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Carnevale Venezia, inizia il concorso delle 12 'Marie'

L'arrivo del corteo in gondola e poi Piazza San Marco hanno accolto le 12 "Marie" del Carnevale di Venezia 2023, dopo la vestizione a Palazzo Vitturi, a Santa Maria Formosa, con gli abiti tradizionali disegnati dall'Atelier Pietro Longhi che indossavano le giovani spose nel Rinascimento, e poi culminata con l'abbraccio del pubblico nel cuore del centro storico della città. Ad accogliere le 12 ragazze sul palco sono state la patron del concorso, Maria Grazia Bortolato, e il consigliere delegato alla Tutela delle tradizioni del Comune di Venezia Giovanni Giusto assieme al cerimoniere Maurice Agosti.

"E' una bellissima avventura, dieci giorni da sogno che vivrò con loro - ha spiegato Bortolato -. Sono felice di vedere la loro emozione, alle ragazze dico sempre di vivere bene questa esperienza, divertendosi. Voglio che siano protagoniste della città, vivendo momenti che spaziano dalla cultura al sociale. Oggi è un giorno di festa, domani sarà già tempo di mettersi al lavoro: saliremo sul campanile di San Marco per ripulire le pareti dagli adesivi e dalle scritte sui muri. Il rispetto della città è il messaggio principale che le ragazze devono fare proprio e divulgare a tutti. Mi auguro che alla fine di questo percorso venga premiata la ragazza giusta: una bellezza serale ed entusiasta dei posti che andremo a scoprire a Venezia". Le 12 ragazze sono state selezionate tra una sessantina di pretendenti che si sono presentate da tutta la Città metropolitana. A loro si uniranno in alcuni appuntamenti anche le due damigelle, Veronica Boscolo e Mariam Gargiulo. Riportata in auge dal regista Bruno Tosi nel 1999 e diventata col tempo uno degli eventi del Carnevale di Venezia, la Festa delle Marie ricorda un fatto storico realmente accaduto, nel 973, quando nella chiesa di San Pietro di Castello, durante gli annuali festeggiamenti dedicati alla purificazione della Vergine Maria, dodici ragazze veneziane vennero rapite da un gruppo di pirati dalmati. Dopo un inseguimento organizzato dal Doge Pietro Candiano III, le fanciulle furono liberate e ricondotte a Venezia. Da allora, la Festa delle Marie fu festeggiata ogni anno nella città lagunare con modalità e riti che cambiarono nel corso dei secoli. Le 12 Marie presenzieranno, fino a martedì grasso 21 febbraio, agli appuntamenti più importanti del Carnevale, e si contenderanno il titolo della "Maria più bella dell'anno" animando palazzi e feste tra Venezia, Mestre e le isole. L'elezione è prevista lunedì 20 febbraio nelle Sale Apollinee della Fenice. (ANSA).

 

La Befana, 6 luoghi dove festeggiarla. Da Urbania a Venezia e a Roma, idee per il weekend dell'Epifania

 

In volo, su una gondola, con una calza da record, su una giostra e, simbolicamente, bruciata in un falò: ogni città ha un suo modo di festeggiare la Befana che regala sempre emozioni e magia a piccoli e grandi.

Ecco qualche idea per unire a visite ed escursioni i festeggiamenti dell'Epifania nel primo lungo weekend dell'anno.

Dal 4 al 6 gennaio a Urbania, nelle Marche, si celebra la Festa nazionale della Befana a cui vengono consegnate le chiavi della città per dare il via a tre giorni di festeggiamenti. Dalla torre campanaria, in pieno centro, la Befana vola a cavallo della scopa su grandi e piccini che la aspettano per ricevere doni e dolciumi.

E' un volo acrobatico da 36 metri di altezza, scenico e suggestivo, che ogni anno regala uno spettacolo di luci, musica ed effetti speciali. La città della Befana rende omaggio alla sua concittadina più famosa con addobbi e festoni nel centro storico, dove sono appese migliaia di calze e dove centinaia di "befane" animano piazze e vie con laboratori e spettacoli. Tanti gli appuntamenti che celebrano la vecchina, a partire dalla sua casa-museo: qui, tra giochi e infusi, si può vedere il calderone dove vengono preparati i dolci, non prima di aver lasciato una letterina con i propri desideri all'Ufficio Postale; è anche possibile ascoltare le favole che la Befana racconta davanti al camino acceso. Il 6 gennaio, durante la sfilata per le strade del centro, la vecchina porta con sé la calza più lunga del mondo cucita a mano e che è d'obbligo toccare come gesto portafortuna.

Da Urbania inizia l'alta valle del Metauro, che si estende dai monti delle Cesane verso l'Adriatico alla dorsale Appenninica; è un'area che comprende, lungo il fiume, i comuni di Fermignano, Peglio, Sant'Angelo in Vado, Mercatello sul Metauro e Borgo Pace. E' un territorio ricco di storia e cultura, che permette di scoprire luoghi come Urbino e scenari naturali come la Gola del Furlo e l'Alpe della Luna, punteggiati da borghi, torri e chiese. Info: festadellabefana.com

Verona la Befana si festeggia con il falò: "Brusar la Vecia", dicono, bruciare la vecchia; alle 18 a piazza Bra, di fianco all'Arena, si dà fuoco a un enorme pupazzo alto circa dieci metri fatto con legna, stracci e fascine. E' una festa suggestiva e una cerimonia propiziatoria che rievoca l'antico rito dell'Epifania nella tradizione popolare, cioè il passaggio dal vecchio al nuovo anno scongiurando i malefici. L'evento è preceduto e accompagnato da spettacoli musicali, pirotecnici e dall'arrivo sotto una grande stella cometa dei Re Magi con doni e dolci per i più piccoli. In mattinata piazza Bra ospita anche la Befana del Vigile, una manifestazione benefica con raccolta di generi alimentari e doni per i più bisognosi e con una sfilata di automobili d'epoca. E' l'occasione per passeggiare nel centro storico, sostare sotto al celebre balcone di Romeo e Giulietta e arrivare fino a piazza delle Erbe per l'immancabile spritz, oppure per fare un'escursione al lago di Garda e passeggiare nel delizioso borgo di Malcesine.

Venezia la Befana arriva in barca: il 6 gennaio lungo il Canal Grande si svolge la Regata delle Befane. La vestizione viene fatta ai Magazzini del Sale; poi alle 11 davanti a Palazzo Dolfin Manin i partecipanti pagaiano lungo il Canale verso San Marco e da qui fino al ponte di Rialto. E' una celebrazione suggestiva lungo i canali della città tra tradizioni e cultura, arte e bellezza. Ed è anche l'occasione per prendere un battello o un motoscafo e fare il giro delle isole più belle della Laguna di Venezia, patrimonio dell'Unesco.

Il 6 gennaio nel Salone Arly di La Thuile, suggestiva località del comprensorio Espace San Bernardo della Valle d'Aosta, va in scena "Questo Natale mi sono persa una renna", festa della Befana con il Mago J. E' uno spettacolo di magia e animazione per i bambini che vengono coinvolti tra pasticci ed esperimenti, travestimenti e palloncini ribelli, a ritrovare la renna. Lo spettacolo è alle 17 e si prenota sul sito: lathuile.it. E' uno show divertente per chi sta sciando sui 152 chilometri di piste del comprensorio al confine con la Francia, dove si pratica sci alpino, fondo e snowboard, e dove si passeggia con le ciaspole o a piedi nei boschi o con una guida.

Per tutta la famiglia a Firenze c'è la possibilità di festeggiare la Befana a bordo di un treno d'epoca: il 6 gennaio dalla stazione di Santa Maria Novella alle 9 parte il treno della Befana, con carrozze anni Trenta e locomotiva a vapore. Il treno viaggia verso Pontassieve e risale tutta la Val di Sieve fino a San Piero, in Mugello. Dopo una lunga sosta per un rinfresco il convoglio riparte per Firenze, via Vaglia, percorrendo la linea Faentina per poi rientrare a Santa Maria Novella alle 14. La manifestazione è organizzata dall'Associazione Toscana Treni Storici "Italvapore", in collaborazione con la Proloco di San Piero a Sieve, il Comune di Scarperia e San Piero e l'Unione Montana dei Comuni del Mugello.

Prenotazioni sul sito: prolocosanpieroasieve.it La festa continua nel capoluogo fiorentino davanti a Palazzo Pitti, da dove si assiste alla partenza della cavalcata dei Re Magi con i tipici costumi rinascimentali che si dirigono verso Ponte Vecchio, Piazza della Signoria e Piazza del Duomo.

Roma la Befana sale sulle giostre di piazza Navona che ospita anche spettacoli di marionette, concerti gospel e stand di libri e oggetti artigianali. Sono previste 76 attività per i più piccoli tra letture animate, laboratori, giochi di ruolo e spettacoli di narrazione. Una parte della piazza, inoltre, è allestita con i giochi di una volta come il tiro alla fune o la corsa con i sacchi. Tanti sono in realtà gli appuntamenti nella Capitale per festeggiare la Befana; tra questi c'è la festa a Villa Pamphilj che invita tutti i bambini a recarsi nel parco con una calza vuota, che verrà riempita dalla Befana con doni e caramelle. Alle 11, inoltre, si può assistere allo spettacolo teatrale all'aperto "Il circo in valigia". Informazioni: turismoroma.it 

ansa

Alla riscoperta di Lee Miller, pioniera del surrealismo fotografico

 

 L'immagine ormai iconica con Lee Miller immersa nella vasca da bagno dell'appartamento di Hitler a Monaco, supremo gesto surrealista, atto di giustizia, di purificazione umana, contro quanto aveva visto a Dachau e Buchenwald, dove era entrata con gli Alleati, è nell'ultima sala, "Fotografare l'orrore".
    E' il tassello finale della mostra dedicata alla fotografa statunitense, al rapporto prima di allieva poi di parità, d'amore e d'amicizia, con Man Ray, allestita a Palazzo Franchetti, a Venezia, fino al 10 aprile prossimo.

La foto che la ritrae, scattata da un collega, David Scherman, a cui aveva dato la sua macchina fotografica, è uno dei segni, assieme a una immagine fatta a una modella con le braccia alzate con la tecnica della solarizzazione - quasi una risposta a una donna-manichino dell'allora "maestro" fatta anni prima - per comprendere lo spirito di voluta, assoluta libertà che ha accompagnato le sue molteplici "vite".
    Lee Miller è stata modella, fotografa, musa, prima donna reporter di guerra a documentare le atrocità dei campi di concentramento nazisti, per poi lasciare definitivamente l'esperienza fotografica. Suzanna, moglie dell'unico figlio, Anthony Penrose, scoprirà casualmente in soffitta, nel 1977, pochi mesi dopo la morte della fotografa, oltre 60mila tra negativi, documenti, riviste, che hanno condotto alla riscoperta di Lee Miller, di una vita segnata da successi ma anche forti traumi.
    L'esposizione, intitolata "LEE MILLER MAN RAY.    FASHION-LOVE-WAR", curata da Victoria Noel-Johnson, organizzata da Cms.Cultura, in collaborazione con Acp-Palazzo Franchetti, attraverso 140 foto dei due protagonisti, alcuni oggetti d'arte e video, intende anche offrire - è stato ricordato - "il giusto riconoscimento a Lee Miller, pioniera del surrealismo in fotografia, ponendola su un piano di parità con Man Ray, il cui lavoro tendeva a oscurarla sia in vita che negli anni a venire".
    Procedendo per temi e con un percorso cronologico, attraverso otto sezioni, la mostra si apre con la fotografa modella a New York dal 1927 e musa due anni dopo di Ray a Parigi, dove era andata per imparare la fotografia. "Preferisco fare una foto che essere una foto", disse una volta. Nelle altre parti, è un continuo susseguirsi di foto che testimoniano anni di incontri, di scelte, di ricerca e sperimentazioni, di un riavvicinarsi alla moda stavolta dall'altra parte dell'obiettivo. Ad esempio, c'è una foto fatta a Londra nel 1941, con una modella ritratta con dietro le rovine dei palazzi colpiti dai bombardamenti tedeschi. E' una carrellata di immagini che si intersecano con gli anni degli amori, dei matrimoni, prima nel 1934 con l'uomo d'affari egiziano Aziz Elui Bey - una sezione è intitolata "Egitto" con esposto "Portrait of Space" che spinse nel 1938 Magritte a dipingere "Le baiser" - e poi, nel 1949, con Roland Penrose. Il tutto all'interno di un percorso di vita dove uno dei fili rossi, forse la linea guida, è proprio la vicinanza sul piano professionale certo umano con Man Ray, che le resterà vicino nel periodo in cui lei soffre di depressione cronica, anche in seguito a un disturbo post-traumatico conseguente a aveva visto durante la guerra. Per la primavera del 2023 - è stato detto nel corso della vernice della mostra -, è prevista l'uscita del fil "Lee", basato sulla biografia scritta dal figlio Anthony, con Kate Winslet nei panni della Miller e Judy Law, in quelli del marito. Nel cast anche Marion Cotillard.
   

Ansa

Leone d'Oro a All the beauty and the bloodshed

Leone d'argento a Luca Guadagnino che ha dedicato il premio ai registi iraniani arrestati e detenuti

venezia leone oro All the beauty and the bloodshed

AGI - All the beauty and the bloodshed vince il Leone d'Oro alla 79esima edizione del Festival del Cinema di Venezia.

'All the Beauty and the Bloodshed' è un film documentario  americano che racconta la storia epica ed emozionante dell’artista e attivista Nan Goldin.  Attraverso diapositive, dialoghi intimi, fotografi e rari filmati, viene ricostruita la sua battaglia per ottenere il riconoscimento della responsabilità della famiglia Sackler per le morti di overdose da farmaco.

Leone d'argento a Luca Guadagnino che ha dedicato il premio ai registi iraniani arrestati e detenuti. Tra loro anche Jafar Panahi.

Venezia, Leonessa firmata Mattotti celebra 90 anni della Mostra

 


Una Leonessa dalle linee classiche per celebrare i 90 anni della Mostra del cinema di Venezia (31 agosto - 10 settembre): è l'immagine del manifesto ufficiale firmata, per il quinto anno, da Lorenzo Mattotti, che è anche autore, per il quarto anno, della sigla del festival. E' "una Leonessa che si libra in alto e ci porge questo anniversario, il 90° - spiega Lorenzo Mattotti -. Sono 90 gli anni dalla prima edizione della Mostra e per questo abbiamo voluto che l'immagine avesse delle linee classiche, così come classica è stata la scelta del fondo oro. Il colore oro è anche un riferimento ai manifesti dei primi decenni del Novecento. La Mostra è sempre stata classica, ma anche provocatoria. Qui il Leone, simbolo di potere e forza, si è trasformato in una Leonessa, che ha in sé eleganza e creatività. Dopo 90 anni, il Leone di Venezia, simbolo della Mostra, è ora diventato una Leonessa che vola attraverso la storia con energia e leggerezza, simbolo di speranza, lontano dall'aggressività e dalla ferocia". (ANSA).

(segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone - Turismo Culturale)

Mostra del Cinema. I pescatori di Segre difendono l'anima di Venezia

 Commuove e fa riflettere il regista Andrea Segre che domani sera alle Giornate degli Autori inaugura lo spazio "Notti Veneziane" della 78ma Mostra del Cinema (che si apre domani alla presenza del Presidente della Repubblica Mattarella) con un film che è un gioiellino. È Welcome Venice (dal 9 settembre al cinema distribuito da Lucky Red) e vede al centro i due eredi di una famiglia di pescatori della Giudecca, isola di Venezia dalla vocazione popolare. Da applauso i due protagonisti, Paolo Pierobon (il rude Pietro) e Andrea Pennacchi (l’ingenuo arrivista Alvise), due fratelli che incarnano le due anime di una città che ha perso le sue radici. Pietro, ancorato alla tradizione, vuol continuare a pescare "moeche", i rari granchi della laguna, Alvise invece vuol trasferirsi a Mestre per affittare la loro casa alla Giudecca ai turisti per entrare nell'élite immobiliare che governa la città. Accanto a loro, divisi tra il difendere l'anima autentica della città e della sua gente, a costo di rimetterci, e il richiamo del denaro "facile" che porta allo snaturamento di un luogo, anche gli altri familiari interpretati da un grande cast, Ottavia Piccolo, Roberto Citran e Sara Lazzaro.

Il film è nato durante la pandemia, che resta sullo fondo. «E’ un momento in cui ci si chiede se ripartire o meno col turismo – spiega Andrea Segre –. Tutto questo però ha una conseguenza sulle famiglie, sulle case, sull’abitare. Durante la pandemia è stato panico in questa città. Le famiglie si fanno delle domande su come poter vivere». Nel film si mostrano anche le conseguenze dello snaturamento dell’anima di una città, che non sempre porta vero benessere. Andrea Segre, col suo sguardo documentaristico, fa di Venezia un paradigma della situazione italiana: «E’ quello che ho tentato di fare con questa trilogia composta da Pianeta in Mare, Molecole e Welcome Venice. Raccontare un luogo che conosco con la convinzione che abbia potenze suggestive, etiche e estetiche che aiutano a raccontare le tensioni dell’oggi. In Pianeta in mare il destino di una zona industriale come quella di Marghera racconta il rapporto tra il lavoro e la globalizzazione oggi; Molecole era su Venezia e le acque, la tensione del Mose, l’acqua alta, l’innalzamento dei mari, quella è la tensione tra la fragilità e la bellezza della vita; quest’ultima parte è il rapporto tra l’abitare quella bellezza e vendere quella bellezza. E giusto tutelare quelle bellezze – conclude –, ma poi diventano dei musei e si svuotano di vita vera».
Paolo Pierobon, grande attore diviso fra teatro, cinema e tv, è alla Mostra del cinema con ben tre film, fra cui Qui rido io di Mario Martone dove interpreta Gabriele D’Annunzio e I nostri fantasmi di Alessandro Capitani dove sarà un marito violento. In Welcome Venice l’attore di Castelfranco Veneto incarna nel suo pescatore con piccoli precedenti penali, ma duro e puro nella volontà di essere libero da gretti interessi con un lavoro che lo riscatta, l’anima di una Venezia (e di un’Italia) che non vuole mollare. Mentre suo fratello si lascia lusingare da facili promesse che portano anche guai e delusioni. «Ci sono due modi diversi di vedere le cose – ci spiega Pierobon –. Questo pescatore, con una bella dose di inconsapevolezza, sta combattendo contro quello che sta diventando la città, che non è più una città ma la rappresentazione di se stessa . Tutti scappano, tutti affittano e vanno a Mestre. Va bene, occorre lavorare, ma se resta solo quello, se anche l’ultima casa, l’ultimo baracchino o caffé diventa un bed and breakfast standardizzato poi si stanca anche il turista perché non viene più a vedere niente di vero. Il tema della "gentrification" riguarda tante città, non solo italiane. Il Covid ha messo a nudo tutto ciò. Come dice il mio personaggio "i turisti non ci sono più, ma i granchi ci saranno sempre"».

da Avvenire

(segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone e Albana Ruci - Turismo Culturale)

Venezia, arte sul Ponte di Rialto per il ‘Natale di Luce 2020’

 

Il Ponte di Rialto si tinge d’arte per il ‘Natale di Luce 2020’, verso le celebrazioni per i 1600 anni di Venezia. Con un gioco di proiezioni e dissolvenze, il ponte si trasforma in un libro su cui scorrono alcune delle pagine più significative della storia della città. Come riporta HotelMag, la struttura in pietra d’Istria del ponte si accende di immagini che, in rapida sequenza, ricordano alcuni dei momenti e dei protagonisti della storia, dell’arte e dell’architettura veneziane.

La videoproiezione, promossa dal Comune di Venezia e Vela, con la partnership del Consorzio di Tutela del Prosecco Doc, nell’ambito del progetto ‘Natale di Luce 2020’, prende avvio il 5 dicembre per essere ripetuta sino al 31 dicembre 2021. Una rassegna artistica luminosa, da Vittore Carpaccio a Jacopo de’ Barbari, da Antonio da Ponte a Vincenzo Scamozzi, al Canaletto, per raccontare questo punto nevralgico che unisce le due sponde del Canal Grande.

La narrazione, a cura di Etra Comunicazione, che si chiude con un brindisi simbolico al nuovo anno, vuole anche introdurre le celebrazioni per il 1600esimo anniversario della fondazione di Venezia, che ricorrerà il 25 marzo 2021.

ttgitalia

Venezia installa a San Marco albero digitale Plessi

 

VENEZIA  - E' un omaggio alla luce e un messaggio di rinascita l'intervento creativo che l'artista Fabrizio Plessi ha voluto dedicare a Venezia per il Natale 2020 in Piazza San Marco. L'installazione, promossa dal Comune e Vela Spa con la partnership di Assicurazioni Generali nell'ambito della rassegna "Le Città in Festa - Natale 2020", troverà posto tra le due colonne della Piazzetta a partire dal prossimo 4 dicembre sino al 6 gennaio, per lanciare da Venezia un messaggio di speranza capace di rinnovarsi avvalendosi di un linguaggio contemporaneo: il digitale.
    Un 'faro' luminoso, composto da oltre 80 moduli di 1metro per 50centimetri, che, prendendo la forma di un albero della vita che unisce simbolicamente la terra al cielo, interpreta il senso più profondo del Natale. "L'idea per questa installazione è scaturita dal mio grande amore per Venezia: ho immaginato un gigantesco mosaico dorato, che richiama l'oro della Basilica, in cui ogni tassello vive di vita propria - racconta Plessi -. Per la prima volta nel mio lavoro ho fatto sì che il flusso luminoso di ciascun elemento vada in direzioni diverse, andando a creare un intreccio di contaminazioni quale metafora, da un lato, della dinamica delle relazioni interpersonali e, dall'altro, per valorizzare la memoria storica di questa città, luogo di incontro e di scambio tra culture diverse per eccellenza".
    Una luce nuova "illuminerà il Natale di Piazza San Marco - commenta il sindaco Luigi Brugnaro - .Una luce nata dall'estro creativo del maestro Fabrizio Plessi e che rappresenterà, idealmente, una segno di quella speranza e di quella resilienza di una città che vuole farcela". Il progetto Natale di Luce 2020 in area marciana prevede anche un intervento luminoso alle Procuratie Vecchie e Nuove e lungo Calle XXII Marzo sino a campo Santa Maria del Giglio nonché il prolungamento dell'installazione L'Età dell'Oro sulla facciata dell'Ala Napoleonica del Museo Correr sino al 6 gennaio. (ANSA).

Festival Cinema Venezia. LEONE D'ORO A NOMADLAND, PER L'ITALIA VINCE FAVINO

ARGENTO A NUEVO ORDEN. DELUSIONE PER NOTTURNO DI ROSI L'americano Nomadland, road western di Chloé Zhao, vince il Leone d'Oro della Mostra di Venezia numero 77. Leone d'argento, Gran Premio della Giuria, a Nuevo Orden di Michel Franco. Migliore regia al giapponese Kiyoshi Kurosawa per Wife of a spy. Per l'Italia vince Pierfrancesco Favino, Coppa Volpi per il miglior attore per Padrenostro di Claudio Noce. Delusione per Notturno di Gianfranco Rosi, senza premi dopo essere stato tra i favoriti. "La decisione di escluderlo è stata difficile tanto che volevamo creare un premio speciale per lui", le parole della presidente Cate Blanchett.
ansa


Le Muse inquiete, la Biennale tra arte e storia

 Le Muse inquiete, la Biennale tra arte e storia © ANSA

ansa

VENEZIA - Arti e Storia. In 125 anni di vita, fin dalla prima esposizione d'arte del 1895, La Biennale di Venezia non ha potuto sottrarsi a questo binomio. Un confronto, a seguire il percorso della mostra "Le Muse inquiete. La Biennale di fronte alla storia", al Padiglione centrale dei Giardini, fino all'8 dicembre, che si fa serrato, come oggi, in quel "secolo brevissimo" che va dagli anni '20, quando la mano e la volontà del fascismo si allungano sull'istituzione, ai grandi momenti della rinascita post-bellica, con la memorabile mostra d'arte del '48 (Picasso per la prima volta o la "scoperta" dell'arte statunitense grazie a Peggy Guggenheim), alle contestazioni del '68, all'irrompere della guerra fredda e della caduta del Muro di Berlino, fino agli anni '90 con gli albori della globalizzazione e il cambio di Statuto e il passaggio dell'ente a Fondazione. Spinta da uno di quei grandi eventi che cambiano la storia, la pandemia da Covid19 - come prima è successo con le guerre, i conflitti sociali, gli scontri generazionali e le profonde trasformazioni del '900 che "hanno premuto contro i confini dell'Istituzione veneziana" a dirla con Cecilia Alemani, coordinatrice del progetto e direttrice dell'esposizione d'arte slittata al 2022 - la Biennale ha voluto fare i conti con le sue vicende in rapporto alla società, alla politica, ai grandi eventi del mondo. Nel vastissimo materiale custodito all'Asac, l'archivio storico della Biennale - presto trasferito e ampliato negli spazi e negli - accessi - i direttori delle sei "muse" - Arte, Architettura, Cinema, Teatro, Musica e Danza - hanno scovato documenti, lettere, ritagli di giornale, quadri, registrazioni, video che, assieme a filmati rarissimi messi a disposizione dall'Istituto Luce, hanno dato vita all'esposizione, suddivisa in 12 sale. Una esposizione delle Biennali, del lavoro per realizzarle, della persone che le hanno guidate, delle censure del totalitarismo e delle libertà, del suo saper essere stata stata, nei due dopoguerra, a dirla con la curatrice, "faro di speranza nella rinascita civile dell'Italia e di molte altre nazioni". Più di mille documenti danno vita a "una mostra molto densa", spiega Cecilia Alemani, che ripercorre passo dopo passo, sotto titoli "chiave", "i momenti di crisi, di trasformazioni, di rivoluzioni, di introduzione di nuovi linguaggi artistici che, in una disciplina o nell'altra, hanno marcato la storia della Biennale". Ad accompagnare il visitatore, lungo il percorso allestito da Formafantasma, una utile pubblicazione che sopperisce di fatto alla quasi assenza di didascalie vicino al materiale esposto al fine di evitare "aggregazioni di persone" attorno a una bacheca o un tavolo. Ogni elemento, ogni raccolta di atti attorno a un singolo evento, a una "censura" o a uno "scandalo", anche mediatico, è motivo per aprire uno squarcio sul confronto-scontro tra arti e storia, per comprendere quel procedere per strappi e connessioni: dalla mostra del Cinema che dal '38 diventa strumento di propaganda fascista, alla causa di De Chirico contro la Biennale, al dipinto girato di Gastone Novelli e gli scontri in piazza del '68, alla protesta per il golpe in Cile nel '74 o la Biennale del Dissenso del '77 di Carlo Ripa di Meana; oppure, su fronti diversi lo scandalo per il dipinto del 1895 di Giacomo Grosso premiato e censurato dalla chiesa o le opere 'osè' di Jeff Koons con Ilona Staller. Tra le curiosità, ma drammatico segno dei tempi, la visita alla mostra d'arte di Hitler nel '34, con il suo rifiuto di un'opera di Seibezzi che gli viene offerta perché non gli sembra rappresenti bene Venezia, e il repentino cambio con un altro dipinto che ritrae delle barche. Da tutto traspare quell'inquietudine che attraversa le arti di fronte alla storia, "le muse inquiete" del titolo. perché, come dice il presidente della Biennale Roberto Cicutto, "l'inquietudine è il motore della ricerca che ha bisogno di confronto per verificare ipotesi e ha bisogno della storia per assorbire conoscenza".

L'arte del vetro, la 'contaminazione' tra Murano e l'America 155 pezzi in mostra alla Fondazione Cini a Venezia

 

VENEZIA - "Nell'arte contemporanea fortunatamente non ci sono ancora frontiere e non si sa in quale campo cada il seme" dice Luca Massimo Barbero, direttore dell'Istituto di storia dell'arte della Fondazione Cini, e il "seme" dell'arte vetraria muranese da oltre mezzo secolo ha trovato terreno fertile in terra americana, dando vita a un incontro-confronto che, nel campo della produzione e delle tecniche usate per lavorare il vetro, con spinte innovative e nuove direzioni di ricerca, ha dato frutti eccellenti. A testimoniarlo è la mostra "Venezia e lo Studio Glass americano", curata da Tina Olknow e William Warmus, promossa dalla stessa Cini e da Pentagram Stiftung, all'isola di San Giorgio, a Venezia, dal 6 settembre al 10 gennaio (catalogo Skira).

L'esposizione, che riunisce 155 pezzi - tra vasi, sculture e installazioni in vetro - realizzati da 60 artisti americani e veneziani, è il diciottesimo capitolo del progetto "Le stanze di vetro" che da anni indaga sui diversi aspetti, momenti, tendenze dell'arte vetraria, con particolare attenzione sul '900 a Murano, dove il settore del vetro sta attraversando un momento difficile. Alla Cini c'è un Centro Studi sul vetro che ha un patrimonio di oltre 150mila documenti, tra foto, disegni, album, progetti ed altro provenienti da più archivi e gli archivi - a dirla con Barbero - "sono sorgenti, non depositi, da cui far sgorgare nuova cultura".

La mostra - suddivisa in più sale tematiche, dai "Pionieri americani" che per primi frequentarono Murano per produrre opere originali in vetro, come Mark Tobey o Thomas Stears, fino a "L'invenzione del XXI secolo", con artisti del vetro che affrontano tematiche come l'ambiente o i problemi razziali - testimonia quel concetto di "contaminazione tra due mondi così diversi e distanti" creato dalla ricerca, dal lavoro, dalle tecniche, dagli usi comuni attorno a vetro. È una proposta che punta l'attenzione soprattutto su come le nuove tendenze statunitensi legate al movimento Studio Glass dagli anni '60 e ancora attive - con personalità come Dan Chihuly e Benjamin Moore, da Richard Marquis a Toots Zynski o Philip Baldwin e Monica Guggisberg, a titolo di esempio - abbiano guardato a Venezia, frequentando le fucine in laguna, e su come maestri muranesi - da Lino Tagliapietra a Pino Signoretto - nel contempo abbiano trovato negli Stati Uniti un terreno fertile per rinnovare "la vivacità di un linguaggio storico artigianale" del vetro.

Di particolare impatto, non solo visivo, la spettacolare e gigantesca opera di Chihuly, Laguna Murano Chandelier, formata da cinque elementi di grandi dimensioni realizzata a Murano nel 1996 insieme a Signoretto e Tagliapietra. Sono tutti elementi scultorei che rimandano alla laguna di Venezia. Simbolo quasi di quella "collaborazione e contaminazione" tra artisti americani e maestri veneziani nel vetro americano contemporaneo. Sul piano delle opere realizzate, per le dimensioni e i soggetti trattati, la "scuola" d'oltreoceano sembra esprimere sullo sfondo un senso di leggerezza, di divertimento, che idealmente sembra confrontarsi, ma non contrapporsi, al rigore di certe forme di Carlo Scarpa o Napoleone Martinuzzi.

ansa

L’effetto Coronavirus colpisce anche il turismo a Venezia

Venezia deserta, disdette al 60%
L’effetto Coronavirus colpisce anche il turismo a Venezia. Le disdette sono arrivate al 60%


Venezia: mostra “Il giovane Tintoretto”

Tra gli artisti del Rinascimento, Tintoretto è colui che più ha segnato Venezia con il marchio inconfondibile del suo genio. Chiamato da dogi e notabili ad abbellire palazzi e chiese della città, ha affascinato intere generazioni di amanti dell’arte.

Ora, a 500 anni dalla sua nascita, torna ad affascinare il pubblico in occasione delle celebrazioni che tutta Venezia gli dedica, soprattutto con le mostre "Il giovane Tintoretto" e "Tintoretto 1519 - 1594".

Questo artista ha ammaliato i suoi contemporanei ed impressionato molti artisti come El Greco, Rubens e Velasquez, anticipando per molti versi la sensibilità di personaggi contemporanei. 

Punto focale dell'iniziativa è l’imponente progetto espositivo che la Fondazione Musei Civici di Venezia, fin dal 2015, ha sviluppato con la National Gallery of Art di Washington e che ha trovato la piena collaborazione delle Gallerie dell’Accademia di Venezia.

DUE MOSTRE
Il risultato, a 80 anni dall’ultima mostra dedicata a Jacopo Robusti (detto Tintoretto per il mestiere del padre, cioè il tintore di stoffe) in città , è una straordinaria monografia a Palazzo Ducale (7 settembre 2018 - 6 gennaio 2019) ”Tintoretto 1519 -1594”, incentrata sul periodo più fecondo della sua arte, dalla piena affermazione della metà degli anni quaranta del cinquecento, fino agli ultimi lavori.

In contemporanea a questo allestimento, si prosegue nella storia di Tintoretto, con unagrande mostra alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, “Il giovane Tintoretto”,dedicata ai capolavori del primo decennio di attività e al contesto fecondo in cui egli avvia il suo percorso artistico.


COLLABORAZIONI
Per celebrare il pittore, hanno collaborato tante Istituzioni prestigiose, che in laguna hanno organizzato originali iniziative espositive, editoriali e convegnistiche, in uno spirito corale.

Tra queste in particolare, la Scuola Grande di San Rocco, uno dei siti cardine dell’attività del Maestro, custode di cicli pittorici imponenti e la Curia Patriarcale, con le molte chiese che ancora oggi conservano preziose opere di Tintoretto.

Fondamentale è stato poi il supporto di Save Venice Inc. che negli ultimi due anni ha sostenuto l’esame scientifico e il restauro di tanti capolavori dell’artista presenti a Venezia (18 dipinti e la tomba del Maestro), consentendo ora al pubblico di ammirarli nel loro splendore.

IL GIOVANE TINTORETTO - GALLERIE DELL'ACCADEMIA DI VENEZIA
La mostra “Il giovane Tintoretto” ripercorre attraverso circa 60 opere il primo decennio di attività del pittore veneziano dal 1538 (anno di attività indipendente di Jacopo Robusti a San Geremia) al 1548 (data del successo della sua prima opera di impegno pubblico, il Miracolo dello schiavo, per la Scuola Grande di San Marco, oggi vanto delle Gallerie dell’Accademia).

La mostra riunisce 26 dipinti di Tintoretto, valorizzando al contempo le opere della collezione permanente del museo, proposte entro una nuova prospettiva e affiancate a prestiti provenienti da importanti istituzioni pubbliche e private del mondo, dalLouvre alla National Gallery di Washington, dal Museo del Prado agli Uffizi di Firenze, dalla Galleria Borghese di Roma al Kunsthistorisches Museum di Vienna, ma anche il Museum of Fine Arts di Budapest, la Fabbrica del Duomo di Milano, il Courtauld Gallery di Londra e il Wadsworth Atheneum di Hartford.


Seguendo un ordine cronologico articolato in quattro sezioni, il percorso indaga quel periodo tuttora dibattuto della formazione di Tintoretto, non facilmente riconducibile a una bottega, mettendolo in relazione con il contesto artistico e culturale veneziano degli anni trenta e quaranta del Cinquecento.

In questo modo si chiarisce come Jacopo Robusti acquisisce e trasforma i suoi modelli per sviluppare uno stile drammatico e rivoluzionario, attraverso le suggestioni ricevute da grandi artisti come Tiziano, Pordenone, Bonifacio de’ Pitati, Paris Bordon, Francesco Salviati, Giorgio Vasari e Jacopo Sansovino, presenti in mostra con opere significative.


Oltre alle comparazione con le opere di questi artisti, sono inoltre esposti i dipinti e le sculture di personaggi che hanno lavorato nello stesso ambiente di Tintoretto, tra i quali Andrea Schiavone, Giuseppe Porta Salviati, Lambert Sustris e Bartolomeo Ammannati.


Tra i capolavori del maestro si segnalano in particolare la “Conversione di San Paolo” della National Gallery of Art di Washington e “Apollo e Marsia” di Hartford (esposti ora per la prima volta in Italia) il “Cristo tra i dottori” della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano, la “Cena in Emmaus” di Budapest e i soffitti provenienti da Palazzo Pisani a Venezia, ora alle Gallerie Estensi di Modena.


A cura di Roberta Battaglia, Paola Marini, Vittoria Romani

touringclub.it

Arte contro plastica a Venezia Twin bottles, messaggio antinquinamento sul Canal Grande

 © ANSA

VENEZIA - La metafora della plastica che soffoca il mare prende la forma di due enormi bottiglie d'acciaio inossidabile a pelo d' acqua sul Canal Grande. Una è lucida e strizzata come un rifiuto, sull' altra sono impresse foto che documentano l' inquinamento in ogni parte del mondo.
    Con "Twin Bottles" l' arte lancia da Venezia il messaggio contro la minaccia ambientale che mette a rischio le sorti del pianeta.
    L' installazione, davanti al Casinò, è opera dello scultore albanese Helidon Xhixha e del giovane fotografo svizzero Giacomo 'Jack', accomunati dalla passione per le immersioni subacquee. "In luoghi straordinari abbiamo trovato il mare malato e pieno di plastica - dice Xhixha - e abbiamo deciso di dare la nostra interpretazione artistica utilizzando l' immagine che viviamo ogni giorno di due bottiglie galleggianti alte quattro metri.
    La plastica diventa acciaio per un concetto unico: salviamo i mari del mondo". "Venezia è la citta dell' acqua e dell' arte - aggiunge Jack - quale luogo migliore per questo appello? E' importante far partire proprio da qui l' impegno per rendere il mondo più pulito. Il mare è la nostra vita".
    A sostenere il progetto è la Fondazione Braglia, che a Lugano promuove da tempo mostre d' arte ed è impegnata con Legambiente per salvare e proteggere cento tartarughe marine. "L' arte deve comunicare - spiega Riccardo Braglia, imprenditore farmaceutico - e allora il classico messaggio nella bottiglia di mio figlio Giacomo e dell' amico Helidon è il richiamo a eliminare la plastica dal mare per non ucciderlo, in un evento creato con Città di Venezia e la società Vela in concomitanza con la festa importantissima del Redentore". L' idea è portare le Twin Bottles - che resteranno davanti a Palazzo Ca' Vendramin Calergi ancora per qualche giorno, poi saranno ospitate all'Arsenale e torneranno sul Canal Grande a settembre per la Regata Storica - in tour nei prossimi mesi a Verona e Milano, puntando anche a Londra, e in alcuni laghi del nord Italia. L' assessore comunale al Bilancio Michele Zuin ha rimarcato che Venezia sostiene l'iniziativa che unisce arte e impegno per l'ambiente, condiderandola la prima tappa di un percorso legato a temi sui quali la città è molto sensibile. In linea con l'impegno ecologista, i due artisti hanno donato diecimila euro e adottato simbolicamente due tartarughe Caretta Caretta, pescate alcune settimane fa durante una battuta di pesca a strascico e liberate in mare nei giorni scorsi a Mattinata (Foggia) dopo le cure nel centro di recupero di Legambiente a Manfredonia. Dai controlli è risultato appunto che avevano ingerito oggetti di plastica. "I nostri operatori hanno documentato che più dell' 80 per cento degli esemplari assistiti nel centro - ha spiegato Stefano di Marco, coordinatore della campagna Tartalove di Legambiente - ha ingoiato questi materiali che possono provocare la morte per soffocamento o per blocco intestinale o, come nel caso di queste due tartarughe, seri problemi di galleggiamento". Helidon Xhixha, 47 anni di Durazzo, si è specializzato in sculture monumentali in acciaio. Il padre Sal era uno dei nomi di spicco della scena artistica albanese. Per la Biennale di Venezia del 2015, tra provocazione e impegno ambientalista per denunciare rischio di scioglimento dei ghiacciai, ha ideato un imponente Iceberg di acciaio. Giacomo Braglia, 23 anni di Lugano, vive a Londra e realizza le sue foto 3D utilizzando materiali diversi, gesso, alluminio, ferro e acciaio. Agli argomenti ambientali affianca la ricerca sulle questioni sociali, come l' immigrazione in Africa e Medio Oriente, documentata recentemente nei lavori esposti al Padiglione della Repubblica Araba Siriana alla 58? Biennale di Venezia. (Ansa).

76/a Mostra del cinema di Venezia MARCELLO, MARTONE E MARESCO GUIDANO L'ITALIA A VENEZIA

ATTESI JOKER, POLANSKI, AD ASTRA. NON SCORSESE E ALLEN Pietro Marcello, Franco Maresco e Mario Martone sono i tre registi italiani con i loro film in concorso alla 76/a Mostra del cinema di Venezia. Ad Astra con Brad Pitt, J'accuse di Roman Polanski, Joker di Todd Philips con Joaquin Phoenix, The Laundromat di Steven Soderberg con Gary Oldman, Banderas, Meryl Streep sui Panama papers sono tra i titoli top in concorso. Nel cartellone due assenze: The Irishman di Martin Scorsese ('non è pronto', dice Barbera) e A rainy day in New York di Woody Allen ('lo avrei voluto, ma hanno preferito un'uscita senza i clamori di un festival').

Venezia. Apre la 58ª Biennale d'arte all'insegna del circo

«Mondo cane», installazione nel padiglione belga

Il presidente della Biennale di Venezia Paolo Baratta, parlando a un gruppo di giornalisti invitati per un light lunch, martedì scorso ha fatto un rapido bilancio su come sia cambiata negli anni la funzione di questa mostra, che è la più antica del genere sulla scena internazionale. Limitandosi anche solo al periodo dal Dopoguerra in poi, quando nel 1948 ebbe luogo la prima edizione seguita alla pausa imposta dal conflitto mondiale, Baratta ha così riassunto l’andamento a grandi linee: la Biennale non è più uno spazio nel quale si tengono contemporaneamente tante personali o monografiche riunite sotto lo stesso cappello espositivo. Il modello era quello delle Kunsthalle, ed era anche la formula sulla quale si basò proprio l’edizione del 1948, dove nel padiglione greco era ospitata la collezione di Peggy Guggenheim che portava con forza alla ribalta la pittura astratta, e poi si potevano vedere mostre antologiche dedicate a Klee, Chagall, Arturo Martini (scomparso l’anno precedente), Kokoschka, Rouault, Picasso, Braque, Moore, Wotruba, gli espressionisti tedeschi, gli impressionisti... e molte di queste rassegne avevano curatori d’eccezione, Longhi, Argan, Guttuso, Arcangeli, Read, Ernst... Alle personali erano poi subentrate negli anni monografiche su gruppi ed esperienze nuove. Ma oggi, ormai da varie edizioni, non è più così. Era evidente dalla lieve tensione compiaciuta delle labbra mentre parlava, che Baratta identifica questa svolta anche con se stesso, da quando cioè salì al comando nel 2008, dopo brevi esperienze precedenti.
È scomparsa, ha detto, anche la figura dell’artista come “attore sociale”; non più dunque un propagatore dell’arte come sintomo delle malattie del proprio tempo, o per così dire del riflusso concettuale in realtà diventato lingua internazionale del nichilismo ascetico, dell’arte-nirvana o, peggio, dell’arte indistinguibile dall’oggetto comune secondo il principio che chiunque è artista e qualsiasi cosa può essere arte. Oggi, pensa Baratta, viviamo in una scena dell’arte superaffollata, e il compito dell’artista è portare un cortocircuito nella capacità dello spettatore di digerire ciò che un tempo si chiamava opera d’arte ma ora è inevitabile definire piuttosto oggetto artistico. L’artista non è più chi usando tecniche e linguaggi codificati (sempre soggetti a essere decostruiti e ricostruiti con ordine diverso) ci pone davanti a un’opera che interpreta criticamente un canone e una storia, che si introduce in una continuità con le dissonanze tipiche di ogni atto libero e autonomo (l’élan vital bergsoniano, per intenderci); no, oggi l’artista è total free, nel senso di totalmente libero e totalmente gratuito, usa le materie e i materiali che vuole come gli pare e piace. Non conosce il limite, perché il limite è contrario all’idea di libertà che passa nel nostro tempo. Un’arte che chiunque può fare e che non richiede la conferma di un giudizio critico è piuttosto uno spazio nel quale si entra e si esce come semplici comparse di una giostra che colpisce lo spettatore con trovate, provocazioni, esagerazioni, pensieri buoni (o malefici)...
È anche il senso dell’ammonimento compreso nel titolo della Biennale d’arte che apre i battenti domani: May You Live In Interesting Times, che tu possa vivere in tempi interessanti. Il saggio cinese che usava questo monito non intendeva, come molti si augurano oggi, vivete sereni; in realtà, questo invito a vivere tempi interessanti per i cinesi vale piuttosto come una maledizione perché quell’augurio ha a che fare con la complessità, demone della nostra era postmoderna. Ma quando Baratta nella presentazione in catalogo gioca sul doppio registro maledizione/opportunità, ecco che mette in campo senza dirlo una regola base del capitalismo a cui l’arte di oggi deve quasi tutto anche quando, come sostiene il curatore di questa edizione, l’americano Ralph Rugoff, cerca di essere il balsamo di una storia segnata dal colonialismo.
Se quella maledizione è ricaduta su di noi, come disse un diplomatico britannico, oggi è evidente che continua ad agire in un sistema dell’arte gravemente menomato e tenuto in pugno dal potere economico-culturale: Mercato-Musei-Case d’asta-Galleristi-Curatori. Ed è bene ribadire che i curatori non sono affatto necessariamente critici, sono manager che inventano contesti e messinscene di idee e concetti capaci di dare un retroterra a ciò che spesso sale alla ribalta solo per la determinazione (sostenuta dal denaro) di alcuni influenti personaggi. Oggi, per esempio, l’arte internazionale è dominata da una oligarchia, di cui fanno parte sul piano collezionistico-mercantilistico figure come Pinault e Gagosian.
Qual è il punto debole del sistema dell’arte? Senza dubbio la fine della critica d’arte. Senza la critica d’arte, manifestazioni come la Biennale diventano lunapark o teatri circensi. Si veda – come emblema – l’allestimento Mondo cane di Jos de Gruyter & Harald Thys nel padiglione belga che è un teatrino di finti vecchi automi: suonatori ciabattini arrotini e filatrici ma anche nuovi Frankenstein. Si ride anche, ma è appunto l’emblema di un baraccone dove ogni scelta ideale e artistica convive con l’altra annullandone il potenziale critico e la forza estetica. L’Arsenale presenta anche opere degne di nota e la cura impressa da Rugoff alla mostra è pulita, in parte richiama con minor forza evocativa l’allestimento della Biennale di Gioni. Si segnalano le installazioni di Alexandra Birken con tante figure umane nere (ombre?) afflosciate su scale e travi, ilMicroworld di Liu Wei con lastre di acciaio composte in un conflitto di vuoti e di pieni dentro una grande stanza, le tristi fotografie di Soham Gupta (non a caso intitolate Angst), e quelle ad altissima definizione di Anthony Hernandez su mondi fatiscenti e discariche e materie povere; e ancora: le grandi ruote da autocarro rivestite di catene e sospese a mezz’aria di Arthur Jafa, che mostrano come la scultura possa essere anche lontana dai canoni soliti (anche quelli poveristici appunto)... Sono emergenze che non indicano però nuove strade, un comune sentire, altri scenari dove leggere il futuro. Forse la maggior coagulazione nel modo di vedere viene dai Paesi asiatici, e questo testimonia semmai come il dominio del mercato americano sia messo a dura prova anche nell’arte dal mondo cinese, indiano e giapponese.
Penso che con questa Biennale dovrebbe chiudersi un ciclo, che ha assecondato la dittatura dello spettatore cioè ne ha accarezzato gli istinti consumistici e ludici ma senza scavare nelle contraddizioni del nostro tempo anche prefigurando un dissonante ritorno alle forme e alla capacità tecnica di ordinarle. Al contrario di quel che pensa Baratta, se questa Biennale è diventata il modello per altre manifestazioni analoghe (ma non Documenta, per esempio), forse è il momento di fare scelte diverse e tornare al passato, a una Biennale-Kunsthalle dove il modello espositivo riviva in forme nuove. Del resto, Baratta sa bene che questa formula non è mai tramontata, si è soltanto dislocata su tutta Venezia, in una sinergia con altre istituzioni che aiuta la Biennale a fare risultato. In questi giorni si sono aperte in Laguna mostre di Burri, Baselitz, Scully, Forg, Kounellis, Immendorf, Gorky, Halley... Ridefinendo il modello, si deve tornare e riconoscere un ruolo centrale alla critica.
Avvenire

Venezia. A Palazzo Grassi Luc Tuymans e la pelle dell'immagine

Luc Tuymans, "Turtle" (2017). Venezia, Palazzo Grassi

da Avvenire
Da alcuni anni le mostre della collezione Pinault a Venezia si configurano come una lauta entrée del ricchissima offerta che nella Biennale ha il centro. Palazzo Grassi, dopo la ridondanza della fabula di Damien Hirst nel 2017 e la pittura postideologica di Albert Oehlen l’anno scorso, ospita la prima personale italiana dell’artista belga Luc Tuymans, “La Pelle”.
La mostra, splendidamente allestita, è a cura di Caroline Bourgeois e dello stesso Tuymans, assai attivo anche come curatore, veste nella quale ha firmato recentemente Sanguine, alla Fondazione Prada a Milano, sul barocco storico e contemporaneo. Luc Tuymans muove sempre da un’immagine trovata, intesa come un’operazione di astrazione rispetto al reale, mentre la fisicità del dipinto mantiene salda la necessità dell’esperienza. Nel passaggio dalla riproduzione meccanica (trovata su un libro o sul web) al quadro, l’immagine è sottoposta a una serie di passaggi: viene rifotografata, oppure dipinta e quindi rifotografata, di solito con tecnologie a “bassa risoluzione” (come la Polaroid). A ogni passaggio si perdono informazioni mentre cresce il tasso di “rumore” e la leggibilità diminuisce. Con il riversamento, tecnico o tecnologico, l’immagine diventa altro, come un testo che venga tradotto di lingua in lingua. Nell’oggetto che arriva appeso alle pareti qualcosa resta per sempre lost in translation.
Ci sono però “due” Tuymans. Il primo, che corrisponde agli anni 80 e 90, è un artista estremamente interessante. Le sue immagini sono dure, dipinte con un bisturi. È una pittura secca, a tratti persino gessosa, concentrata, violenta. I tagli sono spesso brutali, come brutale è la forza con cui l’immagine si riversa su chi guarda. Gli occhi chiusi di Albert Speers in Secrets, il corpo fantoccio di Body (entrambi del 1990), l’insetto kafkiano di Superstition (1994), il coniglio fantasma di The Rabbit (1994) e soprattutto la cruda oggettività di Der diagnostische Blick, serie del 1992 in cui Tuymans prende spunto dalle illustrazioni di un volume medico (Diagnostica a prima vista). È una linea che resiste almeno fino a Orchid (1998) e ai primi anni Duemila, come nel notevole Bend Over (2001), pure desunto da un volume di medicina: sono immagini che escludono ogni neutralità e dalla violenza tanto più forte perché compressa in un sottotesto psicanalitico.
Non sembra essere un caso che le tele degli anni 80 e 90 siano quasi tutte di piccolo e medio formato, a volte piccolissimo: dimensioni che garantiscono la massima concentrazione in un rapporto paritario con chi guarda. Ma dalla metà degli anni 2000 Tuymans si gonfia pittoricamente – le immagini si sfaldano, i colori si dilavano – e dipinge formati sempre più grandi. E insieme si estetizza. Per inteso, Tuymans resta un grande pittore: il tritticoMurky Water (2015) è un capolavoro nel suo galleggiare tra fascino pittorico e immagine patologica. Ma qualcosa evapora.
Lo spartiacque è segnato dall’ingresso del digitale nella storia delle immagini: nella loro creazione, nella loro fruizione, nella loro disseminazione. Un’opera chiave nella presa di coscienza in Tuymans nello scarto irreversibile è il dittico Against the day, un altro dei vertici della mostra nella sua enigmatica inquietudine domestica. L’artista si accorge di un’analogia iconografica con Il guardiacaccia di Khnopff (1883) ma, osserva, «la luce era del tutto diversa, ed era chiaro che la mia veniva dall’era digitale (...) questo significa che ogni epoca ha una specifica qualità alla quale è possibile risalire proprio per via visiva».
I soggetti della seconda fase della sua pittura sono disparati: si va dai criminali all’iconografia dei totalitarismi, oggetti che rimandano alla storia del Novecento, particolari di opere d’arte, molto cinema, elementi quotidiani, programmi tv. Tuymans parte da dove era arrivato Gerhard Richter con il suo ciclo 18 Oktober 1977 (1988), dedicato alla cattura e alla morte dei membri della banda Baader- Meinhof: una serie che condensa simbolicamente i dipinti “grigi”, di cui ne costituiscono il commiato. È un lavoro epocale, in cui Richter si confronta con il problema antico della pittura di storia nell’epoca dell’informazione di massa. Pittura senza centro, senza ancoraggi: ogni punto a cui fissarsi cede nel momento in cui lo si agguanta.
Tuymans ne prosegue il tracciato ma la superficie su cui camminare è fragile, come aveva intuito il pittore tedesco. Lo sfasamento, che in Richter è inafferrabilità della pittura e impredicabilità del reale, in Tuymans non sfugge al rischio di diventare maniera. Se nelle opere della prima fase il rapporto tra linguaggio e contenuto è essenziale all’economia dell’immagine, nel Tuymans attuale il contenuto appare non di rado come una sovrastruttura: mentre prima bastava la percezione di un segnale forte per quanto oscuro, ora è richiesta una spiegazione a latere, un sostegno esterno. Il contenuto è un congegno mentale che serve a dare un valore etico, avvertito come necessario (esemplare è Schwarzenheide, l’iperdecorativo mosaico allestito nel cortile di palazzo Grassi, che riproduce un disegno realizzato in un campo di concentramento) a una pittura che è tutta proiettata al proprio interno. Il che di per sé non è un problema, perché è lì che brucia il cuore del fatto artistico: lo dimostra un lavoro come Candle (2017).
Il processo progressivo di scollamento tra immagine e pittura finisce così per rendere fragile il legame tra questa e il tema del potere (delle istituzioni, delle immagini...), che vorrebbe essere il cuore della riflessione. C’è forse un limite nell’opera di Tuymans, presente anche in Sanguine (nella mostra milanese era di carattere storico), di una visione che si fa più debole quanto più cresce in ambizione. Lo si nota nella scelta stessa di intitolare la mostra La Pelle, in relazione al romanzo di Curzio Malaparte. Per quanto la figura dello scrittore sia scelta come emblema dell’ambiguità, a Tuymans probabilmente sfuggono la reale complessità della figura (definito, banalmente, dall’artista «megalomane») quanto quella di un romanzo come La pelle che affonda la sua lingua nel racconto di un male non «banale» ma totale per quanto del tutto privo di una prospettiva metafisica: una esplorazione della natura più tragica e profonda dell’animale uomo che abbandonate le vesti stracce della morale si abbandona all’istinto di sopravvivenza.
Se dunque per Tuymans l’arte non illustra la realtà ma la problematizza, restituendola allo spettatore come una forma interrogativa, alla fine del percorso gira sotto la lingua una domanda amara: e se la patina diafana del secondo Tuymans nascondesse in realtà il tradimento di se stesso? Se nello squamarsi dei passaggi di stato anche l’autenticità del pittore fosse finita lost in translation?
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A Punta della Dogana prosegue la tradizione di mostre collettive che riorganizzano sotto particolari punti di vista le opere della collezione Pinault. Luogo e segni, a cura di Mouna Mekouar e Martin Bethenod, sceglie una cifra (letteralmente) poetica, scegliendo come guida i versi e i temi della poetessa libanese Etel Adnan (Beirut, 1925). E nel catalogo (Marsilio, come anche per Tuymans: entrambi volumi magnificamente curati) alle opere degli artisti sono accostate liriche di autori diversi.
Come nelle mostre precedenti il percorso è rarefatto e non di rado arduo ma quest’anno c’è una bella corrispondenza tra idea e allestimento, che valorizza la dimensione sorprendentemente intima di uno spazio come quello creato da Tadao Ando. Uno dei temi chiave della mostra – insieme all’amicizia e alla memoria– è infatti il rapporto con gli ambienti e quello tra questi e la laguna. Luogo e segni prende il titolo da un’opera di Carol Rama, un metaforico autoritratto. Senza l’incontro con lo spazio e la sua interpretazione l’artista perde la sua libertà. Un continuo gioco di rispecchiamento e trasformazione, che si adegua al mutare della luce e dell’ora. In questo senso è forse la mostra più “veneziana” tra quelle allestite a Punta della Dogana.
Venezia, Palazzo Grassi
Luc TuymansLa PelleFino al 15 dicembre

Venezia, Punta della DoganaLuogo e segniFino al 15 dicembre

Turisti. Venezia, in arrivo quattro «bollini colorati» per la tassa d'ingresso

Turisti a Venezia (Ansa)
Turisti a Venezia (Ansa)
La città verso l’autoprotezione. Dalle acque alte e dall’assalto dei turisti. Alle 5 di ieri mattina è stata posata l’ultima delle 78 paratoie del Mose, le dighe mobili che chiuderanno la laguna quando l’alta marea supererà i 110 cm. Intanto filtrano le prime ipotesi sull’applicazione della nuova tassa di sbarco, probabilmente con l’arrivo deibollini, da verde (giornate di afflusso turistico scarso), a nero, quando la città è presa d’assalto. E con la diretta conseguenza che le tariffe triplicherebbero progressivamente da 3 euro fino a 10. Ne resteranno esclusi i residenti. Conferma, infatti, il sindaco Luigi Brugnaro: «Saranno esentati i cittadini veneziani, chi lavora, chi ha diritto e chi paga la tassa di soggiorno nel comune di Venezia».
Le misure saranno definite in giunta municipale il 5 febbraio, per entrare in vigore in primavera. I bollini sarebbero quattro, a seconda dei periodi dell’anno e dell’afflusso di visitatori: bianco, tariffa da 6 euro, rosso, da 8 euro, e nero, con il ticket massimo di 10 euro. Infine il bollino verde, con la tariffa minore, 3 euro, per i vacanzieri giornalieri che giungono a Venezia nei periodi di calma turistica. Nelle giornate di maggiore pressing - una decina l’anno scorso, a fine carnevale e nel pieno dell’estate - entrare a Venezia costerebbe un supplemento di 10 euro.
E, notizia di questi giorni, c’è chi nelle valli dolomitiche, copiando Venezia, immagina la 'vignetta' per accedere ai passi nei periodi di maggiore afflusso in auto e in moto. La primavera e l’estate serviranno, in laguna, per una sperimentazione, a carico soprattutto di chi arriva in nave o in treno, ma si pensa di coinvolgere in qualche modo anche gli automobilisti, trasformando il ponte translagunare tra Mestre e Venezia in una sorta di Ztl, assoggettato , dunque, ad un pass.
Tempi meno rapidi, invece, per la protezione dalle acque. A 16 anni dalla prima pietra viene depositata in mare l’ultima delle 78 paratie del Mose, il sistema di difesa che è stato al centro di una pesante inchiesta giudiziaria per le tangenti. Non siamo alla vigilia della funzionalità del 'Modulo sperimentale elettromeccanico'. Ci vorranno tre anni per sperimentare il funzionamento della grande opera; la consegna, infatti, è fissata al 31 dicembre 2021. Il costo stimato inizialmente era di 1,6 miliardi di euro, la cifra oggi è intorno ai 5 miliardi e mezzo. I primi test riguarderanno il sollevamento delle dighe; alcune sono state fissate in mare ancora 5 anni fa e gli ingranaggi, non utilizzati, potrebbero evidenziare qualche problema (non solo di ruggine).
Ecco perché si comincerà dalla barriera di Treporti, l’unica ad avere gli impianti funzionanti. Gli esperti delle università di Padova si preoccuperanno del fenomeno che impensierisce di più, quello della risonanza. In particolari condizioni meteo e marine, le paratoie potrebbero oscillare e, quindi, far entrare troppa acqua, rendendo così inefficace il sistema di difesa. C’è poi da perfezionare il sistema della gestione, che non è stato ancora puntualmente definito. Soprattutto per quanto riguarda la spesa che si prevede… milionaria.

Al Met i codici di S.Lazzaro a Venezia Armenia!, storia di accoglienza in laguna in nome della cultura

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NEW YORK - Un ponte tra Venezia e New York e una straordinaria storia di accoglienza nella Serenissima di tre secoli fa che approda al Met. Per la mostra Armenia!, che ha aperto questo fine settimana i battenti nel museo su Fifth Avenue, dal monastero di San Lazzaro sono arrivati a Manhattan otto preziosi codici, sei dei quali mai stati esposti in America prima d'ora.
    Organizzata da Helen Evans, responsabile del dipartimento di arte bizantina del museo, Armenia! raccoglie 140 oggetti tra reliquiari, tessuti, manoscritti, gioielli, modellini di chiese, le elaborate croci note come khachkars e la eccezionale Mappa Marsili delle chiese armene prestata dalla biblioteca universitaria di Bologna. "Davanti a questi tesori comprendiamo meglio il ruolo centrale che l'arte ha avuto nel definire e collegare le comunità armene nel mondo", ha detto il direttore del Met Max Hollein.
   
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Galleria Accademia 3 opere Giorgione

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VENEZIA - Tre dipinti di Giorgione, un tempo appartenenti alla collezione del patrizio veneziano Gabriele Vendramin (1484-1552), riuniti in un'unica sala alle Gallerie dell'Accademia, a Venezia. Per un mese, i visitatori potranno vedere assieme la famosa "Tempesta" e la "Vecchia", già presenti alle Gallerie, e il dipinto "Concerto o Davide Cantore", opera data in comodato quinquennale, proveniente da un collezionista privato.