Enit / Dal 2020 il treno giornaliero Genova-Zurigo

A partire dal 2020 sarà effettuato il collegamento via treno Genova-Zurigo. Lo annuncia il Comune di Genova in una nota legata alla presenza alla Giornata internazionale dei treni a Zurigo, in collaborazione con la sede locale dell’Enit, Ente nazionale italiano per il turismo.
Durante la giornata, alla quale si prevede parteciperanno oltre 10 mila persone, verranno inaugurati i tre nuovi treni Ice4 (Germania-Svizzera), Tgv 2n2 (Francia-Svizzera) e Giruno, che sarà destinato a effettuare il collegamento giornaliero Genova-Zurigo.
«La giornata di Zurigo – dichiara l’assessore allo Sviluppo economico turistico e marketing Territoriale Laura Gaggero – sarà una nuova occasione per rinsaldare la collaborazione e la conoscenza reciproca con la Svizzera, che in un’ottica di marketing turistico rappresenta per Genova un target ideale. È la tappa successiva all’incontro che, due settimane fa, ha portato a Genova per un educational una delegazione di giornalisti e operatori turistici, tra i quali Matteo Spiller, il rappresentante delle ferrovie Sbb, con il quale abbiamo anticipato gli scenari che il collegamento giornaliero con Zurigo potrà offrire, con vantaggi per entrambe le città».
Genova mostrerà le sue potenzialità e bellezze con un allestimento speciale all’interno di un vagone del treno Giruno e presso uno dei desk di accoglienza posizionato tra i binari 4 e 5 della stazione centrale. Ai visitatori verrà offerto anche un assaggio dei profumi della gastronomia genovese, con una dimostrazione di pesto al mortaio realizzata dall’Associazione Palatifini.
Il collegamento “fisico” tra le due città sarà simbolicamente anticipato in modo virtuale, con una diretta streaming con la città di Genova durante la quale il pubblico svizzero potrà interagire con una persona che accoglierà loro nella galleria Dorata di Palazzo Tobia Pallavicino di via Garibaldi, palazzo dei Rolli.

Le ferrovie svizzere organizzeranno, inoltre, un concorso che avrà come premio un soggiorno di due giorni a Genova offerto da Cb Genova, con la collaborazione della Camera di Commercio di Genova e dell’Acquario di Genova
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La mostra. A Galleria Borghese i fasti dei Valadier, orafi per l'Europa neoclassica

Da Andrea a Giuseppe si dipana la parabola di una bottega d’arte in cui spicca l’opera di Luigi, artista molteplice che segnò la storia del neoclassicismo

Luigi Valadier, "Erma di Bacco" (1773) bronzo, particolare)

da Avvenire

Sono trascorsi esattamente 260 anni da quando, nel 1759, Luigi Valadier rilevò, alla morte del padre Andrea, la bottega di orafo che il genitore aveva aperto a Roma nel 1714 in via del Babbuino. È probabilmente questa, una delle ragioni, ossia la ricorrenza, che ha spinto Anna Coliva – direttrice della Galleria Borghese – a dedicare al grande orafo l’elegante mostra di cui è la curatrice.

Infatti, mancava al ventaglio d’iniziative che la studiosa ha organizzato nella splendida villa romana dal 2006 (quando s’insediò) a oggi, un evento dedicato a questa figura che deve considerarsi uno degli esponenti di spicco di quel gusto raffinato ed estetizzante che si era palesato sull’ultimo scorcio del XVIII secolo.

Adesso, l’esposizione intitolata Valadier. Splendore nella Roma del Settecento, risarcisce tale mancanza anche alla luce del fatto che la collezione del museo romano custodisce alcuni dei capolavori del grande artista, come l’Erma di Bacco (divenuta icona della mostra) e due tavoli dodecagonali.

Si tratta di oggetti che rappresentano bene quale fosse il gusto dominante intorno alla metà del secolo a Roma. Il fatto interessante è che – per molto tempo – si ritenne che l’erma fosse di antica fattura e soltanto approfondite ricerche documentarie d’archivio dimostrarono che l’aspetto di tipo anticheggiante era stato voluto da Valadier che aveva prodotto artificialmente la patina verde e i residui dorati. I tavoli, invece sono stati disegnati da Antonio Asprucci, l’architetto autore del pittoresco tempietto dedicato a Esculapio che si specchia nel laghetto di Villa Borghese. A Valadier si devono le belle teste delle quattro stagioni che si trovano sotto il ricco piano d’appoggio.

Del resto, l’artista-orafo, già come suo padre, ebbe un ruolo privilegiato proprio con la famiglia Borghese, grazie alla quale contribuì a dar forma all’idea estetica del neoclassicismo romano. Lo dimostrano le splendide e ricchissime caraffe in argento dorato per il servizio da tavola della famiglia, pure esposte in mostra. Infatti, il valore aggiunto (e irripetibile) dell’esposizione, è quello di presentare i capolavori di Valadier all’interno di un ambiente che si configurò come espressione pure di tale nuovo gusto. Il quale, per esempio, ebbe la plastica dimostrazione di quell’innovativo percorso artistico nelle bronzee applicazioni ornamentali, realizzate dall’orafo, per il camino di quella che oggi è la sala XVI della Galleria.

Per questo, per avere la giusta impressione e sondare il reale valore culturale di questa meritoria operazione, è necessario visitare questa mostra, dove troneggiano le monumentali lampade d’argento realizzate per il santuario di Santiago di Compostela. Si tratta di meravigliose “ampolle” trasparenti lavorate a racemi dalle dimensioni monumentali che sono esposte in sospensione a enormi staffe di legno realizzate appositamente per l’occasione. Ci sono poi altri capolavori, come le imponenti, anche se di ridotte dimensioni, statue in metallo e argento dorato, della basilica cattedrale di Santa Maria Nuova a Monreale o il San Giovanni Battista proveniente dal Battistero Lateranense che, per la prima, volta lasciano la loro collocazione originale.



Luigi Valadier, "Arianna" (già "Cleopatra", 1778-1784) bronzo

La capacità di Valadier gli permetteva di affrontare con la stessa grazia oggetti monumentali e addirittura statue come le copie di capolavori antichi, quali per esempio la traduzione in bronzo dell’Antinoo Capitolino(oggi Louvre), realizzata per Madame du Barry e il conte d’Orsay, oppure la straordinaria copia in bronzo dell’Arianna addormentata (poi dettaCleopatra) dei Musei Vaticani scolpita per re Gustavo III di Svezia, ma anche temi assai diversi. Valadier sembra onnivoro delle forme, capace d’imitare l’antico come un falsario, oppure d’inventare vasi come quello in marmo rosso proveniente dalla Frick Collection di New York o, ancora, la tazza in porfido sostenuta dalle Tre Grazie che fu realizza per la Casa Reale Svedese.

Del resto, il rango e il numero dei committenti dell’artista rivelano lo straordinario successo della sua carriera di orafo e argentiere, esaltando la vastità di campo, l’originalità e l’impronta internazionale della sua produzione, che la mostra intende rappresentare con importanti testimonianze.

Figura eclettica, Luigi Valadier non aveva alcuna difficoltà nel passare all’invenzione di opere di tutt’altro genere (pure in mostra) come la ricostruzione del tempio di Iside a Pompei commissionata da Maria Carolina d’Austria. È allora interessante e utile fare i confronti con i disegni e i progetti esposti e avvantaggiarsi degli strumenti didattici (totem multimediali) che accompagnano il visitatore in un percorso di grande suggestione, anche attraverso i luoghi di Roma che saranno resi poi ancora più belli dal figlio di Luigi, Giuseppe Valadier.

Roma, Galleria Borghese
Valadier. Splendore nella Roma del Settecento
Fino al 2 febbraio

Faenza. Picasso, vasaio alla ricerca dell'anima del mondo

Un gigantesco progetto ha legato dal 2017 alla fine di quest’anno decine di esposizioni dedicate a Picasso e il Mediterraneo. Ora al Museo delle Ceramiche la sua attività di scultore e ceramista

Un'opera ceramica di Picasso esposta a Faenza: particolare dalla “Civetta con testa maschile” (1953)

«Picasso-Mediterraneo è un evento internazionale che si svolge dalla primavera del 2017 alla fine del 2019. Più di settanta istituzioni hanno immaginato una serie di mostre sull’opera “ostinatamente mediterranea” di Pablo Picasso». È la nota sintetica di un gigantesco progetto che, nella sostanza, si realizza piuttosto come un’opera di propaganda del Museo Picasso di Parigi. Un modo per fare e incamerare soldi, in definitiva. Mentre l’apporto conoscitivo resta abbastanza limitato (pur sempre con standard espositivi medio-alti). Il culmine si è avuto nel 2018 con oltre trenta mostre allestite in alcuni Paesi europei: in Francia ben 20, in Spagna 9 e in Italia 6. Ma anche nel 2019 sono state 14 le esposizioni allestite in varie città mediterranee. Da queste cifre si intuiscono anche le graduatorie degli interessi che si giocano dentro una simile invasione picassiana: lui è la gallina dalle uova d’oro, nonostante la borsa valori ponga ancora ai vertici del mercato gli “aerostati” Hirst, Koons e Cattelan. La Francia è infatti il mercato che governa i valori dell’opera di Picasso e il Museo parigino è il Sancta Sanctorum dell’artista, la miniera che alimenta un’attività espositiva in patria e all’estero davvero impressionante, e la Spagna si adegua (anche perché il mercato spagnolo è debole sulla scena internazionale), mentre l’Italia è soprattutto lo scenario composto di passato e presente sul quale l’opera del genio di Malaga agisce come un guitto, lasciando un segno di Zorro sulla fronte di ogni abbonato del turismo e dell’industria culturale.

Il tema mediterraneo non è né nuovo né particolarmente seducente.Nel 1982 Villa Medici allestì proprio una mostra su Picasso e il Mediterraneo– Le Grand Bleu, come l’artista era solito chiamare il nostro mare – il cui catalogo veniva introdotto da Jean Leymarie. E oggi, nel sud della Francia, a Tolone, si è aperta la scorsa settimana un’altra mostra legata al progetto triennale, che questa volta si concentra su Picasso e il paesaggio mediterraneo, nel cui catalogo Maria Teresa Ocaña – già direttrice del Museo d’Arte della Catalogna –, osserva che questo genere pittorico fu uno dei più precoci sperimentati dal giovanissimo Picasso quando ancora si trovava a Malaga. Lì operava il pittore Antonio Muñoz Degrain eseguendo paesaggi «di un’immaginazione e di un colore esuberante» che Picasso ammirava. Quando poi si trasferisce a Barcellona, dove il padre ha ottenuto un posto da professore alla scuola di Belle Arti, Picasso approfondisce con maggiore libertà il colore e le luci del Mediterraneo dipingendo piccole marine. Naturalmente, anche il paesaggio è un tema che segue, anzi viene domato e vinto dai successivi sviluppi del linguaggio picassiano all’interno delle fasi cubista, neoclassica, postcubista e realista, fino alle tarde declinazioni neoespressioniste. Quando ha davanti un paesaggio, Picasso cerca di metamorfizzarlo con una mente proteiforme dove la lotta con la realtà deve portare alla vittoria dello stile che l’artista sta praticando come scienza dello sguardo.



Un'opera ceramica di Picasso esposta a Faenza: lastra tagliata e dipinta a forma di civetta (1957)



Dopo la seconda guerra mondiale Picasso si trasferisce per molto tempo nel sud della Francia e soggiorna in varie località della Costa Azzurra. È lì che comincia a sperimentare la ceramica come arte dove pittura e scultura possono ritrovarsi al di là delle comode distinzioni metodologiche degli stessi storici e critici. È forse il caso di ricordare che da studi recenti sembra emergere traccia di una versione più antica delTrattato sulla pittura di Leonardo (oggi perduta) dove il genio rinascimentale attribuiva il primato non alla pittura, come afferma nel testo oggi conosciuto, ma alla plastica di modellato dipinta. Anche Picasso – la cui natura ancipite di pittore e scultore non viene mai meno nelle sue opere – scopre che dall’arte dei vasai e dai manufatti fittili si possono cavare opere dal valore magico. Lo vediamo ora a Faenza, al Museo delle ceramiche, nella mostra Picasso. La sfida della ceramica, a cura di Salvador Haro González e Harald Thell (catalogo Silvana). Anche qui è esposta una campionatura proveniente dal Museo Picasso di Parigi, una cinquantina di opere accanto a quelle possedute dal Museo faentino che vi accosta altre ceramiche più antiche, precolombiane, medievali e rinascimentali. Può darsi che abbiano ragione i curatori della mostra quando scrivono nel catalogo che l’opera in ceramica di Picasso fu per molto tempo sottovalutata rispetto a pittura e scultura. Ma bisognerebbe anche uscire dal luogo comune riassunto nel termine “sfida” che ogni volta dipinge Picasso come un bambino capriccioso che reagisce ai limiti che gli vengono posti dimostrando che può riuscire bene in ogni cosa si proponga di fare. In realtà, a guidarlo verso lande sconosciute è piuttosto la sua esorbitante vitalità interiore. Così è per la ceramica, che cominciò a sperimentare a Vallauris, poco distante da Antibes, altro luogo ispiratore del Picasso mediterraneo. In entrambe le località vi sogno musei picassiani che conservano testimonianze notevoli del suo lavoro negli anni fra i Quaranta e la fine dei Sessanta. La ceramica – tecnica nella quale Picasso ha realizzato migliaia di opere – è davvero il momento dove l’immaginazione picassiana dimostra che non c’è forma o materia dove il suo tocco non resusciti un’anima prigioniera nella materia. Un mattone scheggiato, un “vaso” afflosciato in sede di cottura, un frammento di pignatta, ma anche un piatto, una piastrella, una brocca, o qualsiasi altra forma plasmata nell’argilla diventa sotto le sue mani e i suoi occhi “opera”, cioè riporta il manufatto ad antichissimi significati artistici, quando anche le stesse suppellettili cadevano dentro una ritualità sacra. Qualcosa del genere accade nell’arte tribale, e non per caso Picasso fu uno dei più avidi accumulatori di quelle immagini.

È questo che l’artista ci dice nella ceramica: egli è un taumaturgo, è colui che governa le forze del fascinans e del tremendum, perché thaumaè meraviglia, ma anche timore per qualcosa che viene alla luce da regioni che vanno oltre o si trovano sopra la nostra comprensione del mondo. In questo senso, il segno dipinto sul vaso o sull’anfora, sul boccale come su un piatto, è una sorta di transustanziazione che riafferma i valore magico del gesto umano come anche della parola (magia universalis, non pratica da ciarlatani, ma viatico a una realtà dove il mondo non si esaurisce nelle sue apparenze, anzi, esse sono soltanto il verso di una profondità che palpita di energie e forze che spesso non si rivelano o lo fanno soltanto a chi è capace di coglierle e incanalarne in una esperienza di vita). La ceramica di Picasso è un ex voto alla vita, alla forza che si sprigiona mentre il tornio compie i suoi cerchi. L’ex voto di Dioniso- bambino. E non è strano che l’artista riveli l’interesse per la ceramica delle antiche civiltà, culture dove mito e arte si sposano con naturalezza. Ovviamente, in questa piccola mostra (ma soprattutto se si va a Vallauris e in altri luoghi francesi dove sono conservate opere ancor più importanti di quelle esposte a Faenza), si vedrà che Picasso non pensa come un vasaio di suppellettili, ma come un artista che vuole cavare dalla materia quella stessa idea che lo spingerebbe ad agire sulla tela o sul muro con la pittura o ad articolare forme tridimensionali per la fusione o per l’assemblaggio, come nella poetica dell’objet trouvé. Picasso, come Matisse, porta alla massima tensione la dialettica fra le due arti sorelle, pittura e scultura, ponendo il sigillo a una storia che era cominciata due secoli prima: quella che trova i maggiori innovatori della scultura in alcuni sublimi pittori, da Géricault, a Moreau, Degas, Derain ecc. E anche Picasso nella ceramica vuole ritrovare questo connubio delle arti.

Avvenire

In Istria. Dal faro di Salvore a Colmo, il borgo più piccolo del mondo

In viaggio dalla costa alla scoperta dell’interno, meno battuto dai flussi turistici ma con chicche imperdibili. A cominciare da Grisignana, la città degli artisti. O Levade, patria del tartufo

Istria, l'antico faro di Salvore (foto G. Matarazzo)

L’Italia fa parte della sua storia, è lì di fronte, dall’altra parte del golfo, a poco più di un’ora di macchina, anche se si superano due confini. Forse si vede anche da lì il più antico faro ancora attivo dell’Adriatico, a Salvore, in Istria, Croazia. Un faro e tante storie attorno. Di mare e di terra. A cominciare dalla sua costruzione nel 1818 dall’architetto Pietro Nobile per ordine della Deputazione della Borsa di Trieste con l’appoggio dell’imperatore austriaco Francesco I come segnale per i navigatori notturni: “cursibus navigantium nocturnis dirigendis”, riporta la targa lapidea all’entrata. La leggenda narra che fu un nobile austriaco, il conte Metternich, a volerlo per una bella nobildonna di queste zone di cui si era innamorato a un ballo a Vienna. La giovane croata però morì prima che il faro venisse terminato. Il conte non lo visitò mai, eppure la sua bellezza e l’amore di cui è intriso sono arrivati fino a noi. Le acque di Salvore sono state teatro anche di grandi battaglie: nel 12° secolo il Doge di Venezia con una trentina di galee tese un’imboscata alla flotta dell’imperatore Federico Barbarossa, due volte più grande. Quando Otto, il figlio dell’imperatore, si rese conto che la sua flotta non poteva essere salvata, decise di fuggire. Si nascose in queste coste, in una vecchia cisterna romana: a questo episodio Salvore deve il suo nome (il “re salvato”).

Roma, perché c'è un cervo sopra la chiesa? La basilica in piazza di Sant'Eustachio è sormontata da una scultorea testa di cervo

Sant'Eustachio<br>

turismo.it

La graziosa piazzetta di Sant’Eustachio a Roma si trova a due passi dal Pantheon, a pochi metri da piazza Navona e da Palazzo Madama. Insomma, non è strano che sia attraversata da centinaia di turisti ogni giorno, a tutte le ore. Molti poi, sono spinti qui dal desiderio di provare un espresso presso lo storico caffè omonimo. Ma non tutti sanno che alzando gli occhi al cielo e prestando attenzione alla sommità della Basilica di Sant’Eustachio, noteranno una stranezza: alla base della classica croce, c’è una scultorea testa di cervo. Per la precisione la croce si innalza proprio sulla testa dell’animale.

Sì, un cervo, con tanto di ramificate corna, che i più attenti osservatori ritroveranno anche in altre icone del rione (che si chiama anch’esso Sant’Eustachio). Ma cosa ci fa una testa di cervo in cima ad una chiesa? Un cervo che ha persino l’onore di sorreggere la croce cristiana dev’essere stato certamente un animale importante, vero o leggendario che fosse. La piazza prende il nome dalla chiesa di Sant’Eustachio, ma in precedenza si chiamava piazza della Schola. Il luogo di culto fu costruito nell’VIII secolo, in onore del santo che, all’epoca dell’Impero Romano, abitava qui. O almeno questo è quanto narra la leggenda.

Eustachio è stato identificato con Placido, un encomiato generale dell’esercito all’epoca di Traiano. Secondo la raccolta medievale della Leggenda Aurea, Placido un giorno si stava dedicando alla caccia, quando avvistò un cervo. Lo seguì fino al limitare di un burrone, quando la bestia si voltò e tra le sue corna comparve un croce luminosa. Il cervo si rivolse al generale, dichiarando di essere Gesù e chiedendo il motivo della persecuzione. Placido, spaventato, corse a casa dalla moglie, la quale aveva avuto a sua volta una visione. Fu così che i due decisero di recarsi dal vescovo e convertirsi al cristianesimo. Anni dopo, sotto Adriano, colui che ora veniva chiamato Eustachio fu condannato a morte con l’intera famiglia a causa della sua religione. Pare che tuttavia le fiere del Colosseo, che dovevano sbranarlo, si fermarono, e, chinando la testa, lo lasciarono vivere. L’imperatore condannò quindi Eustachio e famiglia ad una morte altrettanto cruenta, quella del toro di Falaride (si rinchiudeva lo sventurato in un toro di bronzo che veniva scaldato fino ad arroventare la vittima). Ma, si narra, una volta aperto lo strumento di tortura i loro corpi risultarono privi di vita, ma intatti.

Si dice che la chiesa sorga dove un tempo si trovava il giardino della casa del martire, su cui successivamente Nerone fece costruire le sue terme e Costantino, primo imperatore convertito al cristianesimo, vi eresse un oratorio. Documenti del 795 testimoniano in questo luogo la presenza di una diaconia (una sorta di centro di assistenza per i poveri) che nei secoli fu ampliato, e quindi consacrato, fino a giungere all’aspetto tipicamente barocco che ha oggi. Con la testa di cervo che sovrasta la chiesa e la piazza.

Piemonte, cosa fare tra Verbania ed Orta San Giulio In uno scenario naturale particolarmente suggestivo ecco due località affacciate sul lago che regalano infinte emozioni

Sulla sponda occidentale del Lago Maggiore si adagia il comune sparso di Verbania, capoluogo della provincia del Verbano- Cusio- Ossola, non a caso conosciuta come Giardino sul lago. Il comune, con i suoi tanti centri urbani, occupa una superficie molto ampia toccando località come Fondotoce, proprio sulla foce del fiume che si getta nel cuore del Golfo Borromeo, Suna e Pallanza, il promontorio della Castagnola, l’Isolino di San Giovanni, Intra. Ecco le cose da non perdere.

LE ATTRAZIONI DI VERBANIA
Verbania ha fama di essere sede di uno dei luoghi più belli della regione dei laghi italiana. Grazie alla sua posizione nel Golfo Borromeo del quale fa parte anche l’arcipelago delle Isole Borromee raggiungibili con i taxi d’acqua di Verbania, la zona è immersa in un contesto naturalistico che lascia senza fiato.

LA VIVIBILITA’
Non è un caso che diversi anni fa Verbania sia stata eletta come il Capoluogo più vivibile d’Italia, precedendo note città come Belluno, Bolzano e Trento. Giardini e parchi sono la principale attrattiva turistica della zona, da sempre meta ideale di chi cerca di coniugare al relax della vacanza la bellezza e l'armonia del paesaggio. 

VILLA TARANTO 
Nella parte nord orientale del promontorio della Castagnola, Villa Taranto è celebre per i suoi giardini adibiti ad orto botanico che la rendono, a detta di molti, il giardino più bello d’Italia se non del mondo.

ORTA SAN GIULIO ITINERARIO ROMANTICO
Il paesino di Orta San Giulio è uno dei borghi più belli d’Italia e sprigiona un’atmosfera particolarmente romantica. Le sue viuzze trasportano i visitatori in una sorta di dimensione sospesa nel tempo mentre viene svelato il patrimonio storico, artistico e naturalistico che offre. 





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Vermouth, vino e aromi delle Alpi

vermouth

Aperitivo per eccellenza nato all'ombra della Mole, iL Vermouth di Torino è un vino aromatizzato dalla tradizione plurisecolare che ha ottenuto, nel 2017, il riconoscimento della IG.

LA TRADIZIONE
Il Vermouth di Torino nasce dall'incontro della lunga tradizione legata alla produzione, risalente ai primi secoli dopo cristo, di un vino a base di erbe impiegato, nel corso dei secoli, a scopo terapeutico, con la maestria dei liquoristi piemontesi esperti dell'arte della distillazione sin da epoca quattrocentesca. La bevanda come oggi la conosciamo è il frutto del lavoro svolto dai produttori piemontesi che, alla fine del XVIII secolo, misero a punto una ricetta che si distingueva da quelle che si erano diffuse in diversi Paesi europei nei secoli precedenti. Una ricetta caratterizzata da maggiore dolcezza e amabilità e da note aromatiche più intense che incontrò persino il palato raffinato della famiglia reale diffondendosi ben al di fuori dei confini nazionali. Non a caso il Vermouth di Torino è, oggi, noto in tutto il mondo per la tradizione e la storicità della sua produzione.

LA DENOMINAZIONE
Precedentemente inserito nell'elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT), nel 2017 il Vermouth/Vermut di Torino ha ottenuto il riconoscimento della Indicazione Geografica che lo ha definitivamente legato alla tradizione sabauda. Nello stesso anno è, dunque, nato l'Istituto del Vermouth di Torino che si occupa di promuovere e valorizzare, anche attraverso interessanti iniziative, la qualità del prodotto sui mercati nazionali ed internazionali.

LE CARATTERISTICHE
Il Vermouth di Torino è un vino aromatizzato preparato con una base di vino bianco, rosato o rosso, che viene aromatizzato con un blend di estratti naturali ottenuti da una ricchissima tavolozza di erbe e spezie e dolcificato con zucchero, mosto d’uva, zucchero caramellato o miele. Il colore ambrato si ottiene con aggiunta di caramello mentre le note aromatiche sono il frutto del mix di numerose erbe e spezie, ed in particolare, assenzio (in due differenti varietà riconosciute), camomilla romana, anice stellato, arancio amaro, ginepro, sambuco, zenzero, maggiorana, origano, lichene polomonario, cannella, chiodi di garofano, noce moscata e rabarbaro. Viene classificato in base al colore (bianco, rosso, ambrato e rosato) ed alla quantità di zucchero che viene impiegata nella produzione. Viene definito extra secco o extra dry quando contiene meno di 30 grammi di zucchero per litro, secco o dry quando contiene meno di 50 grammi per litro, e dolce quando il tenore di zuccheri è pari o superiore ai 130 grammi per litro. Viene prodotto anche un Vermouth Superiore che si riferisce a prodotti con un titolo alcolometrico non inferiore a 17% vol., realizzati con almeno il 50% di vini piemontesi e aromatizzati con erbe – diverse dall’assenzio – coltivate o raccolte in Piemonte.

LA PRODUZIONE
Per ottenere un ottimo Vermouth di Torino è fondamentale scegliere un vino che per struttura e acidità sia in grado di sorreggere gli aromi e bilanciare lo zucchero. Si aggiungono, quindi, gli estratti di erbe aromatiche e di spezie, fiori, semi, radici e cortecce, precedentemente messi in infusione in una soluzione idroalcolica per 15-20 giorni. Una volta miscelati con lo zucchero e il vino, vengono lasciati maturare in vasche di affinamento. Si procede, quindi, al filtraggio della bevanda e all’imbottigliamento.

LA CULTURA
Il vermouth deve il proprio nome al termine tedesco Wermut usato per definire l’Artemisia Absinthium. La ricetta del vinum absinthites a base di erbe è, infatti, antichissima e viene menzionata in trattati risalenti ai primi secoli dopo Cristo come rimedio per curare i problemi di stomaco e intestino. Il suo utilizzo come medicinale prosegue anche in epoca rinascimentale ma la ricetta viene arricchita con l'aggiunta di nuove spezie giunte dall'oriente, come cannella, chiodi di garofano e rabarbaro.

IN CUCINA
Consumato soprattutto come aperitivo o come componente di molti cocktail classici, tra cui il Martini, l'Americano, il Manhattan e il Negroni, il Vermouth si rivela anche un ottimo ingrediente per la preparazione di piatti a base di carne. Da sperimentate, inoltre, i numerosi abbinamenti proposti dall'Istituto del Vermouth di Torino in occasione dell'ultima edizione di Vinitaly, tra cui quelli con il cioccolato e i formaggi come il Parmigiano, quelli di montagna e quelli di latte di bufala.
turismo.it

Enit 探索米兰 Perché chi fa turismo in Italia deve aprire un account Wechat


Numeri da record per il turismo a Milano: secondo i dati della Camera di commercio di Milano, Monza Brianza e Lodi, nel 2018 il capoluogo lombardo ha raggiunto 7,7 milioni di arrivi(+2,2% rispetto al 2017) e 15,7 milioni di presenze (+1,6%). I visitatori stranieri hanno superato quelli italiani con 4,4 milioni di arrivi e 9 milioni di presenze, mentre gli italiani si sono fermati a 3,2 milioni di arrivi e 6,4 milioni di presenze. Una fetta importante di turisti è di provenienza cinese: nel 2018 sono stati circa 400mila i cinesi che hanno visitato Milano, in aumento dell’1,9% rispetto all’anno precedente.
Importante dunque che la città di Milano, con la propria offerta turistica, instauri un canale diretto coi visitatori cinesi. Poche settimane fa, l’annuncio del lancio dell’account ufficiale Yes Milano 探索米兰 (Tànsuǒ Mǐlán significa “esplorare Milano”) sull’applicazione cinese WeChat.
Milano è la prima città italiana ad avere un proprio account ufficiale su WeChat, app che conta più di un miliardo di utenti in tutto il mondo. L’iniziativa del Comune di Milano è frutto dell’accordo stipulato fra la Camera di Commercio di Milano Monza Brianza Lodi e Tencent, l’azienda di Shenzhen proprietaria di WeChat. Partner dell’iniziativa anche Fc Internazionale, Teatro alla Scala e Camera della Moda. Entro il 2030, il turismo cinese rappresenterà quasi un quarto del turismo globale e si stima che nei prossimi 5 anni avrà per Milano un potenziale di 220 milioni di visitatori.

Perché Wechat

L’account YesMilano su WeChat avrà come funzione principale quella di fornire informazioni agli utenti che si trovano in Cina, da aspetti legati all’organizzazione del viaggio fino al soggiorno in città. Entro la fine del 2019, verrà inoltre avviata una seconda modalità d’interazione su WeChat. Attraverso un mini-program pensato per chi già si trova in Europa o a Milano, grazie alla geolocalizzazione l’utente potrà organizzare la visita in città sulla base dei propri interessi scegliendo tra percorsi enogastronomici, culturali, sportivi o dedicati allo shopping.
L’iniziativa YesMilano non è l’unica a dimostrare la forte attenzione di Milano e dei suoi operatori verso il turismo cinese. A giugno del 2018 Montenapoleone District, l’associazione che riunisce oltre 150 marchi del lusso del Quadrilatero della Moda di Milano, ha lanciato anch’essa il proprio account ufficiale WeChat. Secondo i dati Global Blue relativi al primo semestre 2019, i cinesi sono la prima nazionalità per acquisti tax free in Italia con il 28% del totale del mercato, e sono big spender in tutte e quattro le principali mete per lo shopping: a Venezia hanno pesato per il 35% sulla spesa totale, a Milano per il 33%, e a Roma e Firenze per il 28%.
Se da una parte, Milano ha una forte attrattiva agli occhi del consumatore cinese per lo shopping, la moda e anche il calcio, e vi è presente un tessuto industriale (e anche politico) che supporta iniziative di respiro internazionale, bisogna però ricordare che il viaggiatore cinese difficilmente quando viaggia in tratti di lunga percorrenza (come nel caso dell’Europa), visita solamente una città e neppure un singolo paese. I lunghi viaggi dei cinesi toccano più mete, anche perché solitamente avvengono durante le feste nazionali. Di conseguenza, la presenza digitale e social delle singole destinazioni assumerebbe maggiore visibilità se inserite in una strategia integrata del turismo italiano.
L’ente del turismo italiano Enit è già presente su WeChat dal 2017, così come l’Ambasciata italiana in Cina a Pechino e i vari consolati. Spazi di crescita ci sono, in particolare in vista del2020, anno del turismo Italia-Cina. Auspicabile quindi una maggiore attivazione sulle diverse piattaforme cinesi, molto diverse da quelle occidentali ma anche in costante evoluzione. Per esempio, TikTok è il social che sta crescendo di più in Cina e anche nel resto del mondo: a settembre è stata l’app più scaricata sia su Apple Store che Google store a livello globale.
wired.it

Enit / Buy Wedding in Italy: dai talk show momenti di confronto professionale e preziose informazioni


E’ in costante e interessante crescita il turismo incoming legato ai matrimoni stranieri in Italia. Questo il primo dato emerso dalla tre giorni svoltasi a Bologna, la quinta edizione in tutto del workshop b2b Buy Wedding in Italy, che ha messo di fronte offerta del mercato matrimoniale italiano e domanda dei wedding planner stranieri, ben 25 presenti, che con gli appuntamenti prefissati hanno dato vita a 2.200 incontri.

Interessante al punto che Enit, oltre ad avere ospitato la presentazione dell’evento a Roma e avere aiutato l’organizzazione curata da Valerio Schoenfeld a invitare buyer consolidati e affidabili, è stata presente nella seconda giornata di lavori, con il consigliere Sandro Pappalardo, testimoniando l’interesse per un segmento molto importante del settore turistico.

Secondo i dati del report dell’osservatorio Destination wedding tourism, il fatturato complessivo del settore si attesterà sui 486 milioni 854 mila euro, con il maggior assorbimento dei matrimoni soprattutto in tre territori: in primis la Toscana con il 25,6% del mercato, seguita dalla Campania (15,3%) e dalla Lombardia, con un market share pari al 14,3%. Queste tre regioni conquistano da sole oltre la metà del tutto: ben il 55,2%.

Un aspetto interessante del workshop ha riguardato le conferenze, coordinate da Bianca Trusiani, presidente del comitato tecnico Buy Wedding, che hanno toccato tematiche importanti e diverse. Novità di questa edizione, soprattutto per la caratura dei partecipanti, i talk show, moderati dal nostro collega, Massimo Terracina: il primo era dedicato al destination wedding quale leva per lo sviluppo di una destinazione e al contempo tutte le caratteristiche del territorio come gli usi, i costumi e l’enogastronomia rientrano nel destination wedding stesso, che ha visto la partecipazione, oltre che del consigliere di amministrazione Enit, Sandro Pappalardo, che ha fornito dei dati riguardo ai viaggiatori stranieri che si recano in Italia per i viaggi di nozze, Carmen Bizzarri, docente Università europea di Roma e Stefano Crugnola, agente di viaggio e componente del comitato permanente di promozione del turismo in Italia.

Un altro interessante e difficile argomento (per l’importanza e la complessità della cosa) è stato quello dedicato al “Professional challenge: wedding planner doc!”, il cui fulcro è stata la prassi di riferimento analizzata dai vari attori e competitor. Anche qui importanti indicazioni da Olimpia Ponno, ex presidente Mpi, Clara Trama, presidente dell’Associazione italiana wedding planner,Veronica Amati, sinologa e destination wedding planner, Ruggero Lensi, presidente Uni Italia, Franco Fontana, responsabile della certificazione del servizio e della persona, e Stefania Arrigoni, fondatrice di Assowedding. Tutti gli speaker hanno parlato di ciò che stava succedendo con tale prassi sia a livello italiano, sia internazionale. Clara Trama ha promosso e portato avanti questa prassi coadiuvata da Ruggero Lensi. Momento topico e molto seguito da tutti: ci sono stati confronti con altri wedding planner e presidenti di associazione di altre categorie.

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Enit all’Ibtm di Barcellona tra workshop, flash mob e photobooth




Gli spagnoli spendono una fortuna in Italia, ben 1 miliardo e mezzo l’anno con picchi in Lazio, Lombardia, Veneto e Sicilia. E la spesa degli spagnoli non arresta a crescere e anzi aumenta del +15,8% nel 2018 sul 2017. Il Bel Paese è in capo alle loro scelte: all’ottavo posto tra le mete scelte dagli spagnoli nel mondo. E continua l’impennata dei fan spagnoli della penisola con presenze in aumento del 10%. Soprattutto al Sud Italia, tra cui Napoli, dove soggiornano fino a oltre 12 giorni. I visitatori dalla Spagna amano stare comodi e nel 71% dei casi prediligono hotel e villaggi a sistemazioni extralberghiere. In queste strutture ricettive si concentra il 44,2% della loro spesa turistica. Segue l’ospitalità di parenti e amici con una quota parte del 17,6% sul totale.

I dati sono stati resi noti dall’Enit-Agenzia Nazionale del Turismo in vista dell’Ibtm di Barcellona, da domani, martedì 19 a giovedì 21 novembre, in cui l’Ente ha organizzato appuntamenti di networking di confronto, health breakfast per promuovere l’enogastronomia italiana, photobooth per immersioni nelle atmosfere italiane e un flash mob in stile veneziano al The Imperial Barcellona con ambientazioni di corte in occasione del workshop indetto dall’Agenzia Nazionale del Turismo che farà incontrare 50 aziende italiane con oltre 200 buyers spagnoli per una full immersion nel mood italiano.

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