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CONTINUA IL VOLO DELLE CITTÀ D'ARTE, 113 MILIONI DI PRESENZE



ROMA AL TOP CON 36,6MLN PERNOTTAMENTI,BOOM STRANIERI A MATERA Continua la crescita del turismo nelle città d'arte: hanno chiuso in crescita anche il 2018, con un aumento sia degli arrivi sia delle presenze, oltre un quarto delle presenze complessive in Italia (430 milioni nel 2018). Gli stranieri circa il 60% delle presenze. Emerge dai dati del Centro Studi Turistici di Firenze e Assoturismo Confesercenti. Roma meta regina, 15,2 milioni di arrivi e 36,6 milioni di pernottamenti (+1,1 milioni sul 2017) con il traino degli stranieri (il 64% delle presenze). Aumento boom (176%) a Matera di presenze negli ultimi 7 anni dovuti soprattutto alla domanda straniera (+216%). 

Il cucciolo di orso polare 'gioca a pallone'



Il cucciolo di orso polare Hertha gioca con una palla della omonima squadra di calcio 'Hertha BSC', dopo l'annuncio del suo nome, allo zoo Tierpark di Berlino.
La squadra di calcio di Berlino è lo sponsor dell'orso e decide di nome dell'animale, che è nato il primo dicembre 2018 al Tierpark.
ansa

Dalla Summer 2019 Ernest Airlines collega 12 aeroporti italiani all’Albania



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Ernest Airlines è lieta di annunciare l’inizio delle operazioni sulle nuove rotte dall’Italia per Tirana. Dal 31 marzo, Tirana sarà raggiungibile anche da Roma Fiumicino e da Genova con il nuovo A320, denominato David che è il quarto aeromobile che si aggiunge alla flotta (per il 2019 è previsto l’ingresso in flotta di 2 ulteriori A320 e di altri 5 nel 2020).
Inoltre, dal 31 maggio, saranno operative le rotte da Bari e Ancona per Tirana, cui si aggiungeranno Firenze e Rimini dal mese di giugno. In questo modo saranno serviti nel 2019 ben 12 aeroporti italiani.
L’incremento di rotte verso Tirana dall’Italia rappresenta per Ernest Airlines un consolidamento importante quale vettore aereo di riferimento, con un load factor dell’85% principalmente composto da passeggeri etnici ma non solo. Ernest Airlines ha trasportato 370.000 passeggeri nel 2018 da e per Tirana e conta, con l’estate 2019, di accrescere il traffico sui propri voli del 50%.
“Puntiamo ad offrire la maggior mobilità possibile andando ad espanderci in modo capillare su più aeroporti, offrendo un servizio di alta qualità a bordo, con una flotta giovane e moderna in continua crescita, con staff esperto e che si dedica con il cuore alla soddisfazione e alla sicurezza dei nostri passeggeri”; ha detto Ilza Xhelo, Chief Commercial Officer di Ernest Airlines.
Per quanto riguarda l’Ucraina, la compagnia annuncia oggi anche il reinserimento nella pianificazione estiva, a partire dal 14 giugno, del volo Venezia-Lviv nei giorni lunedì, mercoledì e venerdì. Ernest Airlines nel 2019 diventa la compagnia leader sul mercato Italia-Ucraina, con 40 frequenze settimanali attuali per Kiev, Lviv, Kharkiv e recentemente designata anche per i voli Roma Fiumicino-Odessa.

Destination Italia Awards 2018: Catania e Taormina vincono come destinazione must see


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Sono stati consegnati a Rimini nell’ambito di TTG Travel Experience i primi Destination Italia Awards. Il premio, alla sua prima edizione, è stato istituito da Destination Italia, azienda che opera nel turismo incoming in Italia, che ha voluto premiare le destinazioni italiane che si sono distinte nel sentiment delle recensioni online dei viaggiatori stranieri nel nostro Paese secondo le analisi redatte da Travel Appeal, realtà specializzata in Intelligenza Artificiale al servizio dell’industria turistica e partner di Destination Italia.
In particolare, tra le recensioni dei turisti stranieri provenienti dai mercati top di Francia, Germania, UK, Paesi Bassi, USA e Spagna (nell’ordine) è emersa quale destinazione “must see” Catania e Taormina con una percentuale di soddisfazione degli ospiti pari al 90,4%, molto alta, dunque, rispetto alla media nazionale e anche alla media generale del Sud Italia. Catania e Taormina sono state, appunto, percepite come territorio “omogeneo”, al di là dei confini provinciali, accomunate da un’eccellente proposta turistica di strutture e servizi.
Tra le destinazioni “secret”, analizzando i mercati di riferimento quali Germania, Paesi Bassi, UK, Francia, Belgio e Russia, è emersa invece la destinazione Ascoli e Valle del Tronto con una percentuale di sentiment positivo dell’89,4%, anche in questo caso ben superiore alla media nazionale e del Centro Italia.
Per Catania, in rappresentanza del sindaco Salvo Pogliese e dell’assessore alla Cultura Barbara Mirabella, ha ritirato il Premio Mavi Fesco, consigliere di Federalberghi Catania e vice-presidente Comitato Nazionale Giovani Albergatori Federalberghi, mentre per Taormina è stato Nicola Salerno di Egmont Viaggi a rappresentare il sindaco Mario Bolognari.
Per Ascoli e Valle del Tronto ha ritirato il premio Valentino Torbidoni, coordinatore delle attività di promozione della Regione Marche.
Le categorie “must see” e “secret” si riferiscono alla segmentazione delle destinazioni presente su www.destinationitalia.com, la piattaforma lanciata un anno fa da Destination Italia – che conta azionisti quali Gruppo Lastminute.com, Intesa San Paolo, il co-founder e CEO Marco Ficarra – con l’intento di servire sia i turisti stranieri che desiderano organizzare direttamente i propri viaggi nel Belpaese, sia i grandi tour operator internazionali alla ricerca di prodotto di qualità da offrire ai loro clienti più esigenti.
In generale, l’Italia presenta una percentuale di soddisfazione degli ospiti pari al 86,4% (+2,5 vs lo scorso anno) con un dettaglio che vede il Nord Italia a 85,9%, il Centro a 86,2% e il Sud a 87,5%.

Enit: in aumento i turisti dal Canada mentre cresce il turismo business dagli Usa



Il 51% dei movimenti turistici dagli USA in Italia ha origine dagli Stati della Costa Atlantica e il 23% da quella del Pacifico. Tra le aree metropolitane, il 15% dei flussi proviene da New York. In generale, il mercato statunitense nella nostra Penisola muove 4,1 milioni di turisti per 35,4 milioni di pernottamenti e una spesa di 5 miliardi di euro.
È quanto emerge dai dati diffusi dall’Enit secondo cui cresce anche la quota di viaggiatori canadesi nella Penisola: sono 1,1 milioni di turisti, in crescita del 14,4% in Italia nel 2018 sul 2017. In aumento i pernottamenti che salgono a quota 10,1 milioni nel 2018, circa il 15% in più rispetto all’anno precedente. Ma è la spesa dei turisti canadesi in Italia, pari a 1,6 miliardi di euro, a crescere a ritmi più sostenuti, circa il 25% sul 2017.
L’Italia convince gli Usa anche come meta MICE:  Milano è tra le location di tendenza per il congressuale in Europa nel 2019, concorrendo con Amburgo e Atene. In questo 2019 il numero medio di partecipanti per gruppo è di 48 congressisti,  in aumento del 17% sul 2018 per un costo per 255 dollari a partecipante.
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Enit in Brasile dal 2 al 4 aprile


L’Enit (Ente nazionale italiani del turismo) partecipa alla Wtm Latin America 2019, la principale fiera mondiale per l’industria di viaggi del continente, dal 2 al 4 aprile prossimi a San Paolo del Brasile. Nei tre giorni di eventi «B2B» sono attesi migliaia di visitatori presso lo stand Italia; nello spazio di 99 metri quadrati verrà ospitata la Regione Emilia Romagna assieme a 14 espositori tra i quali compagnie aeree, tour operator e hotel che presenteranno offerte per il mercato brasiliano. Novità di questa edizione è la promozione della Corsa Italia, speciale esperienza di 6 chilometri in programma il 9 giugno a San Paolo, uno degli eventi che anticipa le celebrazioni per il centenario Enit. Una zona sarà dedicata a esperienze di realtà virtuale lungo tre percorsi (città d’arte, food e lifestyle). Verranno inoltre distribuiti gadget promozionali a tutti i visitatori dello stand e una guida sulle regioni italiane con una mappa stradale della Penisola.
Prevista (il 2 aprile ore 15), sempre allo stand Italia, con il direttore dell’IF (ImolaFaenza Tourism Company, Erik Lanzoni) la presentazione degli eventi legati al ricordo del pilota Ayrton Senna che si terranno all’autodromo di Imola nel 25° anniversario della morte del campione il prossimo primo maggio. Sarà una cena istituzionale (sempre il 2 aprile) al Terraço Italia, rinomato ristorante italiano della capitale brasiliana, a favorire il networking tra operatori, stampa ed espositori. Protagonisti della serata gli chef Manuela Barbolan e chef Pasquale Mancini e il sommelier Francisco Freitas: presenteranno i prodotti enogastronomici del Belpaese con l’accompagnamento del pianista Daniel dos Santos Gonçalves e del tenore Daniel Umbelino e del soprano Simone Luiz che canteranno famose arie di autori italiani.

L’Italia è sempre più attraente per i flussi latino americani: secondo l’Ufficio studi dell’Enit (elaborazione  su dati Istat, Banca d’Italia e Unwto) gli arrivi aeroportuali dal Sud America nel 2018 sono cresciuti del +6,7% rispetto al 2017. I flussi turistici nelle strutture alberghiere italiane dai principali Paesi latino-americani risultano in aumento nel 2017 rispetto al 2016. Gli hotel ospitano la maggioranza dei flussi da ogni Paese, anche se nel biennio considerato cresce maggiormente la ricettività extra-alberghiera per entrambi gli indicatori, arrivi e presenze. In aumento il totale dei viaggiatori alle frontiere (+17,1%) e la spesa (+11,2%) dei turisti provenienti dai Paesi latino americani in Italia mentre risultano in leggera flessione i pernottamenti (-0,3%). In termini di spesa turistica, si registra un +12,5% degli introiti dal Brasile, pari a 720 milioni di euro, e dall’Argentina (+25,5%), ma anche è aumentato anche il numero di turisti messicani. Sono ancora una volta i brasiliani a spendere di più superando per budget Argentina e Messico.
«“Quello sudamericano è un mercato in espansione che pesca dal passato, si rigenera grazie anche al turismo di ritorno» dice il presidente dell’Enit, Giorgio Palmucci. «Il merito di questi successi va in particolare all’accordo di cooperazione tra Italia, Argentina e Brasile firmato dal ministro delle Politiche agricole e del Turismo Gian Marco Centinaio La conoscenza delle eccellenze italiane passa anche dalla nostra capacità di rafforzare la comunicazione del percorso esplorativo: un’esperienza che trova slancio anche nella centralità del food».
La Stampa

Tradizioni. Giappone, come sarà la nuova era?

La fioritura dei ciliegi, spettacolo primaverile di Tokyo / Epa/Kimimasa Mayama

da Avvenire
Si chiama Yusuke Yokobataka. Fino a qualche giorno era un ignoto funzionario della presidenza del Consiglio. In questi giorni è il giapponese in assoluto più “cercato”. Da quando è trapelato il suo nome, non esce nemmeno più dal suo ufficio, situato all’interno di Sorifu Kantei, il Palazzo Chigi del Giappone. Si è fatto portare una branda (lo fanno ancora in molti, in Giappone, quando c’è da fare straordinari) e si è barricato dentro. Quando deve usare la toilette, viene fisicamente scortato da 4 poliziotti, che impediscono ai reporter, anche loro “accampati” fuori dalla porta, di avvicinarlo. Questo fino al 1° aprile. Data in cui ci sarà l’annuncio. E lui potrà tornare a casa, rientrando nel suo dignitoso anonimato. Non è uno scherzo.
Il 1° aprile, esattamente un mese prima dell’abdicazione formale dell’attuale imperatore Akihito, il governo giapponese annuncerà il nuovo gengo, la nuova èra. Già, perché il Giappone, assieme alla Corea del Nord e a qualche altro Paese, non segue – o quanto meno non solo – il calendario “occidentale” (gregoriano), bensì uno suo particolare, legato all’imperatore in carica. Che infatti alla sua morte – o in questo caso, dopo l’abdicazione – assume, non avendone, come vedremo, uno personale, il nome della sua èra. Così dall’èra Showa (“pace illuminata”), quella dell’ex imperatore Hirohito, si era passati nel 1989 all’èra Heisei (“pace duratura”) quella dell’attuale imperatore Akihito. Ma ora si cambia di nuovo. Un gruppo di esperti, 14 per la precisione, rigorosamente selezionati dal governo e dalla Casa Imperiale, sono formalmente riuniti dal 14 marzo (ma in realtà è almeno un anno, da quando il governo ha finalmente dato via libera alle dimissioni dell’imperatore, che ci pensano su) per selezionare i due ideogrammi che dovranno simboleggiare la nuova era. Per farlo hanno in teoria un “serbatoio” di oltre 30 mila caratteri, ma in realtà dovranno scegliere tra poche centinaia, da quando il governo, nel 1979, ha emanato una legge che disciplina nei dettagli le caratteristiche che i due caratteri debbono avere. Una delle quali, la semplicità di scrittura. I caratteri giapponesi (e cinesi) infatti possono essere composti da un minimo di un “tratto” a oltre cinquanta.
L’estrema riservatezza con cui si sta proteggendo la complicata procedura di selezione della nuova èra – pare che ciascun “esperto” possa scegliere un minimo di 2 e un massimo di 5 nomi, che sono stati consegnati, in busta chiusa e anonima, al signor Yokobataka ieri, per poi essere consegnate al Consiglio dei ministri la mattina del 1° aprile, per la scelta finale – abbia a che fare con la sacralità del Tenno (“signore del Cielo”, da non confondere con il “Figlio del Cielo” che pertiene al sovrano cinese) e con la sua tuttora ambigua figura istituzionale. Perché se è vero che alla fine della guerra – per aver salva la vita – l’allora imperatore Hirohito rinunciò alla sua natura divina e che la vigente Costituzione definisce il Tenno semplice «simbolo dell’unione del popolo giapponese», attribuendogli un ruolo esclusivamente cerimoniale, è anche vero che tuttora il capo della religione indigena, lo shintoismo, e per la stragrande maggioranza dei giapponesi (che sull’argomento non amano comunque discutere) rappresenta un’entità unica e indefinibile, una sorta di “collante”, loro lo chiamanonibe, che attraverso una storiografia improbabile e una bizzarra e spesso divertente narrazione mitologica (consiglio, a questo proposito, la lettura del Kojiki, “Cronache dell’antichità”, tradotto anche in italiano da Marsilio) li tiene ancorati alle loro, tuttora ignote, origini. Il bello è che l’imperatore in realtà non esiste. C’è, lo si vede, parla, va in giro, amato e rispettato. Ma giuridicamente non esiste. Né lui né la sua ristretta cerchia di familiari hanno documenti d’identità, certificati di nascita, un cognome. A suo tempo, la principessa Masako – moglie di Naruhito, l’erede designato, che prima di essere praticamente obbligata a sposarsi conduceva una vita normale – cadde in una lunga e malcelata depressione perché aveva perso ogni forma di libertà personale: dal guidare una macchina all’uso del cellulare. «La vita, per i membri della famiglia imperiale giapponese – mi diceva padre Giuseppe Pittau, per anni rettore della Jochi, l’Università Cattolica di Tokyo – è molto dura, piena di doveri e di sacrifici. Nulla di paragonabile alla bella vita dei loro colleghi europei». Altro particolare: quando viaggiano, a differenza dei regnanti di tutto il resto del mondo, non hanno un passaporto. In questi casi si tratta pur sempre di formalità, a nessun poliziotto di frontiera verrà mai in mente di controllare il passaporto della regina Elisabetta, o di re Juan Carlos. O del Papa. Ma sta di fatto che i membri della famiglia imperiale giapponese non lo possiedono.
In Agape Celeste, uno dei suoi meno noti, ma insuperati per rigore accademico, saggi sul Giappone, Fosco Maraini affronta proprio le caratteristiche degli ultimi, così li chiama, «ambasciatori dell’Assoluto». Il Santo Padre, il Dalai Lama e il Tenno (spiegando perché non lo si possa o non lo si debba chiamare “imperatore”, visto che non “impera” per niente). Uno studio affascinante, in cui sostiene che il Papa è “ambasciatore” per vicariato e rappresentanza, il Dalai Lama per reincarnazione e il Tenno per – ovviamente presunta – discendenza diretta e consanguineità. Peccato che, come dire, i conti non tornino. L’attuale Tenno dovrebbe essere il 125° discendente diretto di Jimmu, a sua volta partorito dalla Dea del Sole Amaterasu, ma se ciò fosse vero vi dovrebbero essere sovrani che hanno vissuto centinaia di anni, mentre spesso e volentieri gli imperatori, mai davvero “regnanti” e quasi sempre ostaggio dei potenti di turno, morivano o venivano sostituiti in tenera età. Ma questa è la storia, che la sue dure regole. Il popolo giapponese – e i suoi media, che in questi giorni braccano il povero Yokobataka per cercare di carpirgli i segreti del gengo, la nuova èra – preferisce cullarsi nella leggenda. E affidarsi al potere taumaturgico delle parole: loro la chiamano kotodama, “potenza del verbo”. E sperano che dopo l’èra Heisei, “pace duratura”, che ha mantenuto le promesse (per la prima volta nella storia il Giappone non ha subìto né provocato guerre) anche la prossima non riservi brutte sorprese.

Rassegna a Perugia. Arte. Bolle di sapone. Il gioco e la vanitas

«Le conquiste di Napoleone» (disegno satirico d'epoca, particolare).
Avvenire

Un bus nella periferia di Milano viaggia apparentemente tranquillo con a bordo cinquantuno ragazzini. All’improvviso l’ombra della tragedia si stampa sulla vettura: l’autista, senegalese, minaccia di uccidere tutti i bambini come gesto cruento verso la politica del governo italiano su chi arriva dal mare: «Oggi da qui non esce vivo nessuno», dice, dopo aver cosparso di benzina il bus. Tutto sembra appeso a un filo, ma la prontezza di alcuni ragazzini del bus che non si sono fatti prendere dal panico e l’intervento delle forze dell’ordine sventa l’epilogo funesto. Tutti vivi e fieri del modo con cui sono stati protagonisti nello sconfiggere la minaccia (con tanto di comparsate televisive del tipo “che fenomeni!”). Sarebbe quasi un apologo a lieto fine se non fosse tutto vero. Tre giorni dopo mi trovo sulla strada verso Perugia quando una persona a me cara mi invia un sms tristissimo dove mi dice che due ragazzi di Bologna, due fratelli di una famiglia keniota da molti anni in Italia, sono morti cadendo dall’ottavo piano di un condominio nella periferia. Andavo a Perugia per vedere la mostra di cui oggi parlerò, il cui tema “figurativo” sono le bolle di sapone come simbolo della relazione tra vanitas arte e scienza e come “forma dell’utopia”. Il fatto è che all’origine di quel gioco, che prese piede proprio fra i bambini, quando nel XVI secolo si diffuse il sapone in Europa, c’è un’allegoria tragica: quella dell’uomo bolla che già lo scrittore latino Marco Terenzio Varrone, nella seconda parte del II secolo a.C. aveva così sentenziato: «L’uomo è una bolla, tanto più se è vecchio» e a lui s’ispirò Erasmo diciassette secoli dopo quando negli Adagia ribadiva: «Homo bulla est», motto che, scrive nel catalogo (Silvana) Veruska Picchiarelli stilando la scheda del dipinto di anonimo olandese Quis evadet?, avrebbe fatto da viatico all’iconografia dell’uomo bolla che si affermerà proprio in quel secolo, il Cinquecento. 
Questo lo schema iconografico riassunto dalla studiosa: «Un putto sorridente intento a soffiare bolle di sapone, apparentemente ignaro di essere condannato a durare poco più delle sfere iridescenti prodotte nel suo gioco, come ammonisce l’iscrizione “Homo bulla” vergata alle sue spalle». Il titolo dell’opera infatti chiede: “chi sarà risparmiato?”. La domanda, pensando ai due fatti da cui ho iniziato questa nota, è raggelante. In un caso tutti salvi, nell’altro due ragazzini che fanno un volo di quasi trenta metri e si schiantano al suolo (e forse, come pare, per un fatale incidente, occorso perché, messi in punizione dal padre, stavano cercando di “evadere” attraverso la fuga rocambolesca da un balcone). In un caso, dunque, l’esile filo di fumo che siamo regge il peso del fato mentre nell’altro si spezza. Un segreto scritto nell’iconografia antica delle bolle di sapone. 
Nella mostra di Perugia un bel dipinto attribuito all’olandese Gerrit Dou, attivo in pieno Seicento, raffigura Due ragazzi che soffiano bolle di sapone di cui, come scrive Carla Scaglioni, esiste una replica databile circa alla metà del secolo, che aveva a pendant il ritratto di un fumatore (tabacco e sapone arrivarono in Europa più o meno contemporaneamente tra XV e XVI secolo). Per questo, osserva la studiosa, la valenza allegorica sembra certa e allude alla transitorietà della vita e alla vanitas dei godimenti terreni. L’accostamento fra bolle di sapone e fumo «elementi inconsistenti e fugaci, legati alla metafora della dissoluzione della materia (e del corpo) e quindi della morte» non è affatto casuale. Dou, da almeno mezzo secolo, è considerato l’inventore di questo soggetto dei due ragazzini (e varianti) che poi ha ispirato altri pittori arricchendosi di molteplici elementi iconografici. E il tema incontrò parecchio il gusto dell’epoca e a seguire, se è vero che, come osserva ancora Carla Scaglioni, se ne trovano altri esempi fino agli inizi del Settecento. In mostra lo si ritrova in un dipinto di Domenicus van Tol, dove compare in primo piano un cane addormentato, e in quello di Pieter Cornelisz proveniente dagli Uffizi.
Karel Dujardin, «Ragazzo che soffia bolle di sapone» (1663, particolare)
Karel Dujardin, «Ragazzo che soffia bolle di sapone» (1663, particolare)
D’impostazione diversa, ma splendido per contrappunto fatale fra la bolla di sapone tenuta da un ragazzo nella mano sinistra e quella, ancor più grande, collocata nella valva di una conchiglia su cui si regge in equilibrio, il quadro di Karel Dujardin. Ispirato probabilmente al Cristo Bambino stante sul Globo di Antoon Van Dyck, è un’«allegoria della transitorietà e della brevità della vita umana». Dujardin, olandese che soggiornò negli ultimi tre anni di vita in Italia, dove morì a Venezia, era pittore colto, forse anche membro dell’Accademia di pittura di Haarlem, come ricorda Veruska Picchiarelli; il sorriso del ragazzino dai capelli biondi con tanti boccoli, osserva la studiosa, è un segno manifesto della sua incoscienza: «volgendo le spalle al porto e allontanandosi dalla riva, egli ride mentre gioca a soffiare bolle di sapone e non si accorge delle minacciose nuvole all’orizzonte e del mare sempre più increspato, ad annunciare una tempesta della quale è scontato l’esito». 
Ma ecco la morale: il fascino iridescente dei colori corruschi che la superficie della bolla cattura, incanta e spinge l’uomo, per amor di meraviglia e di bellezza, a sfidare la propria precarietà, quasi dimenticandosene. Più o meno nella stessa epoca Newton studiava le rifrazioni dei raggi sulle bolle di sapone, approfondendo i problemi dell’ottica e segnando la strada all’utilizzo sperimentale delle lamine saponate che nell’Ottocento, come ricordaMichele Emmer, saranno un modello empirico per affrontare vari problemi matematici e fisici. Ma non è qui che la bolla di sapone trova la sua piena collocazione nella conoscenza; essa resta allegoria della nostra finitezza e dell’essere la vita una realtà soffice, delicata e quasi inafferrabile nel suo alito; allo stesso modo della materia lieve da cui nasce, gonfiandosi di un respiro, il miracolo di una bolla che sotto la luce riflette il mondo sul quale si eleva. È davvero il miracolo della vita, la sua eterea ma potente sostanza pneumatica, che dovrebbe spingerci non soltanto ad avere di essa una considerazione retta sulla prudenza, per quanto protesa nell’azzardo, ma anzitutto a proteggerne la durata. Quanto più l’essere è fragile tanto più è prezioso e il modo di trattarlo deve esserne consapevole.
Cagnaccio di San Pietro, «Bolla di sapone» (1927)
Di quello che era un “caso serio” vestito di un’apparenza ludica si è persa con l’avanzare della modernità e con l’imporsi delle forme pubblicitarie la sostanza tragica, che pure resta intonsa nel significato simbolico (i bambini giocano con la meraviglia, ma anche loro vedendo le bolle che salgono verso il cielo e a un certo punto scompaiono vanificando la materia di cui son fatte, provano rammarico, ed è giusto che sia così, che generi in loro un dispiacere infantile da allontanare subito dopo con un nuovo soffio dentro la cannuccia). Tra Otto e Novecento le bolle di sapone diventano attributo di leggiadre signore, come fanno vedere i dipinti di Ranvier e Carcano, o le réclame di saponi industriali, dove magari (è il più spiritoso e meno scontato) Lancillotto trafigge una bolla che tuttavia pare immune dal suo fil di spada, come si vede nella pubblicità del sapone Paff-Seife disegnata da Maga. C’è ancora un’ombra di tragicità invece nel dipinto di Max Beckmann immerso nella pesantezza di un pensiero triste e malinconico; che diventa humour nero nella pipa da cui esce una grande bolla in Ce qui manque à nous tous di Man Ray (e qualcosa, forse, fa eco l’ampolla da chimista cui Duchamp impose il titolo Aria di Parigi). Durezza contro fragilità: la bolla di sapone ingaggia la sua lotta vittoriosa nel segno della libertà che vola oltre i muri, nella fotografia di Günter Zint Il ragazzo che vive nei pressi del Muro( 1963). Il bambino col suo alito genera decine di bolle, mentre sul Muro si vedono in grande le lettere KZ: era già la sigla di un campo di concentramento berlinese nel quale le SS rinchiudevano prigionieri destinati a fare il lavoro di sgombero delle macerie dopo i bombardamenti. Nella storia, come si sa, tout se tient, e una bolla di sapone può essere più forte di un muro di segregazione. 

Mostra / Reportage. Ellis Island, la porta del «nuovo mondo»... quando i migranti eravamo noi

Ellis Island, la porta del «nuovo mondo»... quando i migranti eravamo noi
avvenire

Annie Moore arrivò il 1° gennaio 1892 dopo una lunga traversata sull’oceano. Si era imbarcata due settimane prima su una nave a vapore partita da Cork, nell’Irlanda meridionale. Quel giorno, nell’isoletta alle porte di New York, si respirava aria di festa. Il centro immigrazione era stato appena inaugurato e si preparava ad accogliere i primi emigranti in arrivo dal Vecchio Continente. Possiamo immaginare lo stupore e la felicità di quella 17enne irlandese quando il capo degli ispettori, John Weber, le consegnò una moneta d’oro da dieci dollari aprendole le porte del sogno americano. Una statua in bronzo all’interno del Museo nazionale dell’immigrazione di Ellis Island la ricorda oggi come la prima emigrante arrivata qua alla ricerca di una vita migliore. Dopo di lei sarebbero sbarcati altri dodici milioni di uomini, donne e bambini in gran parte europei, tantissimi dei quali italiani. 
Annie Moore è diventata un simbolo di quell’emigrazione epocale iniziata nella seconda metà dell’Ottocento, sebbene uno studio recente abbia accertato che negli Stati Uniti non trovò mai la fortuna che cercava. Trascorse il resto della sua vita in povertà in un sobborgo di New York e morì poco più che 40 enne a causa di un attacco cardiaco, dopo aver seppellito cinque dei suoi undici figli, sfiniti dalle malattie e dalla denutrizione. 
Per oltre sessant’anni Ellis Island è stata la porta d’accesso al “nuovo mondo” e visitandola oggi è quasi impossibile non volgere il pensiero a chi, anche ai giorni nostri, è costretto a intraprendere viaggi simili, e vede spesso i suoi sogni sfociare nella disillusione. Un secolo fa questa era l’isola della speranza, nota anche comel’isola delle lacrime perché in tanti vi conobbero umiliazioni, deportazioni, respingimenti. Le famiglie qui potevano ricongiungersi oppure finire fatalmente divise da un destino crudele. 
La Statua della Libertà è così vicina che sembra quasi di poterla toccare. I grattacieli di Manhattan spiccano all’orizzonte lasciando immaginare la carica emotiva di chi arrivava qui dopo un’interminabile traversata oceanica. L’edificio principale di Ellis Island, in mattoni rossi con quattro torrette all’esterno, è stato interamente restaurato e aperto al pubblico nel 1990 e ospita oggi l’unico museo statunitense che documenta la storia dell’immigrazione dall’era coloniale ai giorni nostri. Ogni anno viene visitato da oltre quattro milioni di persone perché quasi la metà degli attuali abitanti degli Stati Uniti ha almeno un familiare passato dalle sue stanze.
Nel 1892 questa isoletta artificiale costruita con i detriti degli scavi della metropolitana di New York venne trasformata in un centro di ispezione per i migranti in arrivo negli Stati Uniti. Cinque anni dopo l’edificio principale finì distrutto da un incendio ma fu ricostruito e ampliato con nuovi spazi aggiunti per adeguare l’isola al crescente transito di persone provenienti da ogni parte del mondo. Le loro storie, in gran parte anonime, prendono forma al primo e al secondo piano con una serie di mostre fotografiche di grande impatto. Le sale e le stanze oggi adibite a spazi espositivi ricostruiscono esperienze di vita vissuta facendo ascoltare le voci registrate dei protagonisti e mostrando piccoli oggetti d’uso quotidiano come valigie, ceste, sacchi, utensili e abiti d’epoca.
«Sono venuto in America credendo che le strade fossero lastricate d’oro», recitava un famoso canto degli emigrati italiani, «ma quando sono arrivato ho visto che le strade non erano lastricate affatto e che toccava a me lastricarle». Ci sono stanze rimaste intatte da allora, come i dormitori nei quali sostavano i malati o le persone sottoposte a quarantena. Sempre al secondo piano si trova anche il luogo forse più evocativo dell’intero museo:l’enorme “Registry room”, la sala dove le persone attendevano con paura e trepidazione la chiamata degli ispettori per espletare l’ultima parte burocratica e ottenere finalmente il permesso di sbarcare. In quei lunghi interrogatori venivano loro richiesti i dati anagrafici, la professione, la destinazione, la disponibilità di denaro, gli eventuali carichi penali. E, non ultimo, l’orientamento politico. In poche ore si decideva il destino di intere famiglie
Il restauro ha ricreato un ambiente identico a com’era cento anni fa: l’imponente soffitto a volta in mattoncini bianchi, il pavimento color vermiglio, le bandiere a stelle e strisce issate sui parapetti. L’assenza delle panche dove sedevano gli emigranti in attesa di giudizio conferisce al grande salone ormai spoglio un’atmosfera di tragica ineluttabilità. Ma la “Registry Room” era soltanto l’ultima tappa di un lungo percorso che nella maggior parte dei casi si concludeva sui traghetti per Manhattan. Prima di arrivare lì i passeggeri di prima e seconda classe delle navi venivano ispezionati nelle loro cabine e scortati a terra dagli ufficiali dell’immigrazione. I più poveri, quelli che avevano viaggiato in terza e quarta classe, erano invece inviati sull’isola dove i medici li controllavano frettolosamente. 
Chi non superava gli esami veniva contrassegnato sulla schiena con un gessetto e sottoposto a ulteriori accertamenti. Una croce in caso di sospetti problemi mentali, altri simboli o lettere per disturbi quali ernia, tracoma, congiuntivite, patologie al cuore, ai polmoni o anche per una semplice gravidanza. Dai registri ufficiali risulta che appena il 2% degli emigranti sia stato respinto, circa un migliaio di persone al mese. Spesso venivano immediatamente reimbarcati sulla stessa nave che li aveva portati negli Stati Uniti e che in base alla legislazione americana aveva l’obbligo di riportarli nel porto dal quale erano partiti. Molti preferirono suicidarsi, piuttosto che affrontare il ritorno a casa. Le regole di esclusione erano spietate e imponevano che i vecchi, i ciechi, i sordomuti, i deformi e le persone affette da infermità, malattie mentali o contagiose non potessero accedere al suolo americano.
Il centro di Ellis Island era stato progettato per accogliere 500 mila persone all’anno, ma agli albori del secolo ne arrivarono circa il doppio, con oltre un milione di approdi nel solo 1907, l’anno più difficile. In seguito i decreti sull’immigrazione degli anni ’20 posero fine alla politica di «porte aperte» degli Stati Uniti e introdussero rigide quote d’ingresso basate sulla nazionalità. La Grande depressione del 1929 limitò drasticamente gli arrivi, che scesero dai circa 240mila del 1930 ai 35mila nel 1932. Ellis Island si trasformò a poco a poco da centro di smistamento degli immigrati a luogo di raccolta per deportati e perseguitati politici. Durante la seconda guerra mondiale vi furono rinchiusi italiani, tedeschi e giapponesi e anche in seguito venne utilizzata principalmente per la detenzione. La struttura venne chiusa definitivamente il 12 novembre 1954 e gli edifici in disuso andarono lentamente in rovina. L’ultima mostra fotografica racconta gli anni dell’abbandono e della successiva rinascita, con il lungo restauro che ha trasformato Ellis Island in un luogo imprescindibile della nostra memoria recente.

Arte. È mistero su che fine abbia fatto il Salvator Mundi attribuito a Leonardo

Il Salvator Mundi attribuito a Leonardo. Nel 2017 è stato pagato in asta 450 milioni di dollari

da Avvenire
Sembra essere stato inghiottito dalle sabbie del deserto il Salvator Mundi al centro di una molto controversa attribuzione a Leonardo e divenuto celebre soprattutto per essere stato battuto all’asta da Christie’s per 450,3 milioni di dollari nel 2017: un record assoluto.
L’opera è infatti attualmente “dispersa”. Il Salvator Mundi avrebbe dovuto essere esposto al Louvre di Abu Dhabi già a fine 2018. E nel 2019 sarebbe dovuto finire appeso alle pareti del museo madre parigino, ma da mesi non vi è più traccia di lui.
Secondo quanto riportato dal “New York Times”, proprio il Louvre francese non sarebbe in grado di “rintracciare" l'opera e che nemmeno ad Abu Dhabi sanno dove possa essere finita. Nulla anche dal presunto compratore (ufficialmente anonimo), il principe Bader bin Abdullah bin Mohammed bin Farhan al-Saud, divenuto Ministro della Cultura saudita. Anche il dipartimento culturale degli Emirati si rifiuta di rispondere alle domande, così come l’ambasciata saudita a Washington.
Disperati gli esperti che hanno avvallato la mano leonardesca nel dipinto. «Tragico» ha detto Dianne Modestini, professore all’Istituto di Belle Arti della New York University che ha restaurato la tavola: «Privare gli amanti dell’arte dal vedere un capolavoro di tale rarità è profondamente ingiusto». Lo storico dell’arte di Oxford Martin Kemp ha descritto il Salvator Mundi come «una sorta di versione religiosa della Gioconda in cui è presente una forte affermazione dell’inafferrabilità del divino». E nemmeno lui ha idea di dove sia.
La scomparsa del Salvator Mundi, così misteriosa da far dire al New York Times che si tratta di un “intrigo internazonale”, è però destinata a riaccendere la disputa sulla sua autenticità leonardesca, alimentando le voci sul timore del nuovo proprietario di un controllo pubblico. I contratti per le case d’aste includono una garanzia di autenticità di cinque anni.