Basterebbe la coppia di specchi di Antoni Gaudí realizzati per Casa Milà, che nel 2002 sono stati donati al Museo d’Orsay di Parigi, a far capire che il genio, quand’è grande, porta dentro di sé tutte le stigmate della sua origine terragna ma riesce, in virtù del proprio élan vital a far dimenticare il peso di una storia che ci consegna, come fu per Barcellona, il ricordo di un fervore moderno il cui fuoco fu alimentato dalle vite perdute di tanti che la rivoluzione industriale bruciò nel forno della nuova ideologia della produzione.
Il piano urbanistico di Ildefons Cerdà, approntato nel 1860 e iniziato con un decennio di ritardo, ridisegnò la faccia di Barcellona, occupando la piana che era rimasta libera fin dal Settecento; si presentava come una griglia razionale espressione del verbo funzionalista che si stava imponendo sulla spinta della nuova economia. L’impulso maggiore si ebbe dal 1880 e già nel 1910 la popolazione di Barcellona era quasi raddoppiata, avvicinandosi ai seicentomila abitanti.
Questi numeri, appoggiati su una panoramica delle questioni sociali (pesanti) indotte dalla modernizzazione, sono riassunti dal curatore della mostra apertasi a Palazzo dei Diamanti, Tomàs Llorens, dedicata alla «rosa di fuoco» (il titolo riprende quello di un saggio di Joaquín Romero-Maura uscito nel 1989 e recentemente ristampato, che faceva la storia dell’operaismo barcellonese fino al 1909, anno della sanguinosa “settimana tragica”, quando la rivolta popolare venne repressa dai militari e annegò nel sangue il sogno rivoluzionario.
Maura aveva a sua volta mutuato il titolo da una definizione dell’anarchico Antonio Loredo, che ai primi del Novecento disse: «Il luogo dove il popolo lottò con coraggio, arrivando a imporsi per mezzo del terrore, fu Barcellona, la Rosa di Fuoco, come la chiamiamo noi in America».
Quando guardiamo le opere degli artisti barcellonesi dell’epoca (la mostra parte idealmente dal 1888, anno dell’Esposizione universale, e si chiude appunto sul 1909), dobbiamo tentare di cogliere la tensione che si cela tanto nelle forme, quanto nella scelta dei colori, tendenti allo scuro, alla tumefazione, all’efflorescenza di sostanze crepuscolari, di luci che sembrano venire dal ventre della materia; e il blu di Picasso, che dà il nome al suo celebre periodo che inaugura il Novecento (nel 1904, ricorda Llorens, aveva già abbandonato la città), ne diventa l’allucinato riscontro.
La crescita urbanistica della città è frutto di una scommessa imprenditoriale dove alla tradizionale industria tessile si affiancano cartiere, cementifici, officine, impianti chimici. Si assorbe manodopera dalle campagne e aumenta il conflitto fra la tradizionale economia agraria e quella imposta dalle fabbriche (in pochi anni erano diventate più di mille). Il divario tra ricchi e poveri aumenta paurosamente: poche garanzie per gli operai, alcuni costretti a vivere in condizioni inumane, altri “rinchiusi” nelle Company town, cittadelle, o colonie industriali, imperniate sulla fabbrica e concepite in modo che gli operai abbiano meno distrazioni possibili, favorendo così un più alto tasso di produttività (qualcosa del genere fecero anche le industrie tessili di Eusebi Güell, il maggiore mecenate di Gaudí).
Il modernismo catalano prende forma in quegli anni nella pittura di Ramon Casas, Santiago Rusiñol, Adrià Gual, Julio González e Lluís Masriera. Su tutti si aleva Joaquim Mir, seguito a ruota dalle femmes fatales di Hermen Anglada Camarasa e dalla tenebrosa serie delle gitane di Isidre Nonell. I miserabili di Picasso sono già figure di un teatro esistenziale novecentesco, testimoniato dall’acquaforte del «Pasto frugale» (1904).
L’immaginario che vediamo sulle tele esposte a Ferrara costringe il furore e il dolore su cui la Barcellona modernista ha eretto il proprio orgoglio, sottopelle; lo lascia covare come braci che dovranno, quanto prima, riprendere fuoco della rosa rivoluzionaria e segnare la riscossa dei “miserabili”; sappiamo com’è finita. Il terrore che l’anarchico Loredo diceva essere l’arma del riscatto popolare, generò la “settimana tragica”. Picasso era già altrove, Gaudí continuava l’opera alla Sagrada Família, che aveva intrapreso nel 1883, subentrando all’architetto di Alfondo XII, costruendo prima la cripta e poi l’abside, infine ponendo mano alla facciata della Natività; nel 1926 improvvisamente morì finendo sotto le ruote del tram.
E mentre si guarda, all’inizio della mostra, la Sagrada Família nelle foto d’epoca di Adolf Mas e di Adolfo Zerkowitz, si capisce che cosa intendesse Le Corbusier quando disse che Gaudí era uno «scultore della pietra, del laterizio e del ferro». La chiesa incompiuta, che forse vedrà la fine nel 2026, si prefigurava, sotto le sue mani, come un frutto del sentimento neogotico e della tradizione del barocco ispanico, un’architettura fantastica fatta di sapienza tecnica, genio ornamentale e iconografia sacra. Gaudí modificava le sue idee in opera, il cantiere era il banco di prova per correggere il tiro; per questo la Sagrada Familia sarà sempre un’opera incompiuta, anche se in essa alita il suo spirito. Non sapremo mai come l’avrebbe condotta in porto, e i suoi disegni sono simili a una notazione musicale consegnata all’interpretazione di un direttore d’orchestra (che non è il compositore).
Ma i due specchi, evocati all’inizio, da soli mostrano quanta libertà poetica ci fosse nella mente e nelle mani di Gaudí, quanto visionario coraggio e raffinato senso della forma fu capace di esprimere, quanta cultura e arcaico sentimento del rapporto tra uomo e mondo. Ecco l’eredità “rivoluzionaria” della Rosa di Fuoco.
Ferrara, Palazzo dei Diamanti
La Rosa di Fuoco
Fino al 19 luglio
avvenire