E’ una meravigliosa giornata all’aperto quella che si celebra in Svezia il terzo weekend di giugno per il solstizio d’estate: dopo il Natale, la festa di Mezza Estate, la Midsommar, è la ricorrenza più importante del calendario svedese. Ci si ritrova all’aperto per organizzare pranzi luculliani con le corone di fiori tra i capelli, per ballare intorno a un palo decorato e cantare bevendo lo snaps (la tipica grappa aromatica svedese), riscoprendo il contatto con la natura in tutte le forme possibili. Ecco dunque che per vivere con gioia le atmosfere di Stoccolma è bene lasciarsi coinvolgere dalla Midsommar assaporando le ricette tipiche e concedendosi, tra un ballo e un gioco, anche del tempo per scoprire la città.
Si può iniziare in mattinata dal centro, ovvero Gamla Stran: la città vecchia è fatta di edifici storici e strette viuzze ricche di negozi e gallerie d’arte e vi si ergono il Palazzo Reale e la Cattedrale, oltre al Municipio dove si tiene ogni anno la Festa dei Premi Nobel. Le grandi sale del Palazzo Reale, aperte al pubblico, ospitano visite di stato, udienze e ricevimenti e il palazzo ricopre un ruolo determinante nel panorama europeo per la sua bivalenza di residenza reale ufficiale e di monumento storico-culturale. La Cattedrale, detta anche Chiesa Grande, è l’edificio più antico di Stoccolma e risale al XIII secolo: più volte rimaneggiata durante il Settecento si presenta con l’interno dall’architettura gotica con tocchi barocchi. Il pomeriggio si può proseguire con una meravigliosa gita in battello per un tour dell’arcipelago, magari approdando all’Isola di Djurgarden, immersa nel verde e ricca di attrazioni turistiche come lo Skanes un museo all’aria aperta che riproduce usi e costumi della vita vichinga o il Vasa Museum dove si può ammirare l’unico vascello al mondo che dal XVII secolo sia giunto ai giorni nostri.
Anche il giorno successivo lo si può dedicare ai musei: vale la pena una visita al Museo Marittimo Nazionale, in cui sono esposti reperti che riguardano la marineria svedese, il Tekniska Museet dedicato alla scienza e alla tecnica ma anche il Museo Nordico, in stile neo gotico rinascimentale, che celebra il folclore, gli usi e i costumi del popolo svedese. Inoltre, tra i 70 musei presenti in città, spiccano anche quello della fotografia, della musica e della numismatica. Particolare è lo Junibacken, dove tutte le cose si possono provare e toccare, vero paradiso dei bambini poiché vi sono ricostruite le ambientazioni delle fiabe e delle storie della scrittrice Astrid Lindgren, la creatrice di Pippi Calzelunghe.
turismo.it
Istanbul, il paradiso dell’hamam
Nell’antico impero ottomano, quando le abitazioni private erano sprovviste di bagni, l’hamam assolveva principalmente la funzione di pulizia. Era ovviamente anche un luogo di socializzazione, ritrovo ed intrattenimento, ma il bagno turco era stato pensato in primo luogo ed essenzialmente proprio come bagno pubblico. Oggi, l’idea del bagno turco è legata invece al relax e al benessere: ambiente quasi sempre presente nei percorsi e rituali Spa che si rispettino, l’hamam per definizione, incantevole, esotico ed affascinante, resta comunque quello made in Turchia, in particolare gli edifici storici ancora presenti ad Istanbul, come l’antico Ca?alo?lu Hamam?, risalente al 1741.
IL TRATTAMENTO. Il primo ambiente che si incontra entrando nell’hamam è il camekan, una sorta di vestibolo o sala relax nella quale solitamente si sorseggia una tazza di tè, ci si spoglia e si indossa il pe?temal, con cui coprire le parti intime. Successivamente si entra nel so?ukluk, sala di transizione prima di accedere all’hararet, vero e proprio cuore dell’hamam. Nel centro dell’hararet, stanza calda e piena di vapore dove si suda e ci si rilassa prima di effettuare il bagno, c’è una grande lastra di marmo chiamata göbekta??, dove si possono ricevere i due trattamenti principali: la kese (tradizionale pulizia della pelle che viene strofinata a fondo con un guanto di crine) e un massaggio, normalmente abbastanza rude, di 5 o 10 minuti; si conclude il trattamento con il lavaggio finale con acqua calda e sapone.
L’ESPERTO. Gli effetti benefici dell’hamam vanno ben oltre il rilassamento: il vapore caldo stimola un ricambio dell’acqua e pulisce le vie respiratorie, ripristinando una corretta umidificazione delle vie aeree spesso sofferenti per via della permanenza costante in ambienti condizionati e dunque secchi; altro effetto è la vasodilatazione, che migliora la circolazione e l’aspetto della pelle, facendola apparire subito più morbida, nutrita e vellutata.
I DINTORNI. Perdersi nella magia della vecchia Istanbul, fare shopping al Gran Bazar, lasciarsi affascinare da una romantica crociera sul Bosforo o ammirare la meravigliosa Basilica di Santa Sofia, la Moschea Blu e quella di Solimano. Sono tante le attrazioni da non perdere nella meravigliosa città turca, un gioiello da visitare almeno una volta nella vita.
turismo.it
Gastronomia / Massimo Bottura, lo chef sulla cima del mondo
Nella galassia dei ristoranti la stella che brilla di luce più viva è italiana. E modenese: l’Osteria Francescana di Massimo Bottura. Tanta soddisfazione ma, diciamocelo, sorpresa relativa. È come se il Brasile vincesse i Mondiali di calcio o, meglio, gli Usa le Olimpiadi del basket. Anche se siamo primi pure nell’arte di denigrarci, con il mitico Tafazzi come eroe nazionale, nel cibo siamo inequivocabilmente primi. Bottura poi lo scudetto se l’è guadagnato con certosina pazienza: terzo nel 2013 e nel 2014, secondo l’anno scorso. E adesso finalmente primo, scalzando i soliti spagnoli del Cellar Can Roca di Girona, nella classifica stilata da mille esperti gastronomi di tutto il mondo reclutati dalla rivista inglese 'Restaurant'.
Che cosa è piaciuto di Bottura? Nella motivazione del premio si legge: «In un paese in cui la cultura del cibo è profondamente conservatrice, Bottura ha avviato un percorso audace e talvolta controverso raccogliendo poi consensi in tutto il mondo e conquistando anche la critica italiana», notoriamente tra le più difficili da accontentare. Ma di Bottura pare sia stato apprezzato anche il 'cuore sociale', quello che nell’anno dell’Expo lo ha spinto, con il regista Davide Rampello ideatore del Padiglione Zero, a proporre alla Caritas di Milano un’iniziativa a favore dei poveri per recuperare gli 'avanzi', si fa per dire, dei tanti locali dell’Expo. Niente sprechi, e riciclo, dunque. È così che è nato il Refettorio Ambrosiano in un teatro degli anni ’30 in disuso, adiacente alla parrocchia di San Martino a Greco.
Sfamare tutte le sere i poveri con gli alimenti avanzati all’Expo, dando un esempio concreto di come si può e si deve lottare con creatività contro lo spreco. Ma non solo. Ci si nutre di cibo ma anche di bellezza. Così il refettorio Bottura-Caritas-Rampello, in stretto ordine alfabetico, è impreziosito da opere d’arte di Enzo Cucchi, Carlo Benvenuto, Maurizio Nannucci, Mimmo Paladino e Giuseppe Penone; e i tavoli sono firmati dai designer italiani Bellini, Cerri, Cibic, De Lucchi, Iacchetti, Lissoni, Mendini, Novembre, Origoni, Pesce, Rota, Terry, Thun e Patricia Urquiola. Durante l’Expo i pasti sono stati preparati da 40 grandi chef. Finito l’Expo, la Caritas Ambrosiana ha assunto completamente il servizio. Il Refettorio oggi ha 90 posti e prepara pasti caldi per i Centri d’ascolto e il Rifugio per i senza tetto della Stazione Centrale.
L’idea di Bottura, dunque, oggi cammina con le proprie gambe. E un’altra idea sta per essere realizzata per i Giochi Olimpici: una 'soup kitchen' nelle favelas di Rio de Janeiro. Impossibile ieri parlare con Bottura, ancora negli Usa e assalito da giornalisti e troupe. Sul palco era stato visto commosso: «Mi vien quasi da piangere » aveva detto invitando la moglie Lara, americana, a raggiungerlo. «In questi giorni – aveva aggiunto – riuscire significa usare l’ingrediente della cultura, perché la cultura è conoscenza e la conoscenza apre le coscienze e crea responsabilità». Tutto sommato, dicevamo, un successo annunciato. Ieri la Coldiretti, congratulandosi con il miglior ristorante del mondo, dava cifre confortanti che avvalorano il successo del cibo italiano.
Nel 2015 l’export agroalimentare italiano ha raggiunto il suo massimo storico, con 36,9 miliardi e un aumento dell’8 per cento rispetto al 2014. I turisti stranieri acquistano prodotti alimentari assai più che souvenir, abbigliamento e artigianato. In generale, l’Italia è unica al mondo con 4886 prodotti alimentari tradizionali censiti dalle regioni, 283 specialità Dop/Igp riconosciute dalla Ue e 415 vini Doc/Docg. E poi ti chiedi perché Bottura vince: è la vittoria sua, ed è la vittoria di un movimento.
Avvenire
Scaffale Basso / Vacanze, giochi e altri segreti degli amici animali
da Avvenire
Le vacanze della famiglia di Topo Postino non sentono il vento della crisi: il programma prevede una sorta di giro del mondo che spazia dai Tropici al deserto al Polo. E anche oltre. Chiuso l’ufficio, l’indefesso postino approfitta del viaggio di famiglia per consegnare gli ultimi pacchetti ad amici e parenti poi si dedica all’assoluto relax. Così facciamo conoscenza con zia Paolina che abita nei pressi di un bosco in una roulottina che sembra una casa di bambola, possiamo soffermarci a osservare il castello vista mare del signor Granchio, salire sulla nave da crociera che pare una lussuosa e moderna arca di Noè, approdare sull’isola vulcanica dove signor Tarzan abita una casa sull’albero e visitare la residenza estiva dell’amico Drago.
E poi ancora ci possiamo infilarci nella carovana di dromedari che attraversa il deserto dove i grandi cactus sembrano b&b per lucertole, proseguire per la savana, visitare le grandi città e infine toccare le estreme lande del profondo Nord dove si può ammazzare il tempo prendendo amabilmente il tè nella dimora brinata del signor Polare… Insomma, giratele come volete ma Le vacanze degli animali (Orecchio acerbo; 13,90 euro) raccontate e illustrate con dovizia di particolari da Marianne Dubuc assomigliano molto a quelle degli umani, solo sono molto più divertenti e rilassate. Si capisce quanto Dai 4 anni
Cosa fanno gli animali quando piove? Bè, se immaginate che i giorni bigi siano pieni di noia, fastidi e tristezze, sbagliate di grosso. Con i suoi inconfondibili disegni Soledad Bravi, illustratrice francese di fama, racconta quante cose si possono fare quando il maltempo costringe a stare al chiuso.
In questa sorta di catalogo dei tempi piovosi, per esempio, i leoni giocano a carte e gli struzzi approfittano per scatenarsi in un ballo di gruppo, il piccolo toro ritaglia le figurine mente lupo e giraffa si svagano con il calcetto. C’è chi sente musica e chi si legge una storia, chi si mette lo smalto alle unghie, chi fa merenda, chi dipinge e chi coglie l’occasione per improvvisare un bel tuffo o una bella nuotata… Cosa fanno gli animali quando piove? (Edizioni Clichy; 17 euro) è un albo che bene si presta a una lettura condivisa con i più piccoli i quali apprezzeranno i disegni divertenti, ben definiti a tinte forti e piene, contornati di nero. Dai 4 anni.
La firma di Leo Lionni non teme confronti. Con la sua consueta tecnica a collage, ci regala con questo E’ mio!(fatatrac; 15,90 euro) un racconto sulla tumultuosa relazione tra pari, amici o fratelli che siano. Non c’è pace per le tre rane litigiose che dall’alba al tramonto si contendono di tutto gracidando ad alto volume. E sbraitando l’odioso ritornello “è mio!”. È un grosso rospo a rimproverare le tre rane discole. Non si può vivere litigando, cercando di accaparrarsi ogni pezzetto di mondo. La soluzione è semplice: se, invece di sopraffare il prossimo, si provasse a condividere? Dai 3 anni.
Credere alle favole non vuol dire negare l’evidenza. Dunque perché concludere sempre con quel ritornello fisso “… e vissero tutti felici e contenti” quando non è per nulla così? Giulia, lettrice appassionata di favole, ha capito che il drago non è affatto felice e neppure contento.
Anzi, è piuttosto triste e depresso. Il re lo odia per colpa di quella incapacità a controllare il suo fiato spargi fiamme. E lui ne soffre. Se soltanto si riuscisse a trasformare un problema in una risorsa il gioco sarebbe fatto. Giulia, bambina intuitiva, ha un progetto ambizioso e furbo per il Drago. Le raffinate illustrazioni di Lesley Barnes fanno di Giulia e il Drago (Gallucci; 18 euro) un albo prezioso che costringe anche i più piccoli a ragionare sui talenti di ciascuno. Un patrimonio che, riconosciuto e bene incanalato, fa sì che ogni individuo possa realizzarsi in pieno. Dai 5 anni.
Le vacanze della famiglia di Topo Postino non sentono il vento della crisi: il programma prevede una sorta di giro del mondo che spazia dai Tropici al deserto al Polo. E anche oltre. Chiuso l’ufficio, l’indefesso postino approfitta del viaggio di famiglia per consegnare gli ultimi pacchetti ad amici e parenti poi si dedica all’assoluto relax. Così facciamo conoscenza con zia Paolina che abita nei pressi di un bosco in una roulottina che sembra una casa di bambola, possiamo soffermarci a osservare il castello vista mare del signor Granchio, salire sulla nave da crociera che pare una lussuosa e moderna arca di Noè, approdare sull’isola vulcanica dove signor Tarzan abita una casa sull’albero e visitare la residenza estiva dell’amico Drago.
E poi ancora ci possiamo infilarci nella carovana di dromedari che attraversa il deserto dove i grandi cactus sembrano b&b per lucertole, proseguire per la savana, visitare le grandi città e infine toccare le estreme lande del profondo Nord dove si può ammazzare il tempo prendendo amabilmente il tè nella dimora brinata del signor Polare… Insomma, giratele come volete ma Le vacanze degli animali (Orecchio acerbo; 13,90 euro) raccontate e illustrate con dovizia di particolari da Marianne Dubuc assomigliano molto a quelle degli umani, solo sono molto più divertenti e rilassate. Si capisce quanto Dai 4 anni
Cosa fanno gli animali quando piove? Bè, se immaginate che i giorni bigi siano pieni di noia, fastidi e tristezze, sbagliate di grosso. Con i suoi inconfondibili disegni Soledad Bravi, illustratrice francese di fama, racconta quante cose si possono fare quando il maltempo costringe a stare al chiuso.
In questa sorta di catalogo dei tempi piovosi, per esempio, i leoni giocano a carte e gli struzzi approfittano per scatenarsi in un ballo di gruppo, il piccolo toro ritaglia le figurine mente lupo e giraffa si svagano con il calcetto. C’è chi sente musica e chi si legge una storia, chi si mette lo smalto alle unghie, chi fa merenda, chi dipinge e chi coglie l’occasione per improvvisare un bel tuffo o una bella nuotata… Cosa fanno gli animali quando piove? (Edizioni Clichy; 17 euro) è un albo che bene si presta a una lettura condivisa con i più piccoli i quali apprezzeranno i disegni divertenti, ben definiti a tinte forti e piene, contornati di nero. Dai 4 anni.
La firma di Leo Lionni non teme confronti. Con la sua consueta tecnica a collage, ci regala con questo E’ mio!(fatatrac; 15,90 euro) un racconto sulla tumultuosa relazione tra pari, amici o fratelli che siano. Non c’è pace per le tre rane litigiose che dall’alba al tramonto si contendono di tutto gracidando ad alto volume. E sbraitando l’odioso ritornello “è mio!”. È un grosso rospo a rimproverare le tre rane discole. Non si può vivere litigando, cercando di accaparrarsi ogni pezzetto di mondo. La soluzione è semplice: se, invece di sopraffare il prossimo, si provasse a condividere? Dai 3 anni.
Credere alle favole non vuol dire negare l’evidenza. Dunque perché concludere sempre con quel ritornello fisso “… e vissero tutti felici e contenti” quando non è per nulla così? Giulia, lettrice appassionata di favole, ha capito che il drago non è affatto felice e neppure contento.
Anzi, è piuttosto triste e depresso. Il re lo odia per colpa di quella incapacità a controllare il suo fiato spargi fiamme. E lui ne soffre. Se soltanto si riuscisse a trasformare un problema in una risorsa il gioco sarebbe fatto. Giulia, bambina intuitiva, ha un progetto ambizioso e furbo per il Drago. Le raffinate illustrazioni di Lesley Barnes fanno di Giulia e il Drago (Gallucci; 18 euro) un albo prezioso che costringe anche i più piccoli a ragionare sui talenti di ciascuno. Un patrimonio che, riconosciuto e bene incanalato, fa sì che ogni individuo possa realizzarsi in pieno. Dai 5 anni.
Architettura: il sacro nasce dalla realtà
È come mettere l’anima dentro a un corpo, far stare una chiesa dentro ai materiali edili. Un ossimoro eccellente, due pietre focaie che, scartavetrate fra di loro, generano la scintilla o l’incendio celeste. La difficoltà odierna nel concepirle è evidente quanto affascinante. So che sul tema è appena terminato un convegno a Bose. Secondo Aimaro Isola è il sagrato a contare più della facciata. Forse sì, ma quando la calamita è potente e il sagrato, per dirla, sia quello della basilica di San Pietro. Certo, il sagrato può essere luogo di intersezione di varie culture ma rischia anche di poter diventare il cortile dei gentili, che è un fuori rispetto al dentro del tempio. La chiesa invece è un dentro-fuori, senza sancta sanctorum o iconostasi di separazione.
Bella la cattedrale di Medellin, forse capitale mondiale della droga. Le porte della facciata e quelle laterali del tempio sono tenute spalancate e, nei luoghi circostanti, dal sagrato, ci si ritrova all’interno, in un tutt’uno che non separa appunto l’esterno dall’interno e viceversa, come esattamente un anello di Moebius. A proposito del sagrato, si può rammentare quando nell’Ottocento i “folli di Dio”, nella Santa Russia, arrivavano a sputare sui portoni delle chiese, immagino significando che non solo nei riti sta il nocciolo. Gli stessi folli si fermavano a pregare sulle porte dei postriboli, significando, credo, un potente bisogno redentivo. Delle due situazioni forse sarebbe stata necessaria una sintesi fraterna.
Leggo ora, su “Avvenire”, l’intervista all’architetto cileno Cristián Undurraga, che può fare a meno di croce e altare, perché più astratto è il luogo e maggiore è la spiritualità che vi abita. Mi pare che il restauratore del Palacio de la Moneda malponga la questione. Il silenzio lo si può incontrare dove c’è. Basta trascorrere una notte in una stazione ferroviaria di testa o una giornata in un cimitero per percepire un silenzio che però, in sé, è neutrale. Tocca al beneficiato indirizzarlo e farlo proprio. La spiritualità è un’altra cosa. È sufficiente un viaggio in metropolitana all’ora di punta per sentire il folto dei corpi umani, l’odore e persino l’ingenuità di coprirlo con l’artefatto dei profumi.
Penso alla ressa di malati in barella negli atri dei pronto soccorso urbani. Se il cuore non è piccolo, questi luoghi mescolano i salmi del male e la loro spiritualità. No, i non luoghi non esistono, sono gremiti invece da anime corporali. E la croce? È ineliminabile, perché la relativa religione è l’unica che viene da un martirizzato, che si fonda sull’eterna pena di morte, privilegio mostruoso del genere umano. Temo che l’idea di una caverna, col suo primitivismo, di cui l’architetto cileno dice, non sia una buona soluzione.
È una inutile regressione ai primordi dell’umanità, perché il bene e il male non hanno un calendario qualsivoglia. Per significare, a mio avviso, come i luoghi sacri, asettici non invoglino all’incontro con il Padreterno, mi pesa ancora troppo la chiesa progettata da Renzo Piano per Padre Pio. Riesce persino a cancellare la spiritualità naturale di quell’Appennino con questa ostentazione di arconi che mi sono parsi più idonei per una fiera espositiva di trattori agricoli che non per recitare il Padre Nostro.
Anni addietro pensai, occupandomi di linguaggio, che l’architettura religiosa è la lingua del religioso abitare. Allora, con un amico architetto, partecipai addirittura a un concorso per la progettazione di nuove chiese. Non lo vincemmo, ma scelsi come forma dell’edificio quella di un pesce, preso pari pari dalle stilizzazioni nelle catacombe. Il pesce di calcestruzzo era circondato da acqua. Il tetto era di vetro ed era il fondo di un acquario ricco di pesci. Stando in chiesa, si sarebbero visti i pesci volare. Si poteva anche tornare a un modello naturale ma solo perché già mediato dalla prassi della storia della buona novella. Se non sbaglio, altri hanno poi, autonomamente usato l’idea.
Ma oggi, oggi, perché si devono scolorire i colori per renderli neutri, abolire gli spessori per ottenere un mondo di carta velina? Se oramai viviamo accatastati, in comune con gli oggetti, perché rifugiarsi in uno spazio che non c’è? Allora, sgomitando tra i calcestruzzi fraternamente dilaganti, penso alle tante fabbriche dismesse.
Ecco, forse sono facilitato in questa sensibilità, dal fatto di essere figlio di un operaio. Lì, fra le mura abbandonate dell’industria, il martello ha battuto infiniti chiodi, crocefissa infinita fatica. Riattare un edificio simile, e preferisco proprio la parola riattare a quella restaurare, darebbe una chiesa già quasi consacrata di per sé, grazie alla sua propria storia. Ho visto ospedali abbandonati, poi trasformati in scuole. Cosa di meglio di quel luogo di innumerevoli viae crucis per diventare chiesa o essere di già una chiesa? E ancora mi riferisco alla dismissione di edifici carcerari. Luoghi di disperazione, suicidi, violenza e redenzione. Anche questa tipologia fa parte di una trinità di opportunità con dentro un’eco di emozioni, che di per sé danno luogo alla scaturigine della verticalità religiosa.
Credo l’architettura della chiesa debba essere un’acqua potabile, non un’acqua distillata o sterilizzata. Deve recare in sé la sua naturale flora batterica, non essere figlia dell’antibiotico che garantisce purezza al momento ma promuove resistenza nell’indomani. Ecco, sono soltanto appunti, aggiunti per una riflessione centralmente al di fuori al mondo dell’architettura e solamente colloquiale con la mensa senza tovaglia del vino e del pane. Abbozzi che si giocano sull’inciampo nella realtà, per non buttare nulla della fatica e del dolore della storia, perché è lì che è contenuta la nostrana gloria.
Avvenire
Bella la cattedrale di Medellin, forse capitale mondiale della droga. Le porte della facciata e quelle laterali del tempio sono tenute spalancate e, nei luoghi circostanti, dal sagrato, ci si ritrova all’interno, in un tutt’uno che non separa appunto l’esterno dall’interno e viceversa, come esattamente un anello di Moebius. A proposito del sagrato, si può rammentare quando nell’Ottocento i “folli di Dio”, nella Santa Russia, arrivavano a sputare sui portoni delle chiese, immagino significando che non solo nei riti sta il nocciolo. Gli stessi folli si fermavano a pregare sulle porte dei postriboli, significando, credo, un potente bisogno redentivo. Delle due situazioni forse sarebbe stata necessaria una sintesi fraterna.
Leggo ora, su “Avvenire”, l’intervista all’architetto cileno Cristián Undurraga, che può fare a meno di croce e altare, perché più astratto è il luogo e maggiore è la spiritualità che vi abita. Mi pare che il restauratore del Palacio de la Moneda malponga la questione. Il silenzio lo si può incontrare dove c’è. Basta trascorrere una notte in una stazione ferroviaria di testa o una giornata in un cimitero per percepire un silenzio che però, in sé, è neutrale. Tocca al beneficiato indirizzarlo e farlo proprio. La spiritualità è un’altra cosa. È sufficiente un viaggio in metropolitana all’ora di punta per sentire il folto dei corpi umani, l’odore e persino l’ingenuità di coprirlo con l’artefatto dei profumi.
Penso alla ressa di malati in barella negli atri dei pronto soccorso urbani. Se il cuore non è piccolo, questi luoghi mescolano i salmi del male e la loro spiritualità. No, i non luoghi non esistono, sono gremiti invece da anime corporali. E la croce? È ineliminabile, perché la relativa religione è l’unica che viene da un martirizzato, che si fonda sull’eterna pena di morte, privilegio mostruoso del genere umano. Temo che l’idea di una caverna, col suo primitivismo, di cui l’architetto cileno dice, non sia una buona soluzione.
È una inutile regressione ai primordi dell’umanità, perché il bene e il male non hanno un calendario qualsivoglia. Per significare, a mio avviso, come i luoghi sacri, asettici non invoglino all’incontro con il Padreterno, mi pesa ancora troppo la chiesa progettata da Renzo Piano per Padre Pio. Riesce persino a cancellare la spiritualità naturale di quell’Appennino con questa ostentazione di arconi che mi sono parsi più idonei per una fiera espositiva di trattori agricoli che non per recitare il Padre Nostro.
Anni addietro pensai, occupandomi di linguaggio, che l’architettura religiosa è la lingua del religioso abitare. Allora, con un amico architetto, partecipai addirittura a un concorso per la progettazione di nuove chiese. Non lo vincemmo, ma scelsi come forma dell’edificio quella di un pesce, preso pari pari dalle stilizzazioni nelle catacombe. Il pesce di calcestruzzo era circondato da acqua. Il tetto era di vetro ed era il fondo di un acquario ricco di pesci. Stando in chiesa, si sarebbero visti i pesci volare. Si poteva anche tornare a un modello naturale ma solo perché già mediato dalla prassi della storia della buona novella. Se non sbaglio, altri hanno poi, autonomamente usato l’idea.
Ma oggi, oggi, perché si devono scolorire i colori per renderli neutri, abolire gli spessori per ottenere un mondo di carta velina? Se oramai viviamo accatastati, in comune con gli oggetti, perché rifugiarsi in uno spazio che non c’è? Allora, sgomitando tra i calcestruzzi fraternamente dilaganti, penso alle tante fabbriche dismesse.
Ecco, forse sono facilitato in questa sensibilità, dal fatto di essere figlio di un operaio. Lì, fra le mura abbandonate dell’industria, il martello ha battuto infiniti chiodi, crocefissa infinita fatica. Riattare un edificio simile, e preferisco proprio la parola riattare a quella restaurare, darebbe una chiesa già quasi consacrata di per sé, grazie alla sua propria storia. Ho visto ospedali abbandonati, poi trasformati in scuole. Cosa di meglio di quel luogo di innumerevoli viae crucis per diventare chiesa o essere di già una chiesa? E ancora mi riferisco alla dismissione di edifici carcerari. Luoghi di disperazione, suicidi, violenza e redenzione. Anche questa tipologia fa parte di una trinità di opportunità con dentro un’eco di emozioni, che di per sé danno luogo alla scaturigine della verticalità religiosa.
Credo l’architettura della chiesa debba essere un’acqua potabile, non un’acqua distillata o sterilizzata. Deve recare in sé la sua naturale flora batterica, non essere figlia dell’antibiotico che garantisce purezza al momento ma promuove resistenza nell’indomani. Ecco, sono soltanto appunti, aggiunti per una riflessione centralmente al di fuori al mondo dell’architettura e solamente colloquiale con la mensa senza tovaglia del vino e del pane. Abbozzi che si giocano sull’inciampo nella realtà, per non buttare nulla della fatica e del dolore della storia, perché è lì che è contenuta la nostrana gloria.
Avvenire
Teatro Elettra, la tragedia greca è donna
Elettra è uno dei personaggi più ardui da comprendere della tragedia greca, e con Antigone e Medea rappresenta l’eroina irriducibile, dilaniata da odio e sete di vendetta. Vendetta fondata su giustizia, ma con un’equazione assolutamente barbarica. La meno moderata delle tre, la maga Medea, per punire il marito adultero uccide i suoi stessi figli. Anche la tragedia moderna, elisabettiana, conosce figure femminili perniciose, ma esistono differenze: Lady Macbeth, orrenda criminale, diviene tale dopo un patto con gli spiriti, cadendo preda del potere delle streghe.
Nella tragedia e nel mito greco altre donne più profondamente mi colpiscono: Penelope, Arianna, Eco, Cassandra, Andromaca. Certo, si potrebbe obiettare, prediligo grandi donne sconfitte, non quelle lottanti. No, sento più tragicamente vere, rispetto alle assetate di giustizia e vendetta, alle barbare, quelle lottanti e magari sconfitte, come Cassandra, o Andromaca, la moglie del grande Ettore, fatta schiava con le altre nobili troiane dai brutali vincitori greci. Ma Penelope invece vince, solo tornando a lei Ulisse può compiere il suo viaggio e il suo destino.
Arianna, abbandonata da Teseo che ha salvato dal Labirinto, è però visitata sull’isola di Nasso da Dioniso, il dio della rigenerazione e della vita, che, amandola ricambiato, la tramuterà in stella. Elettra cova un odio indomabile, poiché efferato è stato il comportamento della madre Clitennestra, che ne ha massacrato il padre – il grande Agamennone di ritorno vittorioso da Troia – in combutta con il vile amante Egisto, con cui vive e sguazza nella reggia di Argo. Mentre il figliolo Oreste, erede maschio del nobile Agamennone, è stato salvato da un’anima buona che lo ha allontanato dalla corte e dalla morte certa, Elettra è umiliata e ridotta al ruolo di schiava. Intuibile la difficoltà del-l’attrice che interpreta questo personaggio di Sofocle, e del regista che la deve guidare: Elettra non può essere una maschera infuriata, una donna primitiva posse- duta solo da odio, perché manifesta anche un animo femminile, amante della vita nel suo giusto equilibrio, e nobile, perché insofferente dell’ingiustizia.
Federica Di Martino riesce molto bene nell’impresa: la sua Elettra non è una maschera isterica, con la bava alla bocca, ma, grazie a un uso eccellente delle voce in sintonia con i movimenti del viso, del collo, del tronco, il suo dolore assume un’espressione di pietà di effetto quasi cinematografico. Nel vasto spazio del teatro (dove si sedettero Platone in rotta con Atene, e il grande Eschilo, offeso con Atene che gli aveva proferito, col broglio, la prima trilogia di Sofocle, sin da subito raccomandato e amico dei potenti, bravo ma inferiore agli altri due che iniziano con E…) riesce a recitare come se fosse in primo piano pur occupando sempre benissimo lo spazio scenico.
La regia di Gabriele Lavia esalta questa resa, come quella generale: una realizzazione felice sul piano spettacolare (nel senso buono del termine) e dinamico: tutto freme, sin dall’inizio, Oreste, il Pedagogo, Elettra, tutti i giustizieri sono animati da una furia attiva, implacabile, che li traduce in uno spettacolo dinamico, teso, efficace. Notevole davvero il ritmo iniziale in cui il Pedagogo insuffla in Oreste, appena giunto nella città dell’infanzia, uno spirito di azione greco, si deve agire agire subito, di sorpresa, rapidamente, poi ci sarà tempo per i ricordi dell’infanzia ad Argo.
Poi… sul cadavere di Clitennestra, che il giovane uccide rapidamente, e di Egisto, fatto fuori come merita. Brava, come detto, Federica Di Martino, in tutto tranne quando corre con un passo non da palcoscenico ma da palestra (in “circuito”): ma è una piccola pecca in una prestazione ottima. Forte e autorevole, certo trascinante la Clitennestra Maddalena Crippa, che io però, pur brava e sempre intensa, sento sempre come attrice un po’ padana; davvero efficaci, elettrizzati, il Pedagogo Massimo Venturiello, l’Oreste Jacopo Venturiello, tutti.
Nota negativa il coro, quasi imbarazzante: il coro in una tragedia greca è l’espressione di una dimensione profonda, tellurica, la voce dell’inconscio e insieme del poeta in vaticinio narrante. Qui nulla di antropologicamente imparentabile a un coro. Tante giovani rossoscuro vestite che si muovono semicoreograficamente, senza furore, senza vaticinio, senza un brivido dionisiaco. Per il resto, lo spettacolo di Lavia tiene, convince, si fa comprendere e persuade con energia.
Avvenire
Nella tragedia e nel mito greco altre donne più profondamente mi colpiscono: Penelope, Arianna, Eco, Cassandra, Andromaca. Certo, si potrebbe obiettare, prediligo grandi donne sconfitte, non quelle lottanti. No, sento più tragicamente vere, rispetto alle assetate di giustizia e vendetta, alle barbare, quelle lottanti e magari sconfitte, come Cassandra, o Andromaca, la moglie del grande Ettore, fatta schiava con le altre nobili troiane dai brutali vincitori greci. Ma Penelope invece vince, solo tornando a lei Ulisse può compiere il suo viaggio e il suo destino.
Arianna, abbandonata da Teseo che ha salvato dal Labirinto, è però visitata sull’isola di Nasso da Dioniso, il dio della rigenerazione e della vita, che, amandola ricambiato, la tramuterà in stella. Elettra cova un odio indomabile, poiché efferato è stato il comportamento della madre Clitennestra, che ne ha massacrato il padre – il grande Agamennone di ritorno vittorioso da Troia – in combutta con il vile amante Egisto, con cui vive e sguazza nella reggia di Argo. Mentre il figliolo Oreste, erede maschio del nobile Agamennone, è stato salvato da un’anima buona che lo ha allontanato dalla corte e dalla morte certa, Elettra è umiliata e ridotta al ruolo di schiava. Intuibile la difficoltà del-l’attrice che interpreta questo personaggio di Sofocle, e del regista che la deve guidare: Elettra non può essere una maschera infuriata, una donna primitiva posse- duta solo da odio, perché manifesta anche un animo femminile, amante della vita nel suo giusto equilibrio, e nobile, perché insofferente dell’ingiustizia.
Federica Di Martino riesce molto bene nell’impresa: la sua Elettra non è una maschera isterica, con la bava alla bocca, ma, grazie a un uso eccellente delle voce in sintonia con i movimenti del viso, del collo, del tronco, il suo dolore assume un’espressione di pietà di effetto quasi cinematografico. Nel vasto spazio del teatro (dove si sedettero Platone in rotta con Atene, e il grande Eschilo, offeso con Atene che gli aveva proferito, col broglio, la prima trilogia di Sofocle, sin da subito raccomandato e amico dei potenti, bravo ma inferiore agli altri due che iniziano con E…) riesce a recitare come se fosse in primo piano pur occupando sempre benissimo lo spazio scenico.
La regia di Gabriele Lavia esalta questa resa, come quella generale: una realizzazione felice sul piano spettacolare (nel senso buono del termine) e dinamico: tutto freme, sin dall’inizio, Oreste, il Pedagogo, Elettra, tutti i giustizieri sono animati da una furia attiva, implacabile, che li traduce in uno spettacolo dinamico, teso, efficace. Notevole davvero il ritmo iniziale in cui il Pedagogo insuffla in Oreste, appena giunto nella città dell’infanzia, uno spirito di azione greco, si deve agire agire subito, di sorpresa, rapidamente, poi ci sarà tempo per i ricordi dell’infanzia ad Argo.
Poi… sul cadavere di Clitennestra, che il giovane uccide rapidamente, e di Egisto, fatto fuori come merita. Brava, come detto, Federica Di Martino, in tutto tranne quando corre con un passo non da palcoscenico ma da palestra (in “circuito”): ma è una piccola pecca in una prestazione ottima. Forte e autorevole, certo trascinante la Clitennestra Maddalena Crippa, che io però, pur brava e sempre intensa, sento sempre come attrice un po’ padana; davvero efficaci, elettrizzati, il Pedagogo Massimo Venturiello, l’Oreste Jacopo Venturiello, tutti.
Nota negativa il coro, quasi imbarazzante: il coro in una tragedia greca è l’espressione di una dimensione profonda, tellurica, la voce dell’inconscio e insieme del poeta in vaticinio narrante. Qui nulla di antropologicamente imparentabile a un coro. Tante giovani rossoscuro vestite che si muovono semicoreograficamente, senza furore, senza vaticinio, senza un brivido dionisiaco. Per il resto, lo spettacolo di Lavia tiene, convince, si fa comprendere e persuade con energia.
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