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Le mostre del weekend, dalla Street Art a Isgrò


I principali esponenti della Street Art e un maestro come Emilio Isgrò, fino a Enrico Baj ed Elisabetta Benassi: sono alcune delle mostre della settimana.

CAORLE - Al centro culturale Bafile dal 10 maggio al 1 settembre la mostra "Basquiat, Haring, Banksy: the international and mysterious world of Street Art".

Esposta una settantina di opere provenienti da Italia, Spagna, Francia, Inghilterra e Stati Uniti, firmate dagli artisti che, dagli anni '70 ad oggi, sono considerati tra i principali portavoce della Street Art.

 Fino al 14 luglio la Fondazione Ragghianti ospita la retrospettiva "Otto Hofmann artista europeo: dal Bauhaus all'Italia". A cura di Paolo Bolpagni e Giovanni Battista Martini, la mostra è la prima dedicata all'artista tedesco nel nostro Paese da circa 15 anni, e ne documenta tutta l'attività artistica, includendo numerose opere inedite. Tra le rarità esposte quaderni illustrati di Hofmann delle lezioni tenute da Klee e Kandinskij tra il1928 e il 1930, e una documentazione delle corrispondenze dei suoi maestri e del diploma che conseguì nella scuola fondata da Gropius.

ROMA - Alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea dall'8 maggio al 31 dicembre nell'ambito dell'iniziativa Artista alla Gnam la mostra "Emilio Isgrò: Protagonista 2024": in occasione dei 60 anni della "cancellatura" - il "gesto" che rappresenta Isgrò - l'artista ha creato l'opera "Isgrò cancella Isgrò", con la cancellazione di "Autocurriculum", il suo romanzo autobiografico, che sarà donata alla Gnam. Sempre nel museo capitolino, fino al 30 giugno "Bai Ming. At the Crossroads of Worlds", la prima personale italiana dell'artista cinese contemporaneo Bai Ming. Il progetto espositivo, a cura di Jean-Louis Andral, testimonia il profondo legame tra creatività antica e contemporanea, alla base dell'operato del poliedrico artista da sempre capace di fondere tradizione e modernità. Dal 9 maggio al 25 agosto il Macro ospita "Autoritratto al lavoro", la prima grande antologica dedicata a Elisabetta Benassi. Per raccontare oltre 20 anni della sua produzione, Benassi propone una riflessione sul concetto stesso di retrospettiva attraverso una mise-en-scène delle sue opere con un sistema di architetture e ambienti disposte nello spazio come fossero quinte teatrali.
    Alla Mucciaccia Gallery dal 10 maggio al 6 luglio la mostra Tête-à-tête, a cura di Catherine Loewe, dedicata al racconto della vita privata e professionale di alcune coppie di artisti.
    Il percorso si configura come un racconto appassionato, in un serrato confronto delle opere eseguite dai protagonisti: Sue Arrowsmith & Ian Davenport, Nick Carter & Rob Carter, Charlotte Colbert & Philip Colbert, Rossella Fumasoni & Piero Pizzi Cannella, Emilia Kabakov & Ilya Kabakov, Carolina Mazzolari & Conrad Shawcross, Annie Morris & Idris Khan, Shirin Neshat & Shoja Azari.

NUORO - Allo Spazio Ilisso dal 4 maggio la mostra "Unica. Sei storie di artiste italiane" a cura di Maria Grazia Messina, Anna Maria Montaldo, Giorgia Gastaldon. Nel percorso figurano oltre 70 opere, alcune delle quali inedite, per raccontare il lavoro - ma anche le loro battaglie e le sfide nel contesto dell'arte italiana del Novecento - di sei artiste: Carla Badiali, Carol Rama, Giosetta Fioroni, Carla Accardi, Tomaso Binga (Bianca Pucciarelli Menna) e Maria Lai.

MILANO - Si intitola "Baj. Libri in libertà" la mostra omaggio allestita alla Biblioteca Nazionale Braidense fino al 6 luglio, a cura di Angela Sanna, Michele Tavola e Marina Zetti. Pensata in occasione dei 100 anni della nascita di Enrico Baj, l'esposizione presenta una ricca selezione di libri d'artista che attraversa tutta del grande pittore e scultore milanese.
    "Teatro dei Vitellini - Regia di Gian Paolo Barbieri" è la nuova mostra del grande fotografo di moda in programma a Leica Galerie Milano dal 10 maggio al 24 agosto. Esposte 25 immagini inedite (preparate in studio con un lavoro artigianale e artistico) in cui Barbieri, che ha avviato la sua carriera come attore, operatore e costumista, rilegge l'opera di Shakespeare.

TREVISO - Dal 9 maggio al 30 giugno a Treviso (e poi dal 19 luglio al 3 novembre 2024 a Monopoli), arriva "In my name. Above the show", a cura di Martina Cavallarin con Antonio Caruso.
    L'esposizione - attraverso 17 artisti, 155 fra tele e disegni, 2 opere in Virtual Reality, 18 tra sculture e installazioni, 5 video installazioni e proiezioni - si propone di fare il punto sullo stato dell'Urban Art. 

ansa.it

La mostra a Parigi. Brancusi, la forma cerca la verità assoluta


Eseguiti gli studi primari in Romania, frequentando a Craiova la Scuola di arti e mestieri e diplomandosi poi all’Accademia di Belle Arti di Bucarest, dove vinse vari premi, fra cui per una statua a misura umana dello Scuoiato, vale a dire una accademica “Anatomia”, dove però si notano alcuni dettagli che ritroveremo come tema formale nella sua scultura maggiore, come la testa ripiegata; dopo i passi della formazione accademica Constantin Brancusi parte per una lunga promenade europea dove, a piedi, raggiunge nel 1904 Parigi e con grande rapidità entra nel clima artistico della capitale.

Ha 28 anni e le idee chiare, elaborate sulla scultura classica, ma anche sull’arte popolare che affonda le radici nel mestiere artigiano e nel sapere degli ebanisti romeni. Le due tradizioni, quella classica e quella popolare, restano in lui come un imprinting, e questo gli consentirà poi di realizzare una scultura che oscilla sempre tra un primitivismo che armonizza l’elemento spontaneo del mondo “artigianale” – per lui non esiste una separazione netta con l’arte “maggiore” in quanto la conoscenza del mestiere è anche capacità di ascolto delle materie che si impiegano, e le forme quasi sempre sono il derivato di una tradizione che affonda le radici in quel sapere manuale che avrà per Brancusi sempre suprema importanza – con una trasformazione dell’elemento antico e classico dentro una ricerca della semplicità che non ha niente a che vedere con la facilità. Anzi: come dice in alcuni sui aforismi, raccolti in un libro edito in Francia per la cura di Doïna Lemny, che prende il titolo proprio da una delle sue massime più note: L’art, c’est la vérité absolute: «la semplicità è la complessità risolta», ovvero «la semplicità è la complessità stessa, che deve nutrirsi della sua essenza per conoscere il proprio valore».

Il “principio semplicità” di Brancusi è una forma che quando raggiunge l’essenza penetra con l’intuizione fino al nocciolo duro della forma significante, tocca con gli occhi e con la mano la verità assoluta, ciò che potrebbe anche essere la madre del capolavoro. Le opere di Brancusi sono tutte di elevato valore, cioè di una concezione che, come il “togliere” di Michelangelo, raggiunge quasi sempre il limite che lascia emergere la forma cercata dall’artista dentro quella verità assoluta. E se non tutte possono considerarsi dei “capolavori” – vocabolo oggi impiegato con una tale facilità e frequenza da chi parla di opere d’arte che non significa più nulla, ed è questo il motivo per cui anche le mostre ormai si pensano col metro della quantità di opere esposte e non secondo progetti dove il distillato dell’artista rende chiaro sia i fondamenti della sua grandezza sia la capacità critica di interpretarli (bulimia cui corrispondono cataloghi monumentali, infarciti di saggi spesso inutili e pretenziosi ) –; si deve comunque dire che la ricerca dello scultore romeno, che chiese la nazionalità francese soltanto nel 1950, sette anni prima di morire, ha trasformato la scultura anche rispetto agli sviluppi prodotti dagli altri grandi autori del secolo. Per questo Brancusi si contende il primato di maggiore scultore del Novecento con Arturo Martini, un altro che ha trasformato l’idea stessa di classicità reinventandola come modernità senza smettere di pensare l’arte plastica con un senso poetico che, al termine della sua esistenza, spinse Martini a scrivere il celebre e sofferto bilancio che intitolò La scultura lingua morta.

La mostra che si sta svolgendo fino al 1° luglio al Beaubourg di Parigi (che sarà forse l’ultima prima della chiusura per ristrutturazione della “macchina” progettata da Piano e Rogers), rispecchia nel bene e nel male tutto questo. È a suo modo eccessiva, rutilante in fatto di materiali (sculture, fotografie, disegni, oggetti, documenti…), fa vedere abbastanza bene il percorso dell’artista, ma lascia forse un po’ nell’ombra gli inizi esponendo le prime opere senza indagare gli anni romeni e i rapporti visivi e mentali col mondo popolare di quella cultura. Ma a monte ci sono forse ragioni che rendono questa mostra meno necessaria di quanto si potrebbe pensare, quasi si fosse cercato di risparmiare costruendo la mostra con materiali già “in casa”. Mentre stava per avvicinarsi il tempo della fine, a ottant’anni Brancusi fece testamento lasciando il suo atelier e tutto quanto conteneva allo Stato francese. Morto l’artista nel 1957, Parigi collocò quell’eredità nel Museo d’arte moderna del Palais de Tokyo, poi, dopo l’inaugurazione del Centre Pompidou (1977), un po’ di anni dopo venne costruito ai margini della piazza del Beaubourg, ancora su progetto di Piano, un edificio dove ancora oggi si può visitare l’atelier che conserva 137 sculture, 87 piedistalli, 41 disegni, 2 dipinti e più di 1.600 tra lastre fotografiche in vetro e fotografie originali dell'artista, come recita l’invito al Museo. Ma questa situazione – scrive la curatrice della mostra, Ariane Coulondre –, è provvisoria, perché la ristrutturazione del Beaubourg, che durerà fino a 2025 inoltrato, prevede una ricollocazione dell’atelier all’interno della nuova organizzazione dell’edificio. Ed è proprio questo progetto che rende la mostra in corso in qualche modo “superflua”, anche se varie opere provengono da fuori. Potrebbe darsi, però, che l’esposizione miri a dare allo spettatore un assaggio di come verrà ripensato l’allestimento dell’atelier. Vedremo.

La ricerca della semplicità potrebbe anche corrispondere all’essenzialità, se non fosse che l’astrazione di Brancusi non è affatto una riduzione al concetto, anzi, vuole dare – e qui si potrebbero trovare paralleli con gli studi sugli archetipi e i simboli di Mircea Eliade, che non sono riduzioni spiritualistiche delle testimonianze antiche, ma un modo di illuminarle come permanenze nella mente dell’uomo di oggi – alla forma una solidità compiuta, un valore assoluto appunto, e in questo processo una delle clausole fondamentali, che rendono Brancusi superiore a ogni altro scultore del suo tempo, è la partecipazione del basamento alla risoluzione dell’opera. La base su cui appoggiano marmi o bronzi, oppure dove si elevano altre forme lignee, sono parte integrante dell’opera che, se ne venisse privata, rischierebbe di diventare il “moncherino” di una idea plastica (dove spesso la scultura e il basamento in effetti lavorano in dialettica: si vedano le due versioni di Danaïde del 1913 in bronzo patinato nero – una trattata a foglia d’oro –; o le due versioni di Torso di giovane uomo del 1917 e del 1923, la prima in ottone e l’altra in legno, una con basamento in pietra cubico, l’altra a parallelepipedo rettangolo, la cui differenza slancia oppure àncora al piano d’appoggio le due sculture. Così si veda l’articolazione del basamento e la mutevolezza delle forme della scultura lignea, separati da un piccolo piedistallo cilindrico in pietra, della Strega (191624) come, alla stesso modo, accade in Lo studio per un ritratto del 19161933 e proprio questa doppia data ci fa capire che l’opera si è sviluppata nella forma trovando il suo basamento lungo gli anni). L’idea della complementarità del basamento nella concezione plastica dell’opera prende piede nella poetica di Brancusi soprattutto dagli anni 20 in poi: la ritroviamo nella serie delle teste ovali, con inserimenti di dischi d’acciaio lucidato, come nella serie di Leda, in marmo o bronzo patinato a specchio dove il basamento è in cemento o in marmo nero separato dal bronzo da un disco.

Come rileva la curatrice «lo statuto stesso dell’oggetto svanisce e mobili zoccoli e sculture collaborano a uno stesso vocabolario di forme elementari ». Lo vediamo ancora nelle due versioni della Maïastra, leggendario uccello che compare nella letteratura romena folclorica, oppure nel famosissimo soggetto dell’Uccello nello spazio che, nel 1926, in occasione dell’importazione a New York delle sculture di Brancusi per una mostra, organizzata da Duchamp presso la Brummer Gallery, sollevò un caso da manuale con il doganiere di turno che si rifiutò di farla passare come opera d’arte e la tassò come comune manufatto. La diatriba durò fino al 1928, quando il tribunale diede ragione a Brancusi (pur con qualche distinguo) e su questo il giurista Bernard Edelman scrisse vent’anni fa il saggio Addio alle arti dove sosteneva che la querelle sull’opera di Brancusi ha cambiato il nostro modo di rapportarci all’opera d’arte sul piano commerciale, ma anche su quello estetico. Una delle opere più belle, che riassume un po’ tutte le ragioni poetiche di Brancusi, è Le Coq, il gallo, di cui è esposta la versione del 1935 in bronzo lucidato, zoccolo in pietra calcarea e basamento in legno tripartito. Il soggetto apre l’esposizione con i tre grandi gessi alti fino a quattro metri e ci fanno capire, insieme alla Colonna senza fine (preferibile a infinita, a mio parere), il “genio elementare” che consente a Brancusi di usare l’immaginazione applicandola alla semplicità con cui la sua “visione spirituale” attinge la forma terrena dell’opera dall’iperuranio dell’arte.

avvenire.it

La mostra. Il set mai visto del Vangelo secondo Matteo di Pasolini

Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini a colori. E’ questa una delle chicche della emozionante mostra in corso sino al 25 agosto nel Centro studi Pasolini di Casarsa (Pordenone), dedicata alle foto di scena del rivoluzionario film a 60 anni dalla sua uscita. E poi ci sono i ritratti intensi del giovane Enrique Irazoqui, scelto da Pasolini per interpretare il Cristo, che osserva attentamente il regista mentre gli spiega la sceneggiatura, e quelli addolorati e celebri della madre Susanna Colussi, che il regista volle nella parte di Maria di Nazareth, ai piedi della croce, ancor più suggestivi poiché richiamano il profondo legame tra Pasolini e la madre. E poi la città di Matera, la Gerusalemme ritrovata di Pier Paolo Pasolini, le campagne di Barile che diventano Betlemme, i luoghi, i paesaggi di un’Italia meridionale che negli anni Cinquanta e Sessanta erano considerati il simbolo di un ambiente degradato ed emarginato e che assumono nel film un forte valore religioso.

Il curatore della mostra, Roberto Chiesi, critico cinematografico e responsabile del Centro studi-Archivio Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna, sottolinea come le foto di scena costituiscano «un modo per tracciare una sorta di mappa del film, e trattandosi di un’opera che turba, stimola alla riflessione e suscita emozioni, prolungano e approfondiscono questo tipo di processo». Molte foto fissano momenti che sono spesso colti dietro le quinte e «ci ricordano – aggiunge Chiesi - che sul set e fra gli interpreti ci sono molti degli amici di Pasolini, alcuni intellettuali di fama come Enzo Siciliano o un giovane Giorgio Agamben, Ninetto Davoli che qui debutta, addirittura la madre Susanna, c’è quindi la vita di Pasolini». La mostra è divisa per aree tematiche e, attraverso lo sguardo di Novi, scopriamo nuovi dettagli sul set e sul film stesso. Alcuni affascinanti scatti a colori (mentre il film è in bianco e nero) ci aiutano a cogliere meglio i riferimenti pittorici di Pasolini, come quelli a Piero della Francesca nei sontuosi abiti dei farisei i cui volti, per contro, popolani spiccano nella sezione “Volti e corpi”, o negli scenari assolati della Basilicata e nella sontuosità delle architetture del castello di Gioia del Colle in Puglia sede del Sinedrio in “La reinvenzione dei luoghi” e “La sacralità dei rituali”. Mentre nella sezione “La realtà del set”, come afferma Chiesi, le fotografie di Novi permettono allo spettatore di vedere cose che possono essere sfuggite, «come rendersi conto, per esempio, che Maria di Betania è Natalia Ginzburg o che sul set c’era anche Elsa Morante consulente per le musiche». E di scoprire che Pasolini usava delle lavagnette con le battute del film ad uso degli attori non professionisti o di vedere inquadrature che sarebbero state poi tagliate e che ci svelano altri segreti del “suo” Vangelo.

avvenire.it
 

Ballarò si mette in mostra con Marras e Bellina. Il designer e il fotografo raccontano il quartiere di Palermo

 

Cosa succede quando un famoso stilista e un fotoreporter, che vive nel più popolare mercato di Palermo, s'incontrano per caso sul web? Accade che uomini e donne escono dalle ombre di uno dei quartieri più degradati e, al tempo stesso, più vitali del Sud vestendo Marras.

La mostra "Nonostante Ballarò", che si apre domani 3 maggio nell'Oratorio dei SS.  Crispino e Crispiniano, è la storia per immagini del dialogo, nato a distanza durante la pandemia e poi divenuto sempre più intimo e ravvicinato fra Antonio Marras, designer di moda fra i più apprezzati del panorama attuale, e Francesco Bellina, fotografo palermitano. Le 18 fotografie esposte negli spazi della chiesa sono la narrazione di alcuni giorni dello scorso settembre in cui l'artista sardo, che abita e lavora fra Alghero e Milano, ha incontrato il fotografo siciliano - nel luogo che quest'ultimo definisce casa - e ha vissuto con lui, in un set tanto itinerante quanto aperto e reale.

    Ballarò è il cuore oscuro di Palermo, incastonato nel centro storico racchiude in sé tutte le contraddizioni di una città che, qui più che altrove, è terra di frontiera, un luogo dove la nuova immigrazione e i vecchi abitanti riescono a convivere più o meno in pace, nonostante siano sull'orlo dell'abisso. È probabilmente il quartiere che conserva meglio il fascino trasgressivo di vicoli e di vite al limite, di emergenze monumentali e di rovine.
    In quei giorni di inizio autunno, Marras ha letteralmente travolto luoghi, persone e cose: parcheggiatori abusivi, il mercato del baratto, l'autolavaggio, il circolo Arci utilizzato per backstage e fitting. Le sue creazioni sono divenute pretesto, punto di partenza per una ricerca che unisce mondi separati da distanze siderali. Il risultato è un documento della vita reale del quartiere, un'incursione nel quotidiano dei suoi abitanti di giorno e di notte, fra alberi di fico e macerie, senza imposizioni e set preconfezionati ad uso flash. Le foto di Bellina ci mostrano il volto di uomini e di donne, che per molti un volto non ce l'hanno. Sono scatti neobarocchi dal bel taglio compositivo, che sanno cogliere il senso della ricerca di Marras e, al tempo stesso, trasformare situazioni, azioni ed eventi in un percorso ricco di umanità e di nuove e diverse modalità di comunicazione. I protagonisti delle foto indossano gli abiti che Marras ha portato da Milano racchiusi alla rinfusa in due valigie, divenendo gli interpreti di una maniera diversa di concepire il patinato mondo della moda. "Re e regine per un giorno" ci raccontano le loro storie senza infingimenti. Coi loro sguardi, le posture, la spontaneità dei gesti, ci offrono spunti nuovi che avvicinano universi lontani per cercare un più diretto legame tra l'immagine e la realtà che la compone, fino a decostruire e mutare la dimensione statica e contemplativa dell'opera. Alcuni scatti sono esposti anche all'Hotel Villa Igiea, partner della mostra. 
   

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Antonio Ligabue, cento opere in mostra da settembre a Bologna

 



Per la prima volta a Bologna arriva la grande mostra dedicata a uno degli artisti più emozionanti del '900, Antonio Ligabue.

Dal 18 settembre a fine marzo 2025, a Palazzo Albergati, cento opere accompagneranno il visitatore alla scoperta di un uomo dalla vita tormentata ed emarginato dalla società, ma alla costante ricerca di un riscatto sociale come uomo e come artista.

L'esposizione è promossa e organizzata da Arthemisia, che ha un rapporto speciale con Ligabue, nato nel 2017 con una mostra al Complesso del Vittoriano di Roma e seguita dalle esposizioni di Conversano e Trieste.
    Paesaggi, fiere, scene di vita quotidiana e numerosi e intensi autoritratti: un centinaio di opere - tra oli, disegni e sculture - saranno protagoniste di un percorso espositivo unico dove, attraverso la forte carica emotiva delle tele, sarà possibile conoscere la vita di un artista visionario e sfortunato ma che, da autodidatta, fu ed è tutt'oggi capace di parlare a tutti con immediatezza e genuinità. Antonio Ligabue, con la sua vita così travagliata, escluso dal resto della sua gente, legato visceralmente al mondo naturale e animale e lontano dal giudizio altrui, riuscì a imprimere sulla tela il suo genio creativo: un uomo, talmente folle e unico, che con la sua asprezza espressionista penetra ancora oggi nelle anime di chi ammira le sue opere. 
   

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Nel nuovo mondo wireless con il clone IA di Marconi. A Via Asiago una mostra celebra il genio inventore


L'appello di D'Annunzio per la questione fiumana trasmesso via radio dal panfilo Elettra, sul quale Guglielmo Marconi era arrivato a Fiume mandato però dal governo italiano per convincere il Vate a rinunciare alla sua impresa. E poi il primo "silent party" della storia, avvenuto sul ponte della nave, con i ballerini che danzavano in cuffia ascoltando in mezzo al mare la voce del soprano Melba. O ancora il primo esperimento di "wireless" quando l'inventore accese da Genova le luci di Sidney o il primo di navigazione alla cieca, tramite le micro-onde, con cui l'inventore della radio, memore del disastro del Titanic, pose le basi per la nascita del radar. Sono alcuni dei frutti del genio inventore della radio che si scoprono alla mostra "Guglielmo Marconi. Prove di Trasmissione", inaugurata dalla Rai in via Asiago, la "casa" del genio della radio. E dove ad accompagnare il visitatore è lo stesso Marconi, ricostruito digitalmente grazie all'intelligenza artificiale. Grazie al materiale audio e fotografico d'archivio e alle tecnologie deep fake e voice cloning, è infatti il volto dell'inventore con la sua mimica facciale, ma anche la sua parlata e il suo timbro vocale, che conduce lo spettatore alla scoperta di quello che è stato il nuovo mondo in versione "wirless". Senza il quale non ci sarebbero non solo la radio e la tv ma neppure "gli attuali smartphone, il Gps i satelliti, internet, il radio soccorso o le comunicazioni con le navi, gli aerei e le sonde spaziali e in cui non avremmo esplorato la luna o marte" ci dice il clone di Marconi che dedica le sue invenzioni alla "passione, dedizione, perseveranza grazie alla quale semplici essere umani riescono talvolta a cambiare il mondo e la storia dell'umanità". Promossa dalla Rai nel 150/o anniversario dalla nascita del pioniere delle telecomunicazioni e in concomitanza con i 70 anni dalla nascita della televisione e i 100 anni della radio, la mostra, patrocinata dal ministero della Cultura e visitabile dal 4 maggio prenotandosi sul sito del Fai, è nel Palazzo della Radio di Via Asiago, il luogo dal quale sono partite le onde di trasmissione radio che hanno portato informazione e intrattenimento in tutto il Paese. E dove è conservata anche quella che fu la scrivania di Marconi, che per anni lavorò in quel palazzo e ne percorse i corridoi. La mostra si focalizza, in particolare, sul periodo che va dai primi anni Venti alla prima metà degli anni Trenta, prima della scomparsa di Marconi, ovvero sugli esperimenti e sui viaggi che egli fece a bordo della fidatissima nave-laboratorio Elettra. "La storia è fatta di snodi che le consentono di cambiare direzione e Marconi è stato uno di questi. E l'ha fatto facendosi anche portatore di una visione etica della scienza e del progresso, con l'ottimismo e la speranza nel futuro" ha detto il direttore generale della Rai, Giampaolo Rossi, inaugurando l'esposizione assieme, tra gli altri, al nipote dell'inventore, il principe Guglielmo Giovannelli Marconi ed Umberto Broccoli.
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Da Degas a Renoir, l'Impressionismo in mostra a Roma


A150 cinquant'anni dalla prima mostra ufficiale, quella organizzata dal fotografo Nadar il 15 aprile 1874 a Parigi, arriva a Roma Impressionisti - L'alba della modernità, antologica che celebra il movimento al Museo storico della fanteria, dal 30 marzo al 28 luglio, con oltre 160 opere di 66 artisti, tra i quali spiccano Degas, Manet, Renoir e l'italiano De Nittis.

"Una mostra dal taglio particolare, inedito, realizzata appositamente per questo luogo", spiega Vincenzo Sanfo, membro del comitato scientifico diretto da Vittorio Sgarbi e composto anche dall'ex direttore del Musée du Petit Palais e Membre Ecole du Louvre, Gilles Chazal, e dall'ex direttrice del Musée de Chartres e Musée Paul Valeéry, Maithé Vallès-Bled.

Divisa in tre sezioni (Da Ingres a L'Ecole de Barbizon, i fermenti dell'Impressionismo; L'Impressionismo; e L'eredità dell'Impressionismo), la mostra, prodotta da Navigare srl, abbraccia un arco temporale che va dall'inizio dell'Ottocento, con opere di Ingres, Corot, Delcroix e Doré, tutte provenienti da collezioni private italiane e francesi, arrivando agli eredi Toulouse-Lautrec, Permeke, Derain, Dufy e Vlamininck, per concludersi al 1968 con un'acquaforte di Pablo Picasso, omaggio a Degas e Desboutin. Ma non solo. Accanto alle opere poco conosciute dei grandi protagonisti, come Pissarro, Degas, Cézanne, Sisley, Monet, Morisot e Renoir, spiccano anche le tele di artisti comprimari come Bracquemond, Forain, Lepic, Millet, Firmin-Girad e il Lecomte del Bateau sur la riviere scelto come immagine simbolo della mostra. E ancora, ecco un insolito focus sul disegno, le incisioni e le tecniche di stampa, così fortemente influenzate dell'avvento della fotografia. "Gli impressionisti - racconta Chazal - abbandonano la pittura accademica dei grandi quadri storici e iniziano a ritrarsi l'un l'altro o a immortalare momenti di vita quotidiana. Hanno una visione della pittura molto meno aulica".

In quest'ottica va letta anche la collezione di libri, lettere e oggetti personali, come la teiera del servizio di Monet. "L'impressionismo non è un movimento, ma una condizione umana che nasce quando la pittura della realtà è sconfitta dall'invenzione della fotografia - commenta Sgarbi -. È la vita, la possibilità di rappresentare stati d'animo. È fatta per dirci quello che la realtà ci provoca dentro. Per questo non finirà mai. Non a caso un impressionista tragico come Van Gogh parla di sé, ma parla al mondo. L'impressionismo è una condizione dello spirito, questo vuol dire la mostra. Quello che fino a quel momento non contava, come la teiera del servizio di Monet, impensabile ad esempio nei dipinti del Tiepolo, improvvisamente con gli impressionisti diventa soggetto e momento eterno. Portare gli Impressionisti e questa mostra a Roma, città per tradizione così lontana da Parigi, e al Museo della Fanteria non è solo sperimentare luoghi nuovi - conclude il critico -. È portare la vita, perché gli impressionisti sono la fine della guerra. E conquistare uno spazio di guerra con una mostra d'arte che espone una teiera, è portare la pace".

ansa.it

FAENZA L’eterno presente di Gio Ponti nelle ceramiche

Faenza, Mic

Gio Ponti

Ceramiche 1922-1967 Fino al 13 ottobre Al Mic una selezione dei progetti del polivalente artista realizzati per Richard-Ginori, Pozzi, Venini, Fontana tra il 1922 e il 1967 Piccole sculture da tavolo, piatti e vasi, innovativi e al tempo stesso rispettosi dei valori classici


Gio Ponti lavorò in tutti i campi: dalla pittura al vetro, alla ceramica, al teatro, al disegno su stoffa, all’architettura, all’urbanistica. Inventò due riviste, “Domus” e “Stile”, che fondò rispettivamente nel 1928 e 1941, con i dibattiti sull’architettura e sul design, gli scritti, le lettere agli amici, le mostre. Lavorò tantissimo, come architetto innanzitutto, lasciando il suo stile palladiano e neoclassico rivisitato su ceramiche, affreschi, dipinti, mobili in tutta Italia. Realizzò piccoli progetti domestici in grandi serie (servizi di piatti e tovaglie per La Rinascente) e grandiosi fabbricati (Grattacielo Pirelli a Milano, 1960), cattedrali e musei (la cattedrale di Taranto, 1970, e il Denver Art Museum negli Usa, 1971). Progettò per sessant’anni, in tutto ventimila disegni di architettura, insegnò per venticinque, costruì in tredici Paesi. Visse ottantotto anni, dal 1891 al 1979, lavorando sempre, intensamente. Con uno sguardo che tendeva a guardare dietro di sé (« Per me – ha dichiarato Ponti – non esiste “il passato” perché considero che tutto è simultaneo nella nostra cultura»). Ciò emerge dalle ceramiche create per la Richard Ginori negli anni Venti come in Prospettica, vaso in porcellana in cui una fitta sequenza di piccole celle sapientemente decorate, occupate da forme primarie, dà vita ad un gioco di ripetizioni differenti, con evidenti rimandi alle prospettive rinascimentali e ad alcune visioni dei protagonisti del Realismo Magico. Oppure dalle piccole sculture da tavolo, piatti e vasi, innovativi e, al tempo stesso, rispettosi dei valori classici, realizzati con le più avanzate tecniche, ma ispirati alla nostra tradizione artigianale, caratterizzati da richiami alle forme delle antiche medaglie, delle urne e delle statue, popolati da sinuose silhouette, tra basiliche, colonnati e pergole. Esemplare, in proposito, la composizione di 41 elementi in porcellana, vetro, metallo e oro che “imbandiscono” una grande tavola bianca rettangolare. Si tratta del Trionfo da tavola per le ambasciate d’Italia del 1925-1927 realizzato da Ponti in collaborazione con Tomaso Buzzi e Italo Griselli. L’opera è una delle più significative tra le oltre duecento presenti nella mostra “Gio Ponti. Ceramiche
1922-1967” (catalogo Dario Cimorelli Editore) allestita al Mic di Faenza a cura di Stefania Cretella. Lisa Licitra Ponti, figlia dell’architetto e sua collaboratrice, ha detto in passato: « Mio padre è un architetto che ha iniziato con la ceramica: l’essere architetto non è un aspetto della sua versatilità, è la versatilità un aspetto del suo essere architetto». Ponti aveva in mente l’architettura dell’esistenza: la casa, l’oggetto, la grande e la piccola serie avevano per lui la stessa dignità di progetto. Quando la Richard-Ginori vinse il Grand Prix all’Expo di Parigi nel 1925, la direzione artistica dell’azienda era già nelle mani di Ponti da due anni. Aveva rivoluzionato tutta la produzione, creando non solo capolavori di originalità ed eleganza, che la mostra documenta, come i grandi pezzi d’arte La conversazione classica o La casa degli efebi, o Vasi delle donne e delle Architetture, ma inventando un sistema di famiglie di pezzi dai grandi ai piccolissimi con cui ravvivò la produzione della manifattura favorendo il contatto dell’impresa con le grandi esposizioni e le relazioni con artisti, industriali, artigiani. «Così Ponti ha sempre lavorato per le aziende: con un progetto globale e con entusiasmo e distacco», ha evidenziato ancora Lisa Licitra Ponti (ricordiamo le collaborazioni con Ceramiche Pozzi, Venini, Fontana Arte), dimostrandosi una figura chiave nella promozione del design e dell’alto artigianato artistico italiano nel mondo, lasciando una eredità creativa che è stata degnamente raccolta da importanti autori quali Alessandro Mendini ed Ettore Sottsass.
avvenire.it
(Post a cura di Giuseppe Serrone - Turismo Culturale)

In un’esposizione unica e irripetibile, al Museo Poldi Pezzoli di Milano, con il sostegno di Fondazione Bracco quale Main Partner, verrà presentato – per la prima volta nella storia, dopo 555 anni dalla sua realizzazione – un capolavoro di Piero della Francesca (1412–1492): il Polittico agostiniano

 

Nel 1469 l’artista finiva di dipingere il suo magnifico polittico per l’altare maggiore della chiesa degli agostiniani a Borgo San Sepolcro (Arezzo), iniziato nel 1454. La pala, fra le opere di maggiore impegno di Piero della Francesca, fu smembrata e dispersa entro la fine XVI secolo. Oggi ciò che resta del polittico agostiniano, ovvero otto pannelli (la tavola centrale e gran parte della predella non sono state finora rintracciate), si trova in musei in Europa e negli Stati Uniti, oltre che al Museo Poldi Pezzoli, proprietario del panello raffigurante San Nicola da Tolentino, uno dei quattro santi che appartenevano alla parte centrale del polittico.

In passato alcuni musei avevano già provato a riunire il polittico: lo stesso Museo Poldi Pezzoli nel 1996, la Frick Collection nel 2013 e il Museo dell’Hermitage nel 2018. Ma, non ottenendo tutti i prestiti, ne hanno proposto solo una ricostruzione “virtuale”. Dal 20 marzo 2024, grazie alla collaborazione con i grandi musei proprietari dei pannelli superstiti, la Frick Collection di New Yor (San Giovanni Evangelista, la Crocifissione, Santa Monica e San Leonardo), il Museu Nacional de Arte Antiga di Lisbona (Sant’Agostino), la National Gallery di Londra (San Michele Arcangelo) e la National Gallery of Art di Washington (Sant’Apollonia) sarà possibile ammirare riuniti tutti i frammenti del famoso polittico. 

La mostra, ideata da Alessandra Quarto, direttrice del Museo Poldi Pezzoli, è a cura di Machtelt Brüggen Israëls (Rijksmuseum e Università di Amsterdam) e Nathaniel Silver (Isabella Stewart Gardner Museum, Boston), studiosi di livello internazionale e gli ultimi a proporre la ricostruzione del polittico nel 2013 presso la Frick Collection di New York sulla base delle indagini finora condotte.
L’organizzazione della mostra è a cura di Lavinia Galli, conservatrice, e Federica Manoli, collection manager, del Museo Poldi Pezzoli, con il coordinamento di Arianna Pace, dell’ufficio mostre.

Presentati in un suggestivo allestimento a cura dell’architetto Italo Rota e dello studio internazionale di design CRA-Carlo Ratti Associati, i pannelli saranno accostati tra loro con le cornici che li hanno “accompagnati” in questi secoli di storia collezionistica. Il progetto mira a restituire al pubblico e agli studiosi la piena esperienza dell’opera pierfrancescana con tutta la sua potenza evocativa dell’epoca rinascimentale.

Visti da vicino i dipinti riveleranno la minuziosa attenzione del maestro per i tessuti e i gioielli lussuosi come il broccato d’oro del Sant’Agostino e l’armatura del San Michele Arcangelo e, per contro, la semplicità del saio del San Nicola da Tolentino, austero e ruvido. Mostreranno inoltre i giochi di luce che Piero della Francesca ha sapientemente utilizzato per ognuno dei pannelli, rivelando una grande attenzione per i dettagli degli ornamenti che oggi dialogano perfettamente con le arti decorative presenti nella collezione del museo milanese. 

Grazie al sostegno di Fondazione Bracco, da sempre impegnata nella valorizzazione del rapporto tra scienza e arte, in programma anche un’articolata campagna di analisi diagnostiche non invasive su alcune opere presenti in mostra, che saranno parte integrante del percorso espositivo e che ripercorreranno le tecniche di lavoro del pittore e i materiali utilizzati, nonché le strade della composizione, dello smembramento e della ricostruzione del polittico. 

La mostra a Milano sarà quindi un’occasione eccezionale per tutto il pubblico e fondamentale ai fini della ricerca e dello studio da parte degli esperti di tutto il mondo; verranno infatti organizzate conferenze, giornate di studio e confronto fra i grandi conoscitori di Piero della Francesca e della sua pittura.

Info utili

DOVE

Museo Poldi Pezzoli. Via Manzoni 12, Milano

QUANDO

20 marzo — 24 giugno 2024

INGRESSO

Intero — € 14,00
Ridotto Over 65 — € 10,00

ORARI

Mercoledì — Lunedì: 10:00 — 19:30
(ultimo ingresso 18:30)

CONTATTI

info@museopoldipezzoli.org

https://museopoldipezzoli.it/

Guercino a Torino, opere da 30 musei e collezioni. Dal 23 marzo al 28 luglio a Palazzo Chiablese dei Musei Reali

 

Oltre un centinaio di opere provenienti da più di 30 musei e collezioni per raccontare non solo un artista ma il mondo dell'arte nel '600.

'Guercino.

Il mestiere del pittore' è la mostra ospitata dai Musei Reali di Torino a Palazzo Chiablese, dal 23 marzo al 28 luglio che presenta, in 10 sezioni, le opere di uno dei maggiori protagonisti della scena artistica dell'epoca e di suoi contemporanei.
    "Volevamo non tanto fare una mostra monografica -, spiega Annamaria Bava, curatrice dell'esposizione insieme a Gelsomina Spione - ma far sì che Il Guercino diventasse una voce narrante per raccontare il mestiere dell'artista nel 600, la sua vita quotidiana, come si forma, le persone che frequenta, la rete che gli sta intorno, i colpi di fortuna che gli permettono di diventare un grande artista, come si confronta con la scienza e le credenze del tempo. La mostra - aggiunge - vuole entrare nella bottega e svelare qual era lo stupore che suscitava questo artista che sa far emozionare e mettere in scena, cose che lo fanno diventare un grande protagonista amato da tutti".
    La mostra, prodotta da CoopCulture con Villaggio Globale International, arriva all'indomani della riapertura della Pinacoteca Civica di Cento, paese natale del Guercino, e si sviluppa partendo da un importante nucleo di dipinti e disegni appartenenti alle collezioni della Galleria Sabaudia e della Biblioteca Reale di Torino.
    In esposizione anche due opere inedite provenienti da collezioni private e lavori di artisti coevi come Guido Reni, i Carracci e Domenichino. A chiudere il percorso espositivo una sezione dedicata a Sibille e 'Femmes fortes', le grandi eroine del mito e della storia.

ANSA.IT

(Segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone - Turismo Culturale)

Da Kennedy al Papa: grande mostra a Roma sui menù che hanno fatto la Storia

 
Palermo, 14 ottobre 1889 -Pranzo offerto a Francesco Crispi

Ci sono quelli dei matrimoni reali inglesi, e di incontri politici che hanno segnato la Storia, nel bene e nel male. Sì, perché molto spesso la storia si è fatta – e si fa ancora – a tavola.

I menù sono gli insoliti protagonisti di un’originale mostra che arriverà per una manciata di giorni a Roma. L’appuntamento è dal 5 al 7 aprile al Garum – Biblioteca e Museo della Cucina per ammirare, tra gli altri, i menù dedicati al viaggio di Papa Francesco a Cuba, al primo pranzo di Hitler e Mussolini, agli incontri tra Castro e Kennedy, alle celebrazioni per i matrimoni di Carlo e Diana e William e Kate, agli incontri internazionali dei presidenti della Repubblica Italiana, come quello fra Cossiga e Michail Gorbaciov all’indomani della caduta del Muro di Berlino. A vent’anni dalla mostra di menu al Castello Sforzesco di Milano, a Roma prenderà vita la più importante esposizione mai dedicata ai menù storici di tutto il mondo. “Un mondo di menu: la grande storia a tavola”, mette in esposizione oltre 400 menù storici e contemporanei, alcuni dei quali mai resi visibili al pubblico, provenienti dalle maggiori collezioni private d’Italia e non solo.

La mostra suggella la collaborazione fra “Menu Associati – associazione internazionale di menu storici” e Garum – Biblioteca e Museo della Cucina della Fondazione Rossano Boscolo Sesillo.

La mostra si articola attraverso 18 pannelli monotematici e si conclude con un pannello aggiuntivo che vuole anticipare l’impegno di Menu Associati e dell’associazione culturale CheftoChef emiliaromagnacuochi a sostegno della candidatura della Cucina Italiana a Patrimonio dell’Unesco.

Molti dei menu saranno esposti per la prima volta al mondo, a partire dal più antico menu a stampa conosciuto (1803) fino a menu a noi contemporanei quali quello del pranzo offerto da Casa Artusi al presidente Napolitano il 7 gennaio 2011 o quello relativo al viaggio di Papa Francesco a Cuba, per incontrare il patriarca Kirill.

Nella visione proposta dalla mostra, il menu, oltre che un manufatto spesso di fattura pregevole e artistica e testimone oculare della storia della gastronomia, rappresenta una sorta di cronista dell’economia, delle scienze sociali e politiche e della quotidianità a sé contemporanee. Difatti i menu esposti sono legati a eventi storici e situazioni particolari quali, ad esempio: le celebrazioni per lo Statuto Albertino (1848), la discussa visita di Garibaldi a Londra (1864), la Breccia di Porta Pia e le due Guerre Mondiali, fino ad arrivare alle relazioni diplomatiche del secondo dopoguerra come nel caso del menu della colazione offerta dal Presidente Cossiga a Michail Gorbaciov all’indomani della caduta del Muro di Berlino. Ad essi si affiancano menu che ci raccontano le ultime ore del Titanic, le grandi imprese di Amelia Earhart e Charles Lindbergh, Umberto Nobile e Francesco De Pinedo. Dal primo pranzo di Hitler e Mussolini (1934) e quelli di Castro e Kennedy correlati al periodo delle nazionalizzazioni cubane, passando per le incoronazioni di Elisabetta II e di Nicola II, l’ultimo zar. Ma in mostra si potranno scoprire anche menù collegati alle celebrazioni e alle inaugurazioni del Canale di Panama e della Tour Eiffel; menu stampati su supporti speciali come seta e porcellana spesso preparati da grandi artisti quali Alphonse Mucha; i menù delle grandi Expo, straordinarie occasioni d’incontro e di scambio per i popoli della Terra: dall’expo del Crystal Palace del 1851 a Milano 2015, passando per la grande Expo parigina del 1900. E ancora: menù celebrativi dei grandi eventi sportivi, dai primi Tour de France al Touring Club Italiano, dalle Olimpiadi del 1936 al Primo Giro Aereo d’Italia.

La mostra sarà aperta da venerdì 5 a domenica 7 aprile dalle 10 alle 18 con orario continuato. Ingresso gratuito.

La foto pubblicata è stata inviata dall’ufficio stampa di Menù Associati
lagenziadiviaggimag.it