Ancona sorpresa glamour, la verde Portonovo e i 'ciavattoni'

Arrivare dal mare ha i suoi vantaggi: lo sguardo abbraccia dal Monte Conero alla Mole del Lazzaretto, la dominanza del Duomo di San Ciriaco, le bianche colonne vanvitelliane pensate per essere viste dai naviganti. Ma anche raggiungere Ancona via terra, attraversando chilometri di dolci colline marchigiane punteggiate dai filari di Verdicchio o Rosso Conero, che diventano sterminati campi di lavanda avvicinandosi al mare, predispone bene. ''Ho girato tutto il mondo ma non sono mai stato ad Ancona prima d'ora'' diceva un noto chef stellato sorseggiando un bicchiere di Verdicchio durante l'ultima edizione di ‘Tipicità in blu’. Ecco l'occasione per colmare la lacuna e godersi due giorni all'insegna del glamour nel capoluogo delle Marche, città affaccendata e pratica, dedita al commercio e agli scambi, abitata da gente spiccia, curiosa ma affatto incline all'incantamento.
Città protesa verso il mare quasi come volesse sottrarsi a un entroterra incombente. Sito antichissimo, fondato dai siracusani di stirpe Dorica nel 387 a.C., dopo l'iniziale ritrosia capace di schiudersi offrendo sorprendenti risorse. 
 
Arrivare dal mare dicevamo, niente di più probabile. Marina Dorica è l'elegante porto turistico anconetano, l'oasi-rifugio più grande e capiente lungo la rotta dell'Adriatico, quarto porto turistico nazionale. Fondale profondo, quasi 2000 posti barca di cui una notevole quota di barche a vela, caratteristica che inorgoglisce il presidente Moreno Clementi.
Panorama suggestivo dalla 'prua' foderata di teak dell'edificio a forma di nave che ospita Marina Dorica, il dilemma sarà la scelta tra uno dei sette tra ristoranti e pizzerie del porticciolo, che al tramonto si riempie di frotte di giovani anconetani, fedeli all'aperitivo all'ombra dell'ultimo sole.
A meno che non si decida di godersi il tramonto nella verdissima baia di Portonovo (poco più di 12 km lungo la strada provinciale del Conero), calice in mano e piedi lambiti dalle onde sulla spiaggia di bianchi sassi. Nessuno dei tanti ristoranti della baia mancherà di offrirvi i 'moscioli selvatici', presidio gastronomico della zona. Più saporito della comune cozza, il mosciolo anconetano non si alleva, si riproduce spontaneamente sullo scoglio del Trave dove si pesca con le mani. Non perdetevelo, da Marcello, sposato con gli spaghetti, oppure alla marinara, appena pescato.
Anche Giacomo Casanova soggiornò ad Ancona, segregato in quarantena nel Lazzaretto che allora era collocato sotto l'imponente Duomo a croce greca, dove sorgeva il tempio di Venere Euplea protettrice dei naviganti. Dall'altro lato della collina, divisa in due dal parco del Cardeto, era il tempio di Castore e Polluce. La cattedrale che domina il grande porto, custodisce un'altra curiosità: un dipinto della Madonna di san Ciriaco, donata quale ex voto da un navigante veneziano, che intimorì perfino Napoleone. Finito tra gli oggetti di razzia dell'Imperatore di passaggio ad Ancona, il dipinto - dice la leggenda - mosse gli occhi e spaventò a tal punto Napoleone che questi ordinò subito di restituire l'effigie agli anconetani, che ne sono devotissimi.
Passeggiata nel centro storico, lungo via Pizzecolli fino a piazza del Papa (ritrovo della movida del sabato sera) carica di richiamo storici e archeologici, molti reperti custoditi nel Museo archeologico delle Marche. Dalla cultura alla tavola, imperdibile l'appuntamento con lo stoccafisso, piatto tipico della cucina anconetana. Ottimo quello della Trattoria storica Carotti, nella popolare zona del Piano sulla strada per Posatora. Con i ciavattoni (tipo di pasta) o in teglia con le patate, si chiude comunque con il 'turchetto', rum anice e caffè, bevanda preferita dai pescatori prima di uscire in mare.
Ancona da sempre storica porta d'Oriente, oggi più vero che mai. Da poche settimane un idrovolante permette di raggiungere Spalato in soli 55 minuti, a tariffe più che accessibili. Il nuovo servizio è stato inaugurato in concomitanza con 'Tipicità in blu', appuntamento di maggio voluto dal Comune per promuovere il profilo turistico di 'Ankon'. Una novità, salutata da grande successo, anche le minicrociere in partenza dal molo del Mandracchio verso il Conero, assaporando on board un vino marchigiano, le pietanze della tradizione marinara, godendosi il water front di Ancona. 
ansa

In cammino sull'Appia antica

"Un monumento unico da salvare religiosamente intatto, per la sua storia e per le sue leggende, per le sue rovine e per i suoi alberi, per la campagna e per il paesaggio, per la vista, la solitudine, il silenzio, per la sua luce, le sue albe e i suoi tramonti". Le parole di Antonio Cederna rivivono nella passione che ha portato Paolo Rumiz, Riccardo Carnovalini, Alessandro Scillitani e Irene Zambon a vivere, passo dopo passo, l'antica via Appia, dimenticata in secoli di dilapidazione e incuria. Dall'avventura durata 29 giorni e 611 chilometri di cammino nell'estate 2015, a 2327 anni dall'inizio della costruzione della Regina Viarum, nasce il libro e l'omonima mostra "L'Appia ritrovata. In cammino da Roma a Brindisi", allestita all'Auditorium Parco della Musica di Roma fino al 18 settembre.
Fotografie di Riccardo Carnovalini, integrate da un reportage di Antonio Politano e da istantanee estratte dai filmati "on the road" di Alessandro Scillitani, materiale cartografico e documentario con autorevoli testimonianze in un percorso espositivo che vuole riscoprire e restituire la prima grande via europea, tracciandone il percorso integrale e gettando luce sulla bellezza e sugli scempi che coesistono lungo il percorso.
    L'esposizione si dispiega in corrispondenza delle tappe di Rumiz e i suoi compagni, soffermandosi sugli scenari che si aprono durante il cammino, come il "riuso" di lasciti antichi, gli animali, gli ostacoli, i paesaggi di campagna e le città attraversate dalla via Appia, come Terracina, Benevento, Taranto, Brindisi. E poi l'acqua, la sete, e i frutti della terra perché, come scriveva Calvino, il viaggio passa anche tra le labbra e l'esofago.
    Le immagini accompagnano tra le fortezze preromane sugli strapiombi, lungo sentieri boscosi e alla scoperta di fioriture a picco sul mare, guidano nella Campania Felix, sui monti del Lupo e del Picchio e gli altri della costellazione sannitica, nell'Italia dimenticata degli Osci, degli Enotri e degli Japigi fino all'Apulia. Alcuni incontri hanno caratterizzato l'itinerario dei quattro camminatori, come Giulio e Giuseppe Cederna e il musicista e cantautore Vinicio Capossela.
    "Percorrere l'Appia significa ritrovare i valori del Mezzogiorno, l'opportunità di indirizzare un turismo di qualità a riconoscere i valori territoriali, ambientali, culturali italiani", ha detto Franco Salvatori, presidente emerito della Società Geografica Italiana, che ha realizzato la mostra insieme con la Fondazione Musica per Roma, nell'ambito del Festival della Letteratura di Viaggio. "Ci siamo tuffati nel mare di Brindisi, a lungo desiderato, e pensavamo che la fatica fosse finita - ha raccontato Paolo Rumiz - ma ci siamo inflitti dei tormenti successivi, perché sapevamo che la strada che avevamo percorso non era finita con il nostro passaggio: volevamo essere sicuri che il sentiero che avevamo aperto sarebbe stato percorso da altri".
Un nuovo viaggio è, infatti, iniziato alla fine del cammino, "con il ritorno sui luoghi, con il tentativo di soluzione dei nodi più difficili, con la scrittura di un libro" e con il progetto, finanziato dal ministero dei Beni Culturali e Turismo, di messa a sistema del Cammino dell'antica via Appia che, assicura il ministro Dario Franceschini, sarà pronto "entro la fine di ottobre". I quattro camminatori sulla madre di tutte le vie hanno srotolato una pergamena svelando una meraviglia dimenticata e hanno teso il filo d'Arianna a nuovi appassionati viaggiatori.
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Gaudì, 90 anni fa la morte dell'architetto di Dio. Autore dei capolavori di Barcellona, da Sagrada Familia a Casa Milà

Novant'anni fa moriva Antoni Gaudì, l'architetto spagnolo tra i massimi esponenti del Modernismo catalano, ideatore a Barcellona di capolavori quali Parco Guell, Casa Batllò, Casa Milà, inseriti (con altri quattro) nella lista dei patrimoni dell'umanità dell'Unesco. Il 7 giugno del 1926, Gaudì fu investito da un tram (il primo messo in circolazione nella città), ma per il suo aspetto dimesso venne scambiato per un povero vagabondo e trasportato all'ospedale della Santa Croce, ospizio per mendicanti. Riconosciuto soltanto il giorno successivo, morì il 10 giugno.
Nonostante questa fine quasi miserabile, Barcellona onorò l'artista che l'aveva arricchita con edifici di straordinaria, innovativa bellezza disponendone la sepoltura nella cripta della Sagrada Familia, forse la sua opera più significativa e famosa (ancora oggi in continuo divenire), dopo un funerale cui parteciparono migliaia di cittadini, per i quali il grande artista era ormai diventato 'l'architetto di Dio'. Del resto, negli ultimi dieci anni di vita si era completamente dedicato alla realizzazione di quel tempio espiatorio, che riassumeva le principali tematiche della sua originalissima visione, capace di armonizzare arte, architettura e vita. Antoni Gaudí y Cornet era nato a Reus, nella Catalogna meridionale, il 25 giugno 1852.
Nel 1869 per i suoi studi si trasferiva a Barcellona, città all'epoca in tumultuoso cambiamento e dove stavano maturando i fermenti culturali del Modernismo catalano e della 'Renaixcensa', movimento finalizzato al recupero della lingua e della cultura catalana. Gaudí, che condivideva tali aspirazioni autonomistiche, contribuì attivamente a quel vento di rinnovamento che caratterizzò Barcellona nei decenni a cavallo tra '800 e '900. Diplomatosi nel 1878 alla Scuola Superiore di Architettura, Gaudì durante gli studi era riuscito a lavorare con i migliori architetti del tempo, approfondendo anche la tecnica dei nuovi materiali da costruzione come il cemento. Appena laureato si recò quindi a Parigi per l'Esposizione Universale, dove incontrò l'industriale catalano Eusebi Guell, destinato a diventare il suo principale mecenate, futuro committente delle opere più importanti e celebrate.
Intanto, nel 1883, a soli 31 anni, diventava architetto capo della Sagrada Familia, il tempio espiatorio della città di cui iniziava a realizzare la cripta (1884-1887) e poi l'abside (1891-1893). Si trattava di una costruzione monumentale e complessa, nella quale riversò tutto il suo genio, nonostante l'impegno in contemporanea per altri progetti, come la Casa Vicens, in cui rifiutava il rigore geometrico della tradizione per reinterpretare lo stile mudejar accostando mattone e azulejo. La sua vera rivoluzione cominciava però con Palazzo Guell, commissionatogli dal suo mecenate, in cui sperimentava per la prima volta gli archi di catenaria, poi elemento costante del suo linguaggio architettonico. A seguire, ecco Casa Calvet, un edificio in pietra che sancì il successo professionale di Gaudí nella sua Barcellona e dove dal 1900 nascono via via i più acclamati capolavori: dal Parco Guell a Casa Batllo. Quest'ultima appare come plasmata da mani gigantesche, con la facciata rivestita da un mosaico di pietre vitree colorate, mentre i balconi in ghisa ricordano delle ossa e lo strano tetto ondeggiante rimanda alle squame di un rettile primitivo.
La Casa Milà (1906-'12), dalla movimentata e plastica facciata in pietra, fu invece l'ultima opera civile dell'architetto, dal 1914 completamente preso dai lavori della Sagrada Familia. Come a Barcellona, sull'onda delle repressioni della 'settimana tragica' (1909), si era spenta la stagione di grande fioritura culturale e urbanistica, così anche la vita di Gaudì era diventata sempre più asociale e solitaria, tanto da vivere in una stanzetta nel cantiere della chiesa. Lì continuava a progettare quelle forme straordinarie, imprevedibili e oniriche, realizzate utilizzando i più diversi materiali (mattone, pietra, ceramica, vetro, ferro), da cui traeva le massime potenzialità espressive. Seguendo, tra religiosità e misticismo, l'assioma per cui l'architettura crea un organismo, il quale, come tale, deve sottostare alle leggi della natura.
ansa

Il "mare" più bello d'Italia è ai piedi delle Dolomiti

PERCHE’ SE NE PARLA Il mare tra i monti continua a stregare gli italiani: parliamo di Molveno, tra le Dolomiti del Brenta, patrimonio dell'umanità UNESCO, con il suo bellissimo lago. Un vero e proprio paradiso naturalistico che ha spinto gli utenti del portale turistico PaesiOnLine a conferire al piccolo comune in provincia di Trento il riconoscimento di località Top Rated nella categoria "Montagna". Il premio è conferito "direttamente" dagli utenti di PaesiOnLine ed è assegnato sulla base dei post e delle recensioni che questi lasciano ogni giorno sul sito. A premiare Molveno è stato probabilmente l'esclusivo binomio tra attività di lago e di montagna, ma anche l'offerta di servizi offerti nel pieno rispetto dell'ambiente.
 
PERCHE’ ANDARCI Molveno, con il suo lago e il suo lido, rappresenta un felice punto d’incontro per tutti coloro che sono attratti dalla montagna, ma non vogliono rinunciare al mare. Dieci ettari di verdi prati, che si distendono sulle rive di un grande lago azzurro incastonato fra le Dolomiti di Brenta: tanto spazio per camminare, giocare, stendersi al sole, leggere e fare sport.
 
DA NON PERDERE Per il sesto anno consecutivo il lago di Molveno è stato premiato con le cinque vele di Legambiente, il massimo riconoscimento per la qualità ambientale, la tutela e l’impegno per la conservazione degli specchi d’acqua in Italia. Per gli amanti dello sport sono presenti campi da tennis, piscina olimpionica, bocce, minigolf, pattinaggio a rotelle, calcio, pallavolo, vela, surf, barche, canoe, pesca, parapendio, percorsi ricchi di fascino con il “Dolomiti di Brenta Bike e Trek.
 
PERCHE’ NON ANDARCI Tanti gli spazi anche per i piccoli, che rendono questa meta luogo perfetto per far contenta tutta la famiglia. Qualche turista, però, si è lamentato della gastronomia locale e ha osservato quanto non fosse semplice girare con bambini in braccio, Ma sono dettagli...  
 
COSA NON COMPRARE L'artigianato locale trentino comprende la lavorazione di legno, pietra, tessuti e ricami. Ci sono, ad esempio, i presepi intagliati dagli artigiani della val Gardena ma anche giocattoli e oggetti per l'arredamento. C'è ancora oggi la tradizione del Loden, la cosiddetta "lana cotta", o la lavorazione realizzata con il rachide di penna di pavone. Sono in vendita anche gli strofinacci con le foto da cartolina di Trento: brividi.
turismo.it

Cortina conquista i Mondiali di sci alpino: «Qui nel 2021»

CORTINA - La Regina delle Dolomiti ha vinto: Cortina organizzerà i Mondiali di sci alpino del 2021. La candidatura di Cortina ai Campionati del mondo 2021 ha avuto subito il pieno appoggio della politica e dei vertici sportivi italiani.Questa è stata la quinta candidatura per la cittadina bellunese e il traguardo è arrivato dopo quattro amare sconfitte. Quest'anno, in Messico, per il governo è stato proposto un intervento filmato di Matteo Renzi: «È davvero un grandissimo onore per il Governo italiano sostenere la candidatura di Cortina con passione, entusiasmo, energia e determinazione. Il Governo italiano è molto impegnato perché da qui al 2021 tutti gli aspetti dell'organizzazione, infrastrutture, procedure, gestione di questo evento siano affrontati nel modo più forte ed efficace. Ci crediamo, ci siamo, siamo convinti che l'esperienza dei mondiali 2021 a Cortina possa essere unica». Fondamentale l'appoggio del Comitato olimpico, con il presidente Giovanni Malagò.

ZAIA: «UNA SFIDA»
«Dopo 60 anni dai Giochi Olimpici Invernali del 1956 e del mitico Toni Sailer, la Perla delle Dolomiti torna meritatamente alla più grande ribalta mondiale dello sci alpino. Sarà una grande festa dello sport, ma anche una grande sfida organizzativa, infrastrutturale, mediatica, che Cortina, il Veneto, i Veneti, sapranno vincere e che avrà ricadute positive per anni e anni, anche per l’intera montagna veneta. In questo cammino la Regione del Veneto c’è stata, c’è e ci sarà, con tutte le azioni possibili». Con queste parole il Presidente della Regione del Veneto commenta l’assegnazione, decisa nella notte italiana a Cancun, in Messico, dal 50° Congresso della Federazione Internazionale Sci, dei campionati mondiali di sci 2021 a Cortina d’Ampezzo. «Dai mondiali 1932 nel nome di Paula Wiesinger – ricorda il Presidente del Veneto - attraverso la beffa delle Olimpiadi del 1944 ottenute nel 1939 e cedute da Mussolini al Giappone per ben poco nobili motivi, ai mondiali del 1941 nel nome di Celina Seghi, alle Olimpiadi del 1956, era passato troppo tempo, ingiustamente, come nel caso dell’ultima candidatura svanita all’ultimo istante a Barcellona. Oggi ci prendiamo una bella rivincita, come si usa nello sport dopo una sconfitta: riprendendo a giocare con più voglia e determinazione di prima. Senza questo spirito Cortina 2021 non avrebbe mai potuto esistere. E invece è realtà»
Il Gazzettino

Arte / Sistina, se l’immagine diventa mito

Ormai è un riflesso automatico. Quasi pavloviano. Dici Michelangelo è la prima cosa che ti viene in mente è la Sistina. E, a dire il vero, una scena in particolare. LaCreazione di Adamo, naturalmente. La conoscono tutti, anche chi non c’è mai stato E nemmeno sa dove si trovi e chi ne sia l’autore. Sono due le storie della Cappella Sistina michelangiolesca. La prima è quella in senso stretto degli affreschi, dal Fiat lux alGiudizio universale. E poi c’è quella della sua “immagine”, che è persino più vasta perché ha acquisito una vita autonoma. A questa oggi i Musei Vaticani dedicano la giornata di studio “Tradurre Michelangelo della Sistina. Dall’immagine fissa all’immagine in movimento”. Un viaggio, dalle prime campagne fotografiche passando per i film fino all’universo dei social network, che chiude, nelle parole del direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci, il «trittico sistino », tre grandi iniziative di studio in altrettanti anni sulla cappella del papa.
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«La fortuna iconica di Michelangelo è uno dei fenomeni più affascinanti della modernità» dice Paola Di Giammaria, responsabile della Fototeca dei Vaticani, curatrice del convegno con Tommaso Casini, docente alla Iulm, e Nino Criscenti, giornalista e autore televisivo. «È un mito che ha origine con le incisioni nel ’500 per poi esplodere con la fortuna della fotografia. A partire dalla prima campagna del 1870, la riproduzione delle immagini ha generato processi affascinanti che hanno reso gli affreschi degli oggetti iconici autonomi ». Non c’è tecnica che non sia passata dalla Sistina: «Anche le più insolite: possediamo ad esempio alcune rare fotografie su tela, realizzate alla fine dell’Ottocento». Eppure all’inizio non fu facile: «All’inizio le foto venivano guardate con sospetto nel campo della riproduzione delle opere d’arte. E poi in Sistina si entrava con timore. I documenti attestano la richiesta ad esempio che i procedimenti fotografici non richiedessero lavorazioni chimiche in sito, per garantire la conservazione degli affreschi».
Con il tempo cambia anche l’occhio dei fotografi: «Ai primi del Novecento i più esperti ricercano un’autonomia rappresentativa, manifestando vere e proprie ricerche autoriali». La prima grande indagine fotografica sul Michelangelo sistino la firma il romano Domenico Anderson, che “commenta” la monografia di Ernst Steinmann, pubblicata nel 1912. Dell’“immagine fotografica della Sistina nell’editoria scientifica e divulgativa nel Novecento” si occupa Maria Francesca Bonetti, responsabile delle collezioni fotografiche dell’Istituto centrale per la grafica: «A fronte di una quantità di pubblicazioni quasi illimitata, il repertorio iconografico da cui si attinge è molto ridotto, e tutto di carattere professionale. Quello che cambia è soprattutto la forma editoriale: la ricchezza dei volumi, i formati, il numero di immagini». Nella storia, però, non si sono sempre fotografati gli stessi soggetti: «Si assiste a una sorta di filiazione.
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Ci sono immagini che una volta introdotte non escono più. Se uno studioso indaga con successo un soggetto particolare, ecco che diventa canonico». Al- tre volte però il rapporto è inverso: «Credo che in diversi casi la focalizazione di certi particolari si debba ai fotografi. Quelli, non a caso, divenuti le icone essenziali della Sistina. Il fotografo è stato sicuramente un valore aggiunto per l’analisi da parte degli storici dell’arte, i quali spesso si basano su foto per i loro studi. Un fatto che ha generato equivoci, perché le fotografie vengono ingenuamente considerate come riproduzioni oggettive, ma portano con sé equivoci, anche di tipo tecnico». Vale anche per gli osservatori comuni: «Tutta la pubblicistica ci mostra la Sistina in modo diverso rispetto alla realtà: per tagli, porzioni, inclinazione, vedute prospettiche».
È l’immagine in movimento quella che riesce meglio a suggerire lo spazio reale. Ma allo stesso tempo può tradire più di altre. È il caso, ad esempio, analizzato da Patrizia Cacciani, responsabile dell’Ufficio studi dell’Archivio storico del Luce: «Durante il Ventennio l’Istituto Luce ha prodotto un solo film su Michelangelo. Riguarda la sua vita e dedica qualche minuto alla Sistina. L’Unione Cinematografica Educativa nasce nel 1924 e all’inizio ha un atteggiamento di divulgazione popolare e di massa, sulla scia del primo socialismo. Ma quando il documentario viene realizzato, tra il 1932 e il 1937, questi tempi sono ormai finiti. Il film è dunque di pura propaganda fascista: Miche- langelo diventa la figura del grande italiano e sul genio si applica un transfert mussoliniano. La Sistina è piegata all’ideologia e in sottotesto il dito del Dio creatore è accostato a quello dell’uomo che decide i destini». Nel 1964 Carlo Ludovico Ragghianti sul Michelangelo sistino girò un suo “critofilm”, usando la macchina da presa come uno strumento d’indagine. Lo si può trovare su YouTube, ma bisogna cercarlo con le parole chiave giuste, perché è annegato in un mare di bana-lità: «È praticamente impossibile quantificare i video sulla Sistina. Ma la maggior parte sono una delusione» dice Tanja Michalsky,direttrice della Biblioteca Hertziana.
«È una collezione di filmini semidocumentaristici, preparati senza una coscienza del mezzo filmico, per cui spesso sono una semplice sequenza di diapositive. In molti poi propongono interpretazioni che si dichiarano innovative e rivelatrici, ma non fanno altro che rimestare luoghi comuni vecchi di trent’anni». Tutto questo fa sì che trovare in Rete filmati di qualità senza sapere che già esistono è quasi impossibile: «Questa dispersione impedisce la divulgazione del sapere. E non si vede nemmeno Michelangelo: i video spesso mostrano questi sedicenti esperti parlare dietro una scrivania. Sono loro i veri protagonisti». Ma l’esserci è l’imperativo dell’era dei social network.
E la Sistina è uno dei luoghi in cui un selfie non può mancare: «L’enorme produzione in digitale in gran parte si riversa sui social», dice Giovanni Fiorentino, docente di Teoria e tecnica dei media all’Università della Tuscia: «È sufficienti digitare su Instagram #cappellasistina o #sistinechapel per trovare decine e decine di migliaia di immagini. Queste, poi, in Rete hanno nuova vita: circolano, sono condivise e manipolate. È una rigenerazione della Sistina ». È un processo di risemantizzazione: «Si lavora sul canone della replicazione, ma anche sulla possibilità di giocare con forme di ricombinazione dell’immaginario collettivo consolidato che riscrivono in maniera creativa il passato. È un processo che investe l’immagine stessa oppure l’iconografia, che viene riprodotta ricontestualizzata o ricostruita in chiave parodistica». Tutti indizi della vitalità, 500 anni dopo, dell’opera di Michelangelo.
Avvenire

Street art fest dal 9 al 12 giugno

Street art fest è una maratona di quattro giorni che celebra le diverse espressioni della cultura urbana, in un unico grande evento dal 9 al 12 giugno 2016 all’Assago Summer Arena. 
Vi partecipano alcuni street artist internazionali: Chazme (Polonia), Etnik (Italia), Sepe (Polonia), Nevercrew (Svizzera), Pixel Pancho (Italia), Roa (Belgio), Vhils (Portogallo), Zedz (Olanda). 
Protagonista la street art, con artisti di fama internazionale coinvolti con la collaborazione della galleria Square 23 di Torino, straordinarie opere realizzate site-specific, installazioni, performance ed eventi tematici, ma ampio spazio avranno anche altri linguaggi della cultura di strada, quali i graffiti e l’hip hop, con una serie di attività collaterali - in collaborazione con Stradedarts - che offriranno la possibilità di vedere dal vivo dimostrazioni di breakdance, performance di specialisti di parkour, esibizioni di skate e bmx e di dipingere con le bombolette su spazi murali liberi nell’area Graffiti Writing.

Inoltre, l’area ospiterà l’esposizione Post Graffiti and Street Art Expo, la mostra del fotografo Cosimo Griso Alfarano, il workshop di calligrafia e i laboratori di serigrafia, le proiezioni di film, documentari, e interviste legate al mondo della street art, la libreria Verso, con libri pertinenti, e i punti vendita di prodotti a tema come l’Urban Market, il mercatino vintage per collezionisti e curiosi. 

Tutte le opere realizzate dagli street artist resteranno all'Assago Summer Arena fino alla fine di luglio, come interventi di arredo urbano che valorizzeranno lo scenario della manifestazione musicale Street music art 2016, di cui lo Street art fest costituisce l’evento inaugurale. 
Avvenire

Kazakistan balla la tarantella


Quando arriviamo ad Aktau, città che si affaccia sul Mar Caspio tristemente nota per essere stata durante, il periodo della Guerra Fredda, un’area dove i geologi sovietici avevano realizzato un grande giacimento d’uranio finalizzato alla produzione di armi atomiche, è notte piena. Poche ore di riposo e la luce già inonda la stanza dell’albergo. La mattina abbiamo l’incontro con i musicisti dell’Akhzarma, l’orchestra popolare della regione del Mangystau. È con loro che dividiamo il concerto dell’indomani. Vogliamo suonare insieme la nostra e la loro musica, “mescolare” tarantelle a melodie e ritmi di danza asiatici. 

Su nostra richiesta Livio Manzardo, un tecnico veneto che è tra gli organizzatori del concerto, al termine delle prove ci accompagna a vedere una funzione nella chiesa cattolica di Aktau. La chiesa è nell’appartamento del sacerdote situato al secondo piano di una casa tipica di un quartiere popolare. Bussiamo al campanello e ci accolgono una ventina di persone che si stanno preparando per celebrare la messa. La cappella è piccola ma la gioia dei canti in russo, l’ambiente così semplice ma intenso, la forza di una liturgia così intimamente partecipata ci riportano la mente fuori dal tempo quasi fossimo negli anni delle origini del Cristianesimo. Al termine si crea con tutti i presenti un momento di simpatia e conversazione, in particolare con padre Alessandro il quale ci racconta che a breve costruirà una chiesa grande. Sono anni che aspetta i permessi. Ci dice che la popolazione del Kazakistan è prevalentemente musulmana, molti sono i cristiani ortodossi di origine russa o di altri paesi slavi. I cattolici, invece, sono pochi. 

Al mattino dopo ci investe un forte vento portando con sé dal mare odori nauseanti. Tutta l’aria intorno ne è inondata. Ci infiliamo nella grande sala del concerto dove abbiamo una nuova sorpresa. I componenti dell’orchestra sono aumentati. Si sono aggiunti cantanti, ballerini e tutti vestono luminosi e sgargianti abiti tradizionali kazaki. Hanno l’immagine antica del popolo nomade. Spicca nell’orchestra il tipico tamburo sciamanico suonato dal loro direttore. Il concerto è accolto con entusiasmo travolgente dal pubblico che al termine ci riempie di applausi. Non riusciamo a uscire dal teatro perché tutti vogliono farsi fotografare con noi. Molti giovani ci chiedono notizie sui nostri strumenti e sull’Italia. 

L’ambasciatore italiano, che è venuto ad accoglierci, è molto contento del nostro tour che prosegue il giorno dopo ad Astana, la capitale. La mattina, ancora frastornati dal viaggio, la nostra guida ci porta all’Università delle Arti dove abbiamo una prova con un gruppo di giovani coristi con cui condivideremo una parte del concerto. Sentirli cantare le nostre tammurriate con quelle voci così timbrate ci colpisce. Alla sera il concerto nella sala della Filarmonica è accolto con grande affetto da un pubblico numeroso composto prevalentemente da giovani studenti universitari. 

Di Astana riusciamo a vedere poco ma a prima vista ci risulta una città strana, senza vita, con quei grattacieli svettanti e irregolari circondati dalla steppa. Alla vecchia città di tipo sovietico il presidente Nazarbaev, che comanda ininterrottamente il Paese sin dalla sua costituzione autonoma, ne ha affiancato una nuova dove non c’è un “centro” ma un asse sul quale sono dislocati i simboli di un popolo che è passato in poco più di quarant’anni dalla yurta (la tenda dei nomadi della steppa) a un’altra civiltà che unisce segni del potere sovietico a simboli della società consumistica post-moderna. 

La tappa successiva è Karaganda, un po’ più a sud, che raggiungiamo in treno. La regione, tristemente nota per i gulag e le deportazioni durante la seconda guerra mondiale, è stata la culla di un cattolicesimo che fu costretto al silenzio. Al nostro arrivo ci accoglie con gioia Adelio Dell’Oro, attuale vescovo di Karaganda, con tutta la comunità dei religiosi, provenienti da varie parti della diocesi. È la prima volta che nella nuova cattedrale si tiene un concerto di musica sacra popolare italiana. L’evento, sostenuto da Antonio Mastrolia, “glorioso” capo scout nella Gaeta degli anni Sessanta e attualmente armatore e amministratore della Caspian Ocean, rappresenta per la comunità locale e nazionale un evento di grande rilievo. 

Il vescovo ha preparato un libretto di sala con tutti i testi dei canti e con la traduzione in russo. Con lui abbiamo avuto modo di fare un po’ di conversazione al pranzo offerto dalla comunità parrocchiale. Cibo semplice, la pasta, che gradiamo moltissimo, dopo tante pietanze locali speziate e a base di carne di cavallo. Mentre sorseggiamo il caffè ascoltiamo storie di testimonianze di fede profonda legate al periodo stalinista, quando tutto il Kazakistan era una specie di sconfinato “arcipelago gulag” e Karaganda uno dei centri. Fra i deportati vi erano migliaia di cattolici di nazionalità polacca, ucraina, tedesca, lituani e bielorussi. Molti sacerdoti deportati favorirono il sorgere di una Chiesa clandestina: fra questi padre Alexius Saritski, beatificato da papa Giovanni Paolo II nel 2001. 

Nel 1941 sul luogo dove furono deportati e abbandonati nel gelo dell’inverno, che in questa regione ha temperature che raggiungono anche 40 gradi sotto zero, i tedeschi della zona del Volga si scavarono delle buche sotto terra dove hanno vissuto a lungo fino a quando non sono stati in grado di costruirsi delle casupole. In chiesa, non appena entrati, siamo accolti da un applauso fragoroso. La gente è stipata in ogni angolo della bella cattedrale. Il pubblico è molto eterogeneo. Ci sono tante facce che rappresentano le diverse etnie che caratterizzano la popolazione di questa regione. 

Cantiamo i nostri antichi canti popolari sacri in un clima di profonda attenzione e partecipazione. Sono anni che giriamo con l’Orchestra Popolare Italiana in tante parti del mondo ma mai abbiamo avuto questo tipo di emozione. Il nostro messaggio di incontro è arrivato al cuore del pubblico che al termine dell’esibizione ci manifesta grandi segni di ringraziamento. L’indomani mattina all’alba partiamo per Almaty, l’antica capitale dello Stato durante il regime sovietico. In aeroporto a quell’ora non c’è nessuno e mentre ci avviamo per i controlli gli addetti alla sicurezza ci fermano. Ci hanno visto in televisione al concerto trasmesso dalla cattedrale. Ci hanno chiamato “musicisti cristiani”. Siamo sorpresi, è la prima volta in tanti anni che qualcuno mi definisce in questo modo. Ad Almaty ci tratteniamo poco perché siamo diretti in Kirghizistan dove arriviamo nella capitale Biškek dopo un rocambolesco viaggio che ripercorre a tratti l’antica via della seta. Qui si conclude il nostro tour. L’indomani siamo ospiti della stagione concertistica della Filarmonica nazionale che ha sede in una grande sala costruita sulle tipiche strutture architettoniche di stampo sovietico. La notte ripartiamo. Non c’è un volo diretto e dobbiamo fare scalo a Mosca. Sull’aereo che ci riporta finalmente in Italia a un tratto mi pare di sentire il canto sussurrato di una voce femminile. Provo a girarmi ma mi accorgo che attorno a me dormono tutti.

È una melodia che ho già sentito ma non riesco a ricordare dove l’ho ascoltata. Quando stiamo per atterrare finalmente la riconosco: è il canto alla Vergine eseguito dalla voce delle donne nella piccola chiesa di Aktau. Quella melodia, quella preghiera, mi è entrata nel profondo del cuore. E mi accorgo che quel canto di cui non capisco le parole costituisce ormai per me un valore speciale, un ricordo dolce, profondo, che mi auguro possa a lungo continuare ad accompagnarmi.
Avvenire

Fotografia Via Emilia, andata e ritorno in foto

Lo chiamano “festival” e in effetti ha tutte le caratteristiche di una kermesse coinvolgente fatta di concerti, feste, incontri programmati e casuali, e mostre naturalmente (a decine nel circuito ufficiale, a centinaia in quello Off). Il tutto spalmato in spazi prestigiosi del centro storico, ma anche in luoghi occasionali, come case private o negozi. Reggio Emilia in questi giorni è totalmente coinvolta in questofestival che è Fotografia Europea (sedi varie, sino al 10 luglio). La manifestazione (catalogo Silvana), giunta alla sua undicesima edizione, è curata da Diane Dufour, Elio Grazioli e Walter Guadagnini, e ruota attorno al tema “La via Emilia. Strade, viaggi, confini” nella sua accezione più ampia. Vuole infatti offrirsi come riflessione che, partendo dall’antica arteria romana, intende approdare alle vie del mondo contemporaneo, ai luoghi di transito e di confine, alle nuove frontiere geografiche e sociali. 

L’indagine si collega, a trent’anni di distanza, alla storica mostra “1986. Esplorazioni sulla via Emilia”, curata da Luigi Ghirri, che segnò un ripensamento della rappresentazione del territorio, ma anche del linguaggio della fotografia e della figura dell’autore. Quella esposizione viene ora rievocata, a cura di Laura Gasparini, con una selezione di opere esposte in quella occasione di fotografi quali, oltre a Ghirri, Gabriele Basilico, Olivo Barbieri, Vittore Fossati, Guido Guidi, Mimmo Jodice. Il clima culturale dell’epoca in cui è maturato il loro lavoro di ricerca, iniziato nel 1984, sull’emergenza della scomparsa graduale del paesaggio, della forte urbanizzazione, dell’inquinamento e della cementificazione che produce la perdita di identità dei luoghi stessi e delle comunità che vi abitano, è documentato attraverso numerosi materiali storici, dal catalogo alle maquette di preparazione, ai provini a contatto. La via Emilia divenne un paradigma di esplorazioni territoriali che da quel momento non si realizzarono più attraverso la riproposizione dei luoghi più noti e diventata un’altra cosa. 

All’epoca era una delle arterie fondamentali del nord Italia, oggi è una strada quasi secondaria, scelta per spostamenti brevi, verso la quale il grande traffico ha voltato le spalle in favore della viabilità autostradale e dell’alta velocità ferroviaria. Dunque, quella che non più di qualche decennio fa era il simbolo della struggente orizzontalità e laboriosità della Pianura padana, ora pare poco più di un asse di collegamento di quella che può essere considerata una unica grande città che va da Piacenza a Rimini. Questa nuova situazione è oggetto della mostra “2016. Nuove esplorazioni”, a cura di Dufour, Grazioli e Guadagnini i quali hanno inteso prendere le mosse dalla valutazione su cosa avesse significato il progetto di Ghirri del 1986 all’interno della cultura fotografica del periodo e quale rapporto esso potesse avere con la realtà odierna. 

E siccome è una realtà in continua mutazione, richiede un linguaggio fotografico elastico e duttile che sia capace di portare a sintesi immagini provenienti dai più diversi ambiti, create con gli strumenti più differenti, composte secondo le più diverse modalità. Così che anche là dove la fotografia sembra rispondere alla sua vocazione più documen-taria, o comunque di prelievo dal reale, questa possibilità viene messa immediatamente in discussione attraverso strategie che vanno dall’intervento surreale di Alain Bublex alla narratività straniata di Antonio Rovaldi, agli assemblaggi di Lorenzo Vitturi, passando attraverso la memoria di Sebastian Stumpf, in un continuo gioco di spiazzamenti e suggestioni. Allora la via Emilia da oggetto di ripresa diventa soggetto di azione, protagonista di un viaggio sorprendente, tra realtà e immaginazione, tra documentazione e invenzione come capita con i lavori di Stefano Graziani, di Davide Tranchina o di Paolo Ventura.
Avvenire

I viaggi dello spirito più efficaci: dal Gange a Compostela

Quando si parla di viaggi spirituali si viene incontro ad un’esigenza che sta prendendo sempre più piede nella società occidentale. Sarà per la crisi economica, sociale e finanziaria che sta mettendo in discussione il nostro essere, ma sono molte le persone che vanno alla ricerca di se stesse, interpretando il viaggio come una rinascita, un cambiamento di vita, un pellegrinaggio che diventa il punto di partenza per ricominciare da capo. L’India rimane sempre la destinazione regina per questo tipo di esperienze: se la località di Maha Kumbh è apprezzata da pellegrini che arrivano da ogni parte del mondo ed ogni 12 anni offre lo spettacolo della suggestiva unione dei fiumi sacri Ganga e Jamuna, le città gemelle di Mathura e Vrindavan sono celebri perché la prima ha dato i natali a Lord Krishna, celebrato con la maestosità del Tempio Krishna Janmasthan, la seconda è la località della sua giovinezza.

Uno dei sei luoghi più sacri per l’induismo è l’antica città di Haridwar, detta la Porta di Dio, ai piedi delle alte vette dell’Himalaya dove, al tramonto e all’alba, i fedeli si radunano per bagnarsi nelle acque sacre in segno di devozione e di purificazione. Varanasi è un’altra realtà affascinante e complessa carica di una forza mistica senza eguali poiché città di Lord Shiva, mentre a rendere lo stato del Punjab luogo sacro per eccellenza è il Tempio d’oro di Amritsar, l’Harmandir Sahib, considerato il tempio più sacro della religione sikh che, come la Mecca per i musulmani, deve essere raggiunto almeno una volta nella vita. Ci sono quattro entrate al tempio, a simboleggiare l’importanza dell’accettazione e dell’apertura: infatti vi può accedere chiunque, indipendentemente dalla religione, dal colore, dal credo o dal sesso, basta che segua le poche regole di non bere alcol, mangiare carne, fumare sigarette e assumere droghe, avere la testa coperta in segno di rispetto e lavarsi prima i piedi nel piccolo lago d’acqua.

Si cambia continente per arrivare a Gerusalemme, crocevia di religioni oltre che di culture e tradizioni: il percorso spirituale profondo porta ai luoghi simbolo come la Moschea di Omar, la Basilica dell’Agoniao il Santo Sepolcro. In Europa si ritagliano un posto di primo piano Medjugorje, il piccolo villaggio della Bosnia Erzegovina che fino a pochi anni fa era pressochè sconosciuto; Lourdes, considerata luogo sacro sin dal 1858 quando la Vergine Maria è apparsa nella grotta di Massabielle alla piccola Bernadette;Fatima e Santiago de Compostela che richiamano anche i più giovani, perfetti per confrontarsi con se stessi. Dopo ogni viaggio con queste modalità si torna a destinazione profondamente mutati, se non nel corpo sicuramente nello spirito.
La Stampa

Napoli, cosa rende speciale la Galleria Umberto I

Storia, leggende, architettura, opere d’arte: tutto questo è racchiuso in uno dei luoghi simbolo di Napoli, la maestosa Galleria Umberto I. Se a Parigi Gustave Eiffel realizzava la sua famosa torre, negli stessi anni, tra il 1887 e il 1890, nella capitale partenopea veniva completata la bellissima e complessa struttura che in poco tempo si è trasformata nel salotto buono della città, ritrovo della mondanità. Con i suoi 147 metri di lunghezza, una larghezza di 15 ed un’altezza di 34 e mezzo con il vertice della cupola che raggiunge i 57 metri, la Galleria si presenta con 4 ingressi: da Via Toledo, Via Santa Brigida, Via San Carlo e Vico Rotto San Carlo.

L’ingresso principale è quello che si apre su Via San Carlo, composto da una facciata ad esedra costituita in basso da un porticato retto da colonne di travertino e due archi ciechi, uno che immette nella galleria e l’altro all’ambulacro. Ai lati dell’arco di sinistra, sulle colonne, sono rappresentanti in marmo i quattro continenti: la prima statua a sinistra mostra l’Europa raffigurata come una figura di donna che con la mano destra impugna una lancia appoggiandosi ad essa e custodendo la lapide ai suoi piedi; la seconda figura rappresenta l’Asia che stringe una coppa, la terza si presenta con tratti e abbigliamento dell’Africa, con una mano appoggiata sopra una sfinge ed un casco di banane con se mentre la quarta figura si riferisce all’America, con le tavole geografiche e il globo terrestre con il riferimento a Colombo. Osservando le nicchie sovrastanti si possono notare le raffigurazioni della Fisica e della Chimica, rispettivamente a destra e a sinistra, il Genio della Scienza e i Lavoro che si posizionano nelle nicchie sopra le statue delle stagioni, chiara allusione al passare inevitabile del tempo, mentre alla fine il gruppo marmoreo si presenta con le figure del Commercio e l’Industria semisdraiate al lati della Ricchezza, tutte opere di Carlo Nicoli, scultore e allievo di Giovanni Duprè.
turismo.it

Abruzzo: La Porta dei Parchi, tradizione transumante

Agriturismo e agricampeggio, La Porta dei Parchi è un'azienda storica di Anversa degli Abruzzi, da oltre 30 anni un modello sostenibile di multifunzionalità, che ha rilanciato l'attività pastorale e transumante attraverso il progetto "Adotta una pecora, difendi la natura" (www.adottaunapecora.it). 
L'azienda sorge in una zona montana nei pressi di Anversa degli Abruzzi nell'area protetta conosciuta come Gole del Sagittario. La Porta dei Parchi è immersa nel cuore di tre parchi nazionali abruzzesi, un parco regionale e otto riserve naturali in una biodiversità eccezionale, elemento – questo - essenziale per la qualità dei prdotti agro-zootecnici, orgoglio della tradizione transumante.
L'agriturismo offre ai propri ospiti due alloggi o camere singole e quattro alloggi o camere doppie con servizi. Sono presenti inoltre due appartamenti per un numero di 30 posti letto complessivi con servizi per portatori di disabilità. È provvisto di un Punto Ristoro di 50 coperti complessivi, aperto a tutti, villeggianti e turisti di passaggio, ma solo su prenoatazione.
Aperto tutto l’anno, La Porta dei Parchi è un "fattoria energetica" con fonti rinnovabili da utilizzo di pannelli solari. Posiede circa 972 HA di terreno coltivati a foraggi e cereali per circa 50 ettari, uno a ortaggi, 1 a oliveto e il rimanente spazio a prato per l'allevamento ovicaprino estensivo. Si organizzano corsi per apprendere alcune delle lavorazioni gastronomiche e artigianali tipiche del territorio quali corsi di caseificazione, di cucina, di lavorazione del feltro, di orticultura e di agricoltura biologica. In tavola vengono proposti i prodotti tipici del territorio e prodotti biologici quali: formaggi, carni, ricotta, ortaggi e frutta.
Nel Punto Vendita si possono acquistare i prodotti di produzione dell’azienda, dai formaggi ai cereali, legumi, zafferano, aglio rosso, confetture, miele, insaccati, carni fresche e olio extra vergine d'oliva. L’azienda fa parte del circuito G.A.S. (Gruppo di Acquisto Solidale) e mette a disposizione dei sui ospiti un'internet point, una sala di socializzazione ed una sala lettura. Si organizzano visite guidate a monumenti, chiese, santuari ed eremi presenti nelle vicinanze dell’Aquila oltre a escursioni, podismo natura e attività di osservazioni naturalistiche ad animali selvatici.
turismo.it

Tapas, spuntini spagnoli in tutto il mondo Il 16 giugno si festeggia la gastronomia iberica

Pintxos, assaggini, stuzzichini, bocconcini: in qualsiasi modo le chiamiate, il 16 giugno è la festa delle tapas (#Tapasday). In tutto il mondo si celebrano i famosi e gustosi piattini, caldi e freddi, che rappresentano la gastronomia spagnola. Il terzo giovedì del mese di giugno, quest’anno il 16, a Roma e a Milano e contemporaneamente in 30 Paesi – dalla Francia agli Stati Uniti, dal Giappone all’Argentina e alla Norvegia - sono in programma iniziative e appuntamenti che promuovono e diffondono la cultura gastronomica della Spagna e il suo modo tipico e rituale di mangiare e socializzare. Per il secondo anno consecutivo sono tantissimi i locali, i ristoranti e gli alberghi di Roma e di Milano che omaggiano la giornata mondiale, inserendo nei loro menu le tapas più caratteristiche, accompagnate dagli ottimi vini spagnoli. 
Tra gli indirizzi più esclusivi della capitale ci sono i ristoranti degli alberghi Gran Meliá Rome Villa Agrippina e NH Collection Roma Palazzo Cinquecento, oltre agli indirizzi tradizionali dove si degustano piatti spagnoli: Toros y Tapas in via Nomentana, Tapas Gourmet Principe in via Liguria, El Patio e La Taberna de Pedro sulla Casilina, El Duende in via di Valle Melaina. Numerosi ristoranti romani, inoltre, offrono per l’occasione menu speciali a base di tapas con proposte per tutti i gusti. Ecco qualche indirizzo: Settembrini e La Zanzara bistrot nel quartiere Prati, Primo al Pigneto nell’omonimo quartiere, Porto Fluviale e Gazometro 38 in zona Ostiense, Queen Makeda Grand Pub all’Aventino, Plancha a piazza Fiume, Beveria Monteverde nell’omonimo quartiere, Pasticcio a Testaccio, Bell nel quartiere Trieste e Magazzino 33 su via Portuense. Proposte creative si trovano anche da Marzapane in zona piazza Fiume, nel ristorante e lounge bar Stazione di Posta, presso la Città dell’Altra Economia di Testaccio, nell’osteria Fernanda a due passi da Porta Portese, da Per me di Giulio Terrinoni in pieno centro storico e da Metamorfosi ai Parioli. L’elenco dei locali e dei bar che offrono tapas per l’aperitivo è ancor più lungo ed è disponibile nel sito: www.spain.info/it/tapasdayroma2016
A Milano partecipano alla giornata mondiale delle tapas gli hotel delle catene spagnole NH e Meliá: NH Collection Milano President, NH Milano Palazzo Moscova, NH Milano Touring, nhow Milano, Meliá Milano e ME Milán Il Duca. Sono presenti all’iniziativa anche numerosi locali e ristoranti; ecco qualche indirizzo: Albufera in via Lecco, La Casa Iberica in viale Premuda, La Pulperia e Recreo Bar Sartoria in zona Sempione, Las Bravas street food, a Città Studi, Mudec Bistrot all’interno del museo Mudec, Paellami alla Bicocca, Santeria Paladini all’Ortica, Santeria Social Club in viale Toscana e Eataly Smeraldo.
Le mappe distribuite in centro e i simpatici risciò Velo-Leo personalizzati per l’occasione permettono di riconoscere facilmente i luoghi dove andare a scoprire le tapas in questo unico e speciale itinerario gastronomico milanese.
Per scoprire tutti gli indirizzi: www.spain.info/it/giornatamondialedelletapasmilano
Le tapas sono nate nel sud della Spagna, dove gli osti erano soliti tapar, cioè coprire con un piattino le brocche di vino per proteggerle dai moscerini; per richiamare l’attenzione dei clienti riempivano quei piattini, esposti sui banconi dei bar, delle bodegas e delle tabernas con olive, pezzi di formaggio o di prosciutto e avanzi di frittata, un gesto semplice che nel tempo è diventato un modo originale ed economico di mangiare. Il rito, poi, si è diffuso in tutto il Paese: ogni regione ha le proprie tapas, preparate in base agli ingredienti locali e accompagnate dal proprio vino d’origine. Negli anni la tapa è entrata anche nei menu dei grandi chef, che propongono le tapas gourmet: dai peperoni verdi alle cozze saltate in padella, dalle code dei gamberi alle sardine fritte, dal prosciutto tagliato al coltello alle acciughe ripiene. Oggi, in Spagna, le tapas si mangiano come aperitivo o come un vero pasto e spesso si consumano in piedi, alla barra, il bancone, chiacchierando con gli amici e spostandosi di locale in locale. 
ansa

La grande bellezza di Assisi


«Quel 27 settembre del 1997 ero dentro la Basilica quando avvenne il crollo. Poterla raccontare oggi in tutta la sua bellezza è un vero dono ». Si inumidiscono gli occhi a padre Enzo Fortunato, portavoce del Sacro Convento di Assisi, mentre alza lo sguardo agli affreschi della volta della Basilica di San Francesco. Una autentica meraviglia, patrimonio mondiale dell’umanità, sopravvissuta a 23 terremoti, fra cui l’ultimo, devastante, nel 1997, e amorevolmente restaurata come spiega il responsabile dei lavori Sergio Fusetti. 

Quel capitolo che costò la vita a quattro persone, ma che mostrò anche l’amore del mondo per il Poverello e per i suoi confratelli, nonché le capacità della scuola di restauro italiana, è una parte importante del racconto che andrà in onda questa sera su Sky Arte Hd (canale 120 e 400 di Sky) dedicato ad Assisi e alla Basilica di San Francesco. Ed è particolarmente significativo che la terza serie del fortunato lavoro sulle bellezze nostrane Sette meraviglie, prodotto dall’italiana Ballandi Arts, parta proprio dal- la città della pace. Ogni martedì alle 21.10 sarà protagonista una meraviglia d’Italia: Genova e il Palazzo dei Rolli il 14 giugno, e poi Torino e la Venaria Reale, Castel del Monte (Bari), Siena e Piazza del Campo, Lecce e il Barocco, Roma e la via Appia antica. Sul sagrato della Basilica si stanno smontando le scenografie dello show benefico di Rai 1 Con il cuore nel nome di Francesco, che ha già raggiunto la raccolta record di un milione di euro a favore delle mense francescane in Italia e dei progetti dei missionari nel mondo (è ancora possibile contribuire sino al 18 giugno mandando un sms al 45504). 

Ma i progetti non si fermano: questa volta i francescani hanno dato pieno appoggio «ma con totale libertà », sostengono, alle telecamere di Sky Arte che in 45 minuti raccontano attraverso immagini di grande suggestione, e grazie a un comitato scientifico di esperti, la storia di questa città gioiello improvvisamente illuminata dalla “rivoluzione” del giovane Francesco. Il documentario si concentra soprattutto sullo straordinario aspetto artistico della Basilica fondata nel 1228, a soli due anni dalla morte del Poverello, e sull’eccezionale ciclo di affreschi che copre 10mila metri quadrati di superficie dove Giotto a partire dalla fine del XIII compie un’altra rivoluzione, quella che “strappa” con l’arte bizantina e fonda l’arte di oggi. «Qui nasce l’estetica moderna. Nell’arte irrompe la natura rappresentata nella sua realtà. Ma questo grazie a Francesco: è sulla sua spiritualità che si innesta la rivoluzione di Giotto», spiega Sergio Gaddi, curatore di mostre d’arte e consulente del documentario di Sky. 

Nel documentario, infatti, il messaggio di Francesco nella sua modernità non può non essere centrale. «Il titolo di meraviglia la basilica di Assisi se lo merita per la sua vocazione religiosa, per il suo aspetto culturale e artistico che permette l’incontro con Dio attraverso la bellezza e per la sua apertura al dialogo che permette l’incontro con l’uomo», aggiunge padre Fortunato. «Come Francesco portò il messaggio evangelico nelle piazze, noi vogliamo portarlo nella moderna Agorà mediatica». Una agorà in cui le meraviglie d’Italia hanno sempre più successo presso un ampio pubblico e sono sempre più esportabili, come ha spiegato ad Assisi il direttore di Sky Arte Hd, Roberto Pisoni, insieme a Mario Paloschi di Ballandi Arts. 

«Questa serie è nata per raccontare il patrimonio Unesco italiano. Siamo arrivati a 21 puntate partendo dai grandi classici come il Colosseo, ma il materiale non ci manca. Stiamo già lavorando alla quarta serie e proseguiremo », preannunciano. Lo schema adottato è l’uovo di colombo: raccontare in modo semplice e comprensibile a tutti la grande arte italiana, supportata da spettacolari immagini dal taglio cinematografico e da particolari solitamente inaccessibili al pubblico. Documentari di qualità che potrebbero presto venire trasmessi anche sul sito del Miur, ma solo per gli studenti come materiale didattico. Mentre la puntata di Sette meraviglie sulla Cappella degli Scrovegni di Padova verrà usato come materiale introduttivo alla visita alla cappella stessa. 

L’Italia piace all’estero tanto che è nata Sky Art Production Hub, una nuova unità produttiva di Sky basata a Milano che produce oltre che per l’Italia anche per Sky Gran Bretagna e Sky Germania (100 ore di produzione italiana all’anno). In questi paesi verrà trasmessa fra settembre e ottobre una nuova serie, poi distribuita in tutto il mondo, dal titolo Italian seasons.Mentre sono già stati venduti in 60 Paesi nel mondo, dopo il successo al cinema, gli speciali sugli Uffizi, i Musei Vaticani e le Basiliche Papali (quest’ultimo verrà trasmesso su Sky Arte Hd il 21 giugno). «Sinora i grandi documentari sull’arte italiana venivano prodotti quasi esclusivamente da Bbc e Arte – aggiunge Pisoni –. La nostra ambizione è quella di incrementare una produzione made in Italy. Puntando soprattutto su registi giovani che danno ai nostri prodotti un linguaggio ancora più al passo con i tempi».
Avvenire