni per vedere appena un po’ della capitale norvegese, scoprire che sul bus dall’aeroporto c’è la connessione wi-fi, gratuita. Che la metropolitana si paga con la carta di credito (la infili nella stazione d’ingresso, fai lo stesso alla stazione di uscita e qualcuno calcola il dovuto). Che piazze, strade pedonali e giardini ti fanno meditare sulla possibilità di vivere qui. E poi si vola su alle Svalbard. Una notte di birre allo SvalBar e poi in navigazione tra i fiordi. Già il navigare è piacevole, ma gli approdi possono essere stupefacenti.  Per esempio Barentsburg, un villaggio russo degli anni ’40 mummificato insieme con i suoi abitanti e le statue di Lenin. È sulla stessa Spitsbergen, a una cinquantina di chilometri da Longyearbyen, ma irraggiungibile se non via mare. A piedi sarebbero due giorni di viaggio. In nave qualche ora e un salto nel tempo di più di mezzo secolo. È una città mineraria fondata dagli olandesi nel 1932 e ceduta alla compagnia sovietica Arktikugol. È una specie di enclave sovietica. Non della Russia di oggi, proprio di quella sovietica, con tutte le sue Repubbliche unite. Ci abitano quasi 500 persone, tutti minatori, tutti russi, dell’Urss intendo, ucraini, kazachi, bielorussi, con mogli e figli. Con quasi 500 abitanti è la seconda “città” delle Svalbard, visto che la capitale ne conta circa 2.100. È un’enclave culturale e architettonica straordinaria. Le case sono in rigoroso stile sovietico, la strada principale lastricata di cemento è rigorosamente percorsa da Uaz color ruggine e vecchie Lada, il busto di Lenin oversize c’è davvero. Grande come una locomotiva, sullo sfondo un palazzone razionalista stile Mosca anni ’60. Le case di legno appoggiate qua e là sembrano invece uscite dalla Russia di Gogol’. E perché non ci siano dubbi su come la pensano e su cosa rimpiangono gli abitanti di qui, un ragazzo esibisce una bandiera rossa. E se la mette vistosamente sulle spalle. Gesto spontaneo o programmato per il business turistico? Il turismo fa raggranellare qualche soldo ai minatori. Nel piccolo teatro si organizzano perfino ingenui spettacoli musicali che potrebbero essere un saggio di fine scuola nel dopoguerra in un villaggio uzbeko, a base di balletti e balalaike. Oltre alle vecchie canzoni tradizionali russe. Se si vuole c’è anche un minatore che fa da guida nel villaggio. Ha la faccia da Rasputin, la casacca da Rasputin, la barba pure, ma è gentile come uno che sa cos’è il business turistico. Mentre intorno passano facce da Corazzata Potëmkin e da rivoluzione bolscevica. Strana esperienza. Qualcuno ha raccontato loro cos’è successo un quarto di secolo fa? C’è naturalmente un negozietto di souvenir. I negozi di souvenir sono dappertutto, anche in Antartide. Naturalmente articoli russi d’antan. Cappelli militari, matrioske, orologi, cannocchiali, medaglie, qualche piccolo prezioso Lenin. Un museo, il Pomor, dal nome dei coloni russi “marittimi”, condivide lo stesso edificio con il centro culturale che sembra l’oratorio di Don Camillo. Complicate, ripide scalinate di legno portano giù al mare. Perché il viaggio riprende. E si torna nel mondo normale. Si fa per dire. Si va a Nord, come se non bastasse tutto il Nord che c’è qui. Fuori dall’Isfjorden, in mare aperto, sfiorando tutta la costa in una lunga navigazione che porta la Nordstjernen a superare un’invisibile linea virtuale che si chiama 80° parallelo Nord. Ancora dieci gradi e siamo al Polo. Basta così, più avanti ci sono i ghiacci. Accontentiamoci, è tutto il Nord che possiamo avere. Si va tutti a poppa a festeggiare, si stappa una bottiglia e ci si punta sulla giacca a vento il pin che ricorda l’avvenimento.
E la navigazione continua. La Nordstjernen è affascinante. Senti di stare su una nave vera, mica quei palazzi galleggianti che sono le star da crociera, tutte spettacoli serali e discoteche sfavillanti. Le cabine sono da marinaio. Strette, letti a castello. Il salone concede qualche lusso, ma moderato e in perfetto stile. Legno che odora di legno, l’ottone che luccica ma senza esagerare, piccoli tavoli e menù tradizionale. Poi i ponti ingombri di strutture tecniche, le scialuppe piuttosto dei lettini da solarium. Fuori scorrono i profili scuri delle isole e ogni tanto si approda. A Mushamna, nel Woodfjorden, dove c’è una vecchia stazione di caccia. E vedi dal vero quel che hai visto nel museo di Longyearbyen. Una capanna di tronchi dove i cacciatori vivevano, la piccola baracca che era il gabinetto, le trappole appese all’esterno, la dispensa, cioè una specie di torre protetta dal filo spinato dove mettere il cibo fuori dalla portata degli orsi. Tutto bianco di neve, molti uccelli nel vento, l’aria tersa. Un paesaggio limpido, da manuale.
La Nordstjernen funziona come un treno locale. Tappa al Monaco Glacier, con la sua cascata di ghiaccio che scende fino al mare. Poi dentro il Bockfjord, poi a terra con i gommoni, poi una lunga, faticosa, scarpinata nella neve alta fino ad arrivare a una piccola, stupefacente cosa. Cioè una minuscola polla d’acqua calda nella roccia. È la prova dell’esistenza di un vulcano da qualche parte là sotto che sembra che non erutti da qualche migliaio di anni. La sorgente sembra più un’acquasantiera.
E gli animali? Vista dalla nave una colonia di trichechi, una specie di folla da derby calcistico, pacificamente stesi sull’isola di Moffen, che è quella che sta poco oltre la linea dell’80° parallelo. Poi una balena al largo che sbuffava. E finalmente un orso. Uno solo. Però bellissimo, candido nella neve candida, plastico nei movimenti, una figura perfetta. Era sdraiato, si è accorto della nostra presenza, si è alzato lentamente e si è messo a guardarci, il corpo in una posizione, la testa girata verso di noi. Come le statue che vendono nei negozi di souvenir. Però uno solo. Funziona così con la fauna, questione di fortuna. Da queste parti gli orsi sono come i piccioni a Venezia. Ma in fondo averne visto solo uno ha fatto diventare magico l’incontro.
Il clou del panorama di ghiacci e azzurri in tante sfumature è ilMagdalenefjord. Ci si passa alle due di “notte”, col sole alto, mentre si scende a sud per infilarsi nel Lilliehöökfjorden, un altro di quei paesaggi da manuale. Un ghiacciaio che scende fino al mare,l’acqua piatta seminata di piccoli iceberg con pacifiche foche stese sopra come fossero su soffici sofà davanti a un caminetto. Si va in giro con i gommoni. Un blocco di ghiaccio grande come un condominio si stacca e piomba in mare per la gioia delle nostre macchine fotografiche. E poi Ny-Ålesund, 200 persone d’estate, 30 d’inverno. Più o meno tutti ricercatori, di ogni nazione, compresi gli italiani della stazione artica Dirigibile Italia. Un grande chalet di legno, laboratori con gli scienziati dentro. Conducono studi di ogni genere secondo un programma del Cnr. Per loro un grande frigorifero come questo, dove tutto si è conservato perfettamente per millenni, è straordinariamente interessante. Ed è pure un termometro dello stato di salute del pianeta e dei cambiamenti climatici. C’è pure una certa vita sociale, fra tutti gli scienziati delle basi. Il più alto concentrato di buoni neuroni al mondo. Ny-Ålesund è testimone della storia leggendaria del Polo Nord. Qui c’è ancora il traliccio cui era ancorato il dirigibile Norge con cui Amundsen e Nobile partirono per la loro impresa insieme.
Volendo in sei ore di motoslitta e un buon Gps si torna a Longyearbyen, e dev’essere una magnifica avventura. Noi si torna con la Nordstjernen. Allo SvalBar sono ancora lì che bevono birra al sole. Bianco.
Il Fatto Quotidiano

Chiese e vie dei pellegrini, l’altro volto del turismo nel Cusio

A Gozzano risorgerà l’antico mercato medioevale. A Briga Novarese verrà restaurata la chiesa della Madonna del Motto. A Soriso sarà valorizzata la chiesa della Madonna della Gelata. Nel territorio del Basso Cusio si allestiranno percorsi culturali e turistici sulle orme e sulle vie dei pellegrini medioevali. Un progetto europeo del valore di 250 mila euro.  

CON «SCHOLE’ FUTURO»  
I tre Comuni cusiani, con l’istituto per l’ambiente e l’educazione «Scholé Futuro» e la cooperativa Vedogiovane, sono i protagonisti di «Sulle vie della storia» finanziato da Fondazione Cariplo. «E’ un progetto molto importante - dicono il sindaco di Gozzano, Carla Biscuola, e l’assessore alla Cultura, Luisa Gregori - di durata biennale, che parte dallo studio e dalla riscoperta delle vie medioevali utilizzate dai pellegrini». «In Piemonte - aggiunge Maria Teresa Ferraris, coordinatrice del progetto - ci sono 650 chilometri delle antiche vie di pellegrinaggio. Il Novarese, Cusio e Ossola posseggono testimonianze di questi reperti. L’obiettivo è di riscoprire queste testimonianze storiche, valorizzarle, farne luogo di studio ma anche di turismo. In questo modo la cultura potrà creare un ciclo economico virtuoso, offrire nuovi posti di lavoro».  

COME SAN CARLO  
È lo storico Dorino Tuniz, del comitato scientifico del progetto, a ricordare come queste vie di pellegrinaggio siano state utilizzate per molti secoli: «Nel 1584 San Carlo Borromeo andò in visita a Varallo Sesia e tornò utilizzando il sentiero della Colma per arrivare sul lago d’Orta e da qui ad Arona.Fu l’ultimo suo viaggio: il giorno successivo all’arrivo a Milano morì». Tuniz ricorda che i sentieri medioevali erano spesso infestati dalle bande di briganti, soprattutto nella zona a sud di Borgomanero».  

IL MERCATO MEDIEVALE  
Sentieri, chiese e luoghi di rifugio per pellegrini possono diventare importante attrazione turistica, culturale ed economica. Si parte da tre Comuni e tre luoghi simbolo: a Gozzano la piazza San Giuliano e tornerà, un paio di volte all’anno, il mercato medioevale ai piedi della basilica; a Briga sono già a buon punto, come ha precisato il sindaco Chiara Barbieri, i restauri della chiesa della Madonna del Motto.  

A Soriso diventerà punto di riferimento l’oratorio della Madonna della Gelata, eretto all’inizio del ‘600: le madri portavano i bambini morti davanti all’immagine della Madonna per il miracolo del «repit». Il piccolo rinasceva per il «tempo di un respiro». Attimo necessario per battezzarlo.  
lastampa.it

FOTOGRAFIA EUROPEA, NON SOLO A REGGIO EMILIA. ECCO LE INDAGINI SUL PAESAGGIO DELLO CSAC NELLA SUGGESTIVA CORNICE DELL’ABBAZIA PARMENSE DI VALSERENA

Apre domani, negli spazi dell’Abbazia cistercense dello CSAC – Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università degli Studi di Parma inaugura ESPLORAZIONI DELL’ARCHIVIO. Fotografie della Via Emilia realizzato in collaborazione con Fotografia Europea e curata da Paolo Barbaro e Claudia Cavatorta.
Inserita all’interno dell’edizione 2016 della kermesse, intitolata "La via Emilia. Strade, viaggi, confini" in programma a Reggio Emilia dal 6 maggio al 10 luglio - l’esposizione omaggia il progetto Esplorazioni sulla via Emilia di trent’anni fa attraverso le monografie minime dei suoi protagonisti: Luigi Ghirri, Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Giovanni Chiaramonte, Nino Criscenti, Vittore Fossati, Omar Galliani, Guido Guidi, Mimmo Jodice, Klaus Kinold, Claude Nori, Cuchi White, Manfred Willmann.
Nella Sala delle Colonne troverà spazio un nucleo di fotografie dell’Ottocento degli studi Alinari, Brogi e Poppi, che documentano il paesaggio emiliano postunitario; un secondo nucleo di fotografie affronterà invece il Novecento attraverso gli scatti dell’Atelier Vasari di Roma e le narrazioni di viaggio scattate dal milanese Bruno Stefani a cui si aggiungono gli scatti del parmigiano Bruno Vaghi, i grandi formati di Publifoto e quelli provenienti dal fondo dell’Atelier Villani.
Nella Sala Polivalente verrà inoltre proposta l’esposizione Habitare la via Emilia. Presenze e luoghi di rifondazione insediativa, coordinata da Carlo Quintelli.
Durante il periodo della mostra, dal 21 maggio, saranno anche ospitate una serie di conferenze a carattere multidisciplinare con lezioni e talk di Giovanni Chiaramonte, Franco Guerzoni, Cristina Casero, Mario Cresci, Giulio Iacoli, Vittorio Gallese, Davide Papotti, Andrea Pinotti, Raffaella Perna, Carlo Quintelli, Tania Rossetto Roberta Valtorta(Paola Pluchino)
exibart.com

#FE2016 La fotografia ha attraversato molti confini ed esplora nuove strade, reinventandosi di continuo

Paola De Pietri, Senza titolo dalla serie QuestaPianura, 2004,
© Paola De Pietri, Courtesy Galleria Alberto Peola, Torino
E il festival fotografia europea lo racconta dilagando per il centro storico di Reggio Emilia. Intrecciando fotografia d’arte e di ricerca, e tutte le altre forme. Mettendo a confronto generazioni diverse. E se il clou degli incontri con gli autori è in programma dal 6 all’8 maggio, le mostre proseguono fino al 10 luglio.
A Palazzo da Mosto si confrontano nove autori intorno al tema della strada, del viaggio, del confine. In primo piano il lavoro di un reporter dal linguaggio originale come Paolo Pellegrin che racconta con immagini insieme dure e poetiche il confine tra Messico e Stati Uniti. Accanto alle visioni liriche di Ziad Antar e raffinatisse di Paola De Pietri e di atri autori come Michalel Najjar e Maamantai Collective,  Questa nuova onda di talenti da ogni parte del mondo nella edizione 2016 della rassegna sono messi a confronto con maestri assoluti della fotografia di paesaggio, come Luigi Ghirri. A trent’anni di distanza, infatti, viene ripropostEsplorazioni sulla via Emilia (1986), dove lo sguardo poetico e incantato di Luigi Ghirri,  incontra quello visionario diMimmo Jodice che trasfigura paesaggi degradati in disarmante bellezza e fa sembrare l’archeologia una presenza viva, insieme al racconto civile delle periferie urbane di Gabriele Basilico.
Nel 1984  Ghirri invitò colleghi scelti (fra loro anche Olivo Barbieri, Guido Guidi, Manfred Willmnan, oltre a Iodice e Basilico e altri) a raccontare da un punto di vista personale quell’arteria vitale e antica che innerva la terra emiliana. Il risultato fu di grande qualità artistica come rilevò Italo Calvino chiamato a scrivere l’introduzione ad un’opera letteraria a più mani in cui Gianni Celati, Antonio Tabucchi, Daniele Del Giudice e altri scrittori reinventavano l’esperienza dei viaggiatori che per secoli avevano percorso quella strada.  Che il festival torna ad esplorare «partendo proprio dalla grande arteria romana che va “dal fiume al mare” per approdare alle vie del mondo, ai luoghi di transito e di confine nella società odierna», come scrivono i curatori Diane Dufour (direttrice di La Bal, a Parigi), Elio Grazioli e Walter Guadagnini. Nella storica collettiva che vide la luce nel 1986 ad attrarci sono soprattutto le immagini di Iodice che ci raccontano un’Emilia fatta di atmosfere sospese nel tempo e quelle di Basilico dove la fotografia si fa indagine civile del paesaggio, con un linguaggio rigoroso, essenziale, mai meramente documentaristico. Anzi. L’impressione è che anche i suoi scatti, apparentemente più realistici, di fatto nascano dall’immaginazione. Il progetto Esplorazioni della via Emilia ha segnato un passaggio importante nella storia della fotografia come rilevano Antonella Russo in Storia culturale della fotografia italiana e Gabriele D’Autilia in Storia della fotografia in Italia (entrambi pubblicati da Einaudi). Quell’opera collettiva in cui spiccano tante personalità differenti fece di quegli autori personalità del mondo della cultura e non solo della cultura fotografica.

Il passato,  classici della fotografia come Walker Evans ( protagonista di una personale con 150 foto)  sono squadernate attraverso nuove esplorazioni,  passando da internet,  al digitale,  al virtuale. Ma qualunque sia la tecnica è l’originalità dello sguardo e della  visione a fare la differenza. A fare da filo rosso alle nuove proposte è la riappropriazione del territorio, che diventa materiale per raccontare la propria storia.  Passando da rappresentazioni realistiche a visioni spaziali, blu elettrico, come quelle Davide Tranchina che lo trasfigura poeticamente.
fonte: left.it

#FE2016 a Reggio Emilia Fotografia Europea 2016

Torna dal 6 maggio a Reggio Emilia uno dei festival più amati in Italia. Punto di partenza, la storica strada attorno alla quale nacque un'intera regione e i fotografi che l'hanno raccontata. Tutti gli eventi di quest'anno, a partire dalla mostra sul gigante americano Walker Evans

Trent’anni dopo, la via Emilia solca ancora una regione di terra e d’acqua, una fetta d’Italia che ancora si estende dagli Appennini alle onde (del Po e dell’Adriatico), attraversando il parmigiano, le discoteche e i carrelli elevatori, come quando la videro Luigi Ghirri e lo straordinario dream team di veggenti che mise assieme allora. Ma rivederla e rifotografarla oggi è un’avventura nuova. Cambiano i luoghi. Cambiano gli occhi. Da venerdì e fino al 10 luglio, a Reggio Emilia e altrove, questa terra torna a guardarsi allo specchio in un’edizione speciale, e allargata, di Fotografia Europea.

L'appuntamento clou per la fotografia. Doveva aspettare forse la sua maturità, il festival reggiano che è un appuntamento clou dell’anno fotografico, per affrontare quel mito che furono le Esplorazioni sulla via Emilia del 1986, libro che rivoluzionò la fotografia italiana di paesaggio, che ora torna virtualmente visibile nelle immagini recuperate dagli archivi: oltre a Ghirri, Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Giovanni Chiaramonte, Vittore Fossati, Guido Guidi, Mimmo Jodice, Klaus Kinold, Claude Nori, Cuchi White, Manfred Willman. Messe a confronto, in un intero piano degli splendidi Chiostri di San Pietro, con le “nuove esplorazioni” di autori di una generazione successiva, Alain Bublex, Stefano Graziani, Antonio Rovaldi, Sebastian Stumpf, Davide Tranchina, Paolo Ventura, Lorenzo Vitturi.
Discoteche, viaggi e operai. Ma il tema prosegue allo spazio Gerra con il viaggio di Gabriele Basilico nelle discoteche degli anni Ottanta (rivisitato da altri autori) e a Palazzo da Mosto con Dalla via Emilia al mondo, nove autori internazionali che lavorano attorno al tema del viaggio. E quest’anno, appunto, lungo la mother road della pianura padana, altre mostre in altre città indagano storie e cronache della terra che nacque da una strada. A Bologna, il Mast, il museo della fotografia industriale, contribuisce con una selezione (fino all’11 settembre), a cura di Urs Stahel, di duecento grandi immagini sull’Emilia Romagna al lavoro, dagli operai ancora contadini di Enrico Pasquali alla fabbrica del latte di William Guerrieri, dall’industria meccanica di Gabriele Basilico alle ceramiche di Paola De Pieri, ai centri commerciali di Olivo Barbieri, alla surreale strada-aeroporto di Franco Vaccari, allo sfregio cementizio dell’alta velocità di Tim Davis, John Gossage, Walter Niedermayr e Bas Princen. A Parma è lo Csac a ripescare dal suo prezioso archivio le immagini di un grande documentarista come Bruno Stefani e quelle professionali del bolognese studio Villani. A Rubiera, l’associazione Linea di Confine ritrova le esplorazioni di Guidi e di Ghirri e le mette a confronto con le visioni sperimentali di Sabrina Ragucci e Marco Signorini.

Il gigante Evans. Tornando a Reggio Emilia da non perdere a Palazzo Magnani il doppio omaggio a un gigante della fotografia americana, Walker Evans: Anonymous è la riscoperta, finalmente, del suo straordinario e spesso incompreso lavoro di editor oltre che di fotografo, mentre Walker Evans Italia indaga l’influenza di Evans (ispiratore riconosciuto di Ghirri) sulla fotografia italiana. Come ogni anno a Reggio c’è molto di più, ma non è difficile scoprire cosa sul sito della manifestazione. 
repubblica.it