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Modena. Ter Brugghen in Italia, un passo oltre Caravaggio

 Alle Gallerie Estensi una mostra “pionieristica” sul pittore olandese che indaga gli anni di Roma fino al 1614, con nuove attribuzioni e la scoperta di opere del soggiorno milanese


Heindrick ter Brugghen, “San Giovanni Evangelista”, 1605–1614. Torino, Musei Reali - / © Musei Reali Torino

Il giorno della presentazione a Modena dell’ultima impresa “pionieristica” di Gianni Papi, la mostra su Hendrick ter Brugghen e, in particolare, sulle opere chel’olandese dipinse in Italia nel periodo giovanile, Vittorio Sgarbi con insolita e puntuale moderazione, segno del rispetto che nutre verso lo storico dell’arte, oltre a ribadire la convinzione ormai di molti che Papi sia il nostro maggiore studioso di pittori in qualche modo legati alla rivoluzione di Caravaggio, lo ha definito uno “spostatore”. Detto altrimenti, sarebbe uno studioso che mette ordine nel catalogo di alcuni pittori che hanno trovato in tempi recenti una loro fisionomia, oppure a cui egli stesso ha dato un volto più preciso, colmando lacune, correggendo attribuzioni erronee e le date di una cronologia ancora incerta, valendosi per lo più dell’analisi stilistica. L’impresa maggiore di Papi fu nel 2002 l’attribuzione a Jusepe de Ribera di alcuni dipinti all’epoca assegnati al misterioso Maestro del Giudizio di Salomone, che lo storico spostò nel catalofo dello Spagnoletto trasformando l’orizzonte della pittura romana nel primo Seicento. L’impresa più recente, invece, è stata l’importante mostra su Cecco del Caravaggio alla Carrara di Bergamo nel primo semestre di quest’anno. Ora ter Brugghen (Dall’Olanda all’Italia sulle orme di Caravaggio, fino al 14 gennaio, catalogo Sagep).

La frequenza delle ultime sortire di Papi fa capire che lo studioso sta tirando le somme su alcuni artisti che ha studiato negli ultimi vent’anni e oltre, ancora senza un catalogo affidabile per attribuzioni e date. Tanto più che, come ricorda lo stesso Papi nel catalogo della mostra modenese, se per Cecco le fonti erano avare, nel caso di ter Brugghen sono quasi inesistenti o comunque insufficienti per fondare le stesse attribuzioni. Perché Modena e non Roma o Milano, le due città che segnano l’itinerario di andata e ritorno del pittore olandese nella sua città natale, Utrecht? Il caso del ter Brugghen “italiano” trovò una sua prima illuminazione, oltre un anno fa, nella mostra di studio allestita alle Gallerie Estensi di Modena a partire da un quadro presente nelle collezioni del Museo, ovvero il Santo che scrive (attribuito da Longhi a Giovanni Serodine), all’epoca fresco di restauro. Dal pittore ticinese, et pour cause, prendeva le mosse una mostra che non mi pento di aver definito, in quell’occasione, “strana”: Indagini intorno a Giovanni Serodine. 600-1630. I santi eremiti della Galleria Estense e della Certosa di Pavia. Si capiva già allora che il nome del grande pittore di Ascona era prossimo alla destituzione in favore di qualcun altro (ma Papi nella scheda ricorda che Argan, nella sua Storia dell’arte del 1970, aveva preso come esempio per Serodine proprio quel dipinto).

Se non Serodine, chi? Papi già nel 2022 aveva proposto ter Brugghen. Ed è da questa ipotesi che la mostra attuale è cresciuta fino a diventare la prima mostra dedicata all’olandese nei suoi anni italiani. Tredici opere, pressoché tutte di nuova attribuzione, alcune delle quali sul crinale che vede il pittore rientrare in Olanda passando da Milano, ma non un semplice transito, perché Papi ritiene che quando nel 1614 il pittore arrivò in città, si sia fermato abbastanza per eseguire alcune opere, fra cui quelle per la Certosa di Pavia, trovando l’aiuto di un pittore di vaglia che lo storico identifica con Giulio Cesare Procaccini (per esempio, come autore della testa nel San Giovanni Battista, uno dei sei dipinti del santi eremiti del deserto, con notevoli momenti pittorici nella pelliccia di cui è vestito, nella mano e nella testa del capro). Affiancano queste opere del pittore di Utrecht altre sei di Ribera, van Baburen, Van Honthorst, Procaccini e Serodine e tre di ter Brugghen del periodo olandese, tra cui la Vocazione di san Matteo che cita Caravaggio. Se nel 2022 si pensava di promuovere una giornata di studi sul Santo che scrive, identificato allora con san Gerolamo dai curatori Federico Fischetti ed Emmanuela Daffra, oggi ci troviamo davanti a una mostra intrigante, con Fischetti che rettifica la precedente ipotesi arrivando alla conclusione, seguendo la storia del dipinto, che con ogni probabilità il santo sia Agostino, a confronto col Sant’Agostino nello studio attribuito nel 2011 da Silvia Danesi Squarzina a Caravaggio ma da molti rifiutato (somaticamente però il quadro di Modena si distacca non poco da questo, in particolare nella folta capigliatura e per un’apparenza complessiva abbastanza rustica rispetto alla fierezza con cui il vescovo d’Ippona viene sempre rappresentato).

È chiaro che porre l’analisi stilistica come il discrimine attributivo è una decisione in parte dettata dalla carenza di materiali e documenti che consentano conferme alle intuizioni, e in parte dalla fiducia che si ripone sui propri mezzi conoscitivi. La mostra di ter Brugghen è proprio un caso da manuale che attesta le capacità intuitive di Papi ma ne mette a nudo anche gli azzardi. A un certo punto lo storico indica nelle mani un luogo tipico nel quale si può riconoscere l’impronta dell’olandese. Ma sono proprio le mani, come mi è capitato di dire allo stesso Papi, che fanno dubitare. Nel 2022 notai che se anche l’attribuzione a Serodine non deve essere del tutto abbandonata, in effetti il quadro manca di quel “naturalismo drammatico” che ricorre nel ticinese, in particolare nel rapporto con lo sfondo paesaggistico. E così le mani – Papi scrive: «costruite con tocchi diretti non impastati, senza disegno» – e le rughe sulla fronte quasi parlano un’altra lingua rispetto a quella di ter Brugghen, mentre anche gli effetti luministici sono attenuati rispetto ad altri quadri dell’olandese, come la Negazione di san Pietro o l’Adorazione dei pastori della collezione Spier di Londra, che sembrano invece tener conto delle ricerche formali di La Tour.

Interessante, invece, il riferimento per l’abito del Santo che scrive al mantello del San Giovanni evangelista di Deventer (non esposto). È chiaro che l’attribuzione, non disponendo di documenti inequivocabili, non è più soltanto l’esito di una visione oculare, ma deve analizzare lo stesso modo di dipingere (qui Papi insiste, per esempio, sulla tipica pennellata curvilinea, con un colore piuttosto denso), i riferimenti al contesto e ad altre personalità dell’epoca, la tela e i pigmenti. Insomma, l’occhio è il giudice ma alla sentenza si arriva soltanto con una disamina complessa sul quadro come “corpo” da sezionare nei modi convenienti. Lo spettatore deve fidarsi di Papi e della sua “ipersensibilità”, considerando che le opere sono quasi interamente assegnate a ter Brugghen a partire dal grado di comparabilità fra le stesse. L’elevata qualità pittorica del Ritratto di giovane uomo, in collezione parigina, forse trova analogie espressive nella testa del Battista sacrificato nel quadro di Salomè o nell’Incredulità di san Tommaso, ma è molto lontano da dipinti come la Derisione di Cristo di Lille, dall’Adorazione o dalla Negazione, come pure dall’altro ritratto, quello di Santo Stefano, dove le mani denotano anche una certa approssimazione pittorica.

Lo splendido San Giovanni evangelista della Galleria Sabauda, a sua volta, mostra una verità quasi fisica, che sembra tener conto dei contrappunti di materia e luce del Ribera. Attribuito nel 1941 a ter Brugghen da Isarlo, ricadde nel novero delle opere serodiniane con l’avvallo critico di Roberto Longhi. Così restò anche nella mostra del 2015 di Serodine curata da Agosti e Stoppa, del tutto contrari all’ipotesi di altra attribuzione. Ma in precedenza il nome di Ter Brugghen era riemerso più volte, a riprova che qualcosa spinge verso l’olandese nella percezione dell’opera. Tuttavia, non si tratta soltanto di una questione di esecuzione – «quelle identiche, implacabili, pennellate date con un pennello largo, usato con vigore e furia» – che hanno nell’effetto finale una resa abbastanza diversa sotto il profilo stilistico dai quadri presi a sostegno per l’attribuzione, ovvero la Negazione e l’Adorazione già citate. E in queste opere, l’esito è piuttosto diverso dal ter Brugghen che dialoga alla pari «con l’energia tellurica delle composizioni del Ribera romano, con la sua esecuzione furibonda e implacabile».

La virtuosa pittura di ter Brugghen, per quanto si possa ammirarla, non raggiunge mai la forza e la bellezza drammatica dello Spagnoletto, il quale, come si è notato, pittoricamente supera il maestro, vale a dire Caravaggio, sebbene questi lo surclassi per genio e intensità espressiva. È una questione sottile, che si può riassumere così: pittori come Velázquez o Rembrandt sono forse i più grandi di tutti i tempi sotto il profilo tecnico e pittorico, ma Caravaggio usa la sua “imperfezione” come una sorta di scorciatoia, per cogliere l’attimo che ne contrassegna il genio e soggioga l’arte. Si sarebbe tentati di credere che il senso di una mostra come questa stia nel ruolo di apripista rispetto a una precedente ricerca lacunosa o persino insufficiente. Tuttavia, ritengo decisiva un’osservazione di Papi che invita a superare la categoria “caravaggeschi” in quanto discepoli di un genio che non lasciò in senso proprio una schola, ma impresse una svolta al tempo della pittura in un allineamento zenitale con l’esistenza. Una meridiana che ha nell’uomo il suo stilo.

Papi scrive appunto che gli artisti che seguirono la novità del Merisi «mostrano decisamente una maggiore indipendenza da Caravaggio, mettendo a punto “naturalismi” che solo in parte – a livello compositivo e stilistico – dipendono dai capolavori, dai grandi testi del pittore lombardo… Nessuno replica esattamente le composizioni di Merisi, nessuno ne recupera le tipologie fisiognomiche. Ma ognuno delinea il proprio “naturalismo”». Dunque, d’ora in poi non chiamiamoli più “caravaggeschi”. Ecco una rivoluzione che potrà dare sul piano interpretativo risultati importanti nella scoperta o rivisitazione di autori fino a oggi schiacciati da un “luogo comune”, che ancora insidia questa mostra di ter Brugghen col sottotitolo che recita, per le solite logiche di marketing, «sulle orme di Caravaggio».

avvenire.it

La nona edizione di “Cultura a porte aperte” partirà sabato 23 e domenica 24 Settembre 2023, in occasione delle Giornate europee del patrimonio culturale

Il programma prevede l’apertura straordinaria di monasteri, chiese, pievi, santuari e musei che fanno parte del circuito di “Città e Cattedrali”, un piano di valorizzazione di circa 600 luoghi d’arte sacra organizzati in itinerari geografici e tematici, fruibili in Piemonte e Valle d’Aosta, ideato da Fondazione CRT e dalla Consulta per i Beni Culturali Ecclesiastici del Piemonte e della Valle d’Aosta.

La Diocesi di Novara con l’Ufficio Beni Culturali aderisce al progetto offrendo l’apertura, grazie alla collaborazione con le parrocchie e con le associazioni di volontariato, di quattordici beni diocesani. Quest’anno si è scelto oltre alla città di Novara, di concentrare l’attenzione su alcune chiese e oratori nei comuni di Bellinzago, Cameri, Carpignano Sesia, Galliate, Momo e Oleggio. Oltre alle chiese, eccezionalmente, saranno aperti con visite libere e guidate, anche il Museo d’Arte Religiosa P.A. Mozzetti di Oleggio con i suoi volontari e la chiesa di San Pietro in Carpignano Sesia grazie all’Associazione Amici del San Pietro.

Il patrimonio della diocesi gaudenziana conta più di 1700 tra chiese, cappelle e oratori diffusi su tutto l’ampio territorio tra la provincia di Novara, Verbano Cusio Ossola e Vercelli. Luoghi di arte e di fede che hanno bisogno di continue cure e attenzioni per preservarne l’integrità e la funzione. Grazie anche agli eventi di valorizzazione, come le due giornate del 23 e 24 settembre, sarà possibile puntare l’attenzione su alcuni luoghi che necessitano di interventi di restauro urgenti, sensibilizzando i visitatori anche nei confronti di azioni di mecenatismo culturale, oggi più che mai urgenti.

Novara partecipa con chiese del centro città: vedremo così riaperte le chiese di San Pietro al Rosario e la chiesa di Sant’Eufemia che conservano opere di Giulio Cesare Procaccini, dei Della Rovere, del Vermiglio, del Pianca ecc. ecc. insieme al Duomo e alla Basilica di San Gaudenzio. Tra i beni segnalati si ricordano, oltre ai luoghi più noti, come l’Oratorio della SS. Trinità di Momo e il San Pietro di Carpignano Sesia, anche siti meno visitati come gli oratori di Cameri con la settecentesca chiesa di San Giuseppe affrescata da Lorenzo Peracino, oppure l’Oratorio del Gesù ricco di affreschi del XVIII secolo; per proseguire con Bellinzago Novarese dove si conserva il piccolo gioiello della chiesa di Sant’Anna con la splendida pala d’altare di Bartolomeo Vandoni e l’antico organo, recentemente restaurato con i fondi CEI 8X1000, di Giovan Battista Gavinelli del XVII secolo. Il percorso continua poi in luoghi ricchi di stratificazioni storiche come nel caso della chiesa di San Giulio a Dulzago eretta nel XII secolo e poi rinnovata nei secoli successivi sino al XVIII secolo ed inserita nel complesso della Badia di Dulzago fondato dai canonici regolari agostiniani nel Trecento.

Un itinerario ricco e variegato che permetterà, grazie anche ai volontari e alle parrocchie che hanno offerto la massima collaborazione, di scoprire o riscoprire luoghi noti e meno della diocesi; un segno, in queste giornate Europee del Patrimonio Culturale, che la condivisione di beni così ricchi di storia e di fede sia il segno di una nuova consapevolezza nei confronti del bene comune in una visione sempre più inclusiva e aperta.

Info
Diocesi di Novara – Ufficio Beni Culturali
Tel. 0321661654
Mail: beniculturalitutela@diocesinovara.it

Il calendario completo su www.cittaecattedrali.it

diocesinovara.it

Bolsena tra le 10 piccole città più belle d'Europa per Forbes

VITERBO - Bolsena, borgo in provincia di Viterbo a quasi due ore da Roma, è tra le dieci piccole città più belle d'Europa, secondo la rivista internazionale Forbes.

E' l'unico comune italiano in classifica.

Il riconoscimento viene dato per il lavoro di tutela ambientale, di valorizzazione della storia e delle tradizioni, ed è un premio che viene conferito anche per aver difeso e preservato il territorio. Tra le altre cittadine compaiono: Bibury in Inghilterra, Bonifacio in Francia, Cesky Krumlov in Repubblica Ceca, Cochem in Germania, Ericeira in Portogallo, Hall in Tirol in Austria, Reine in Norvegia, Ronda in Spagna e Sibiu in Romania. "Queste dieci gemme dimostrano che piccolo può essere bello", si legge su Forbes. Bolsena, che si è distinta, quindi, per il suo patrimonio artistico, paesaggistico e culturale, si trova alle sponde dell'omonimo lago di origine vulcanica "più grande d'Europa".

"Avremo sempre Parigi. E Amsterdam, Berlino e Roma. Ma il cuore dell'Europa si trova spesso nelle sue piccole città, non solo nelle sue vivaci capitali" si legge ancora sulla rivista

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Ad Assisi un nuovo itinerario alla scoperta del Perugino

ASSISI - Ad Assisi è nato un nuovo itinerario culturale e turistico itinerante e permanente, alla scoperta delle opere del Perugino e della sua scuola presenti sul territorio.

Si tratta di un tour fra musei e chiese del centro storico e frazioni, attraverso il quale è possibile ammirare 21 tra dipinti e affreschi del Divin Pittore e di artisti che ne restarono influenzati, nel periodo compreso tra il 15/mo e il 16/mo secolo.

L'iniziativa - promossa dall'ufficio Turismo e marketing territoriale del Comune di Assisi - s'inserisce nel progetto avviato in Umbria, in occasione delle celebrazioni per i 500 anni della morte del Maestro. Un evento che ha visto una grande mostra nella galleria nazionale dell'Umbria e una serie di azioni intraprese, su invito della Regione, da Comuni che conservano tracce dello stesso, come Assisi, Foligno e Spello che si sono aggregati per la realizzazione del progetto Il Perugino per tutti che propone fino al 9 settembre visite guidate gratuite alle opere presenti in città.

In questo contesto è nata la proposta itinerante che offre la possibilità di ammirare nel territorio assisano 21 opere del Perugino e del suo entourage. Per l'occasione è stata anche realizzata una speciale pubblicazione, promossa ed edita dal Comune di Assisi, che le raccoglie e descrive tutte. Le prime copie sono state consegnate ai partecipanti della seconda uscita con partenza da Assisi de Il Perugino per tutti, che ha registrato nuovamente il tutto esaurito.

L'opera principale del nuovo itinerario culturale e turistico dedicato al Perugino - spiega il Comune di Assisi - è la Crocifissione, affresco datato 1485-1486 e posto sulla parete posteriore esterna della Porziuncola nella Basilica di Santa Maria degli Angeli. C'è poi la "Madonna col Bambino" in Pinacoteca comunale, attribuita al Perugino.

"Questa iniziativa - evidenziano Stefania Proietti e Fabrizio Leggio, sindaco e assessore al turismo di Assisi - rappresenta un nuovo strumento per promuovere un patrimonio culturale e artistico forse meno noto, ma altrettanto prezioso e importante.

Si tratta di un'opportunità ulteriore per arricchire l'offerta turistica della città e del territorio, favorendo la conoscenza di risorse che meritano di essere messe maggiormente in risalto".

"Il Comune di Assisi - sottolinea Giulio Proietti Bocchini, responsabile dell'ufficio Turismo e marketing territoriale e dei Musei civici - oltre a valorizzare l'opera certa del Perugino, la Crocifissione, presente nella Porziuncola, ha voluto realizzare un itinerario volto a sottolineare l'enorme fortuna del linguaggio pittorico del Maestro nella scena artistica regionale e mostrare come il suo stile influenzò una vasta schiera di artisti attivi nel periodo compreso tra il XV e il XVI secolo. Il percorso proposto, facilmente fruibile in maniera autonoma o con eventuale visita guidata, è illustrato in una pubblicazione che spiega tutte le opere in maniera sintetica e facilmente accessibile. La stessa, in collaborazione con Opera laboratori, è distribuita gratuitamente ai visitatori che si recano in Pinacoteca comunale".

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La Parsimonia dell'acqua, mostra itinerante in Puglia

BARI - L'annaffiatoio trattiene l'acqua, senza perderne una goccia, e all'occorrenza è capace di distribuirla armoniosamente sulla terra dando origine alla vita.

    E' uno strumento umile che, attraverso la sua semplicità, rivela il senso profondo del nostro tempo: la necessità di aver cura degli elementi base della vita.

L'annaffiatoio è il tema della mostra 'La Parsimonia dell'acqua', a cura di Roberto Marcatti e Cintya Concari dell'associazione no profit H2O Milano in collaborazione con il ceramista Agostino Branca; dalle Scuderie di Palazzo Gallone di Tricase, dove ha riscosso un grande successo, il progetto nei prossimi mesi si sposterà in altre 5 città della Puglia: Bari, Foggia, Taranto, Brindisi e Lecce.

    L'esposizione racconta le virtù di un semplice annaffiatoio e invita gli osservatori ad apprezzare l'ingegno e il valore di questo prezioso strumento a disposizione dell'uomo attraverso 27 opere di artisti nazionali e internazionali. Ogni opera mostra le diverse declinazioni dell'annaffiatoio con un messaggio comune: creatività significa reinterpretazione e capacità di riusare. Nei prossimi mesi le mostre, programmate dal Polo Biblio Museale della Regione Puglia e sostenute dall'Acquedotto Pugliese, sono previste a Bari negli spazi del Palazzo AQP di via Cognetti, per poi proseguire nella Biblioteca Magna Capitana di Foggia, nella Biblioteca Acclavio di Taranto, nel Museo Ribezzo di Brindisi e nel Museo Castromediano di Lecce.

    "Siamo orgogliosi di sostenere questo progetto - ha commentato Tina De Francesco, componente del CdA dell'Acquedotto pugliese - che offre una nuova filosofia di vita partendo da un prodotto, l'annaffiatoio, che conduce a un nuovo paradigma, quello del riutilizzo. Un valore in cui Acquedotto Pugliese investe ogni giorno curando il ciclo integrato dell'acqua, dalla fonte, alla distribuzione, al recupero, fino al riutilizzo in agricoltura".

    "Da quasi vent'anni - ha sottolineato la curatrice Cintya Concari - salvaguardiamo la risorsa acqua attraverso la cultura del progetto. Ecco perché gli annaffiatoi in mostra non vogliono rappresentare solo una merce, ma esprimere una nuova sacralità dell'oggetto stesso; a tale proposito non possiamo più parlare di semplice 'riciclo', ma di una nuova progettualità di cui tutti noi abbiamo bisogno".

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L'evento. Papa Francesco incontra gli artisti nella Cappella Sistina

Venerdì prossimo l'udienza con duecento tra pittori, scultori, architetti, scrittori, musicisti, registi e attori da tutto il mondo. Da Anselm Kiefer a Ken Loach, da Ligabue a Alessandro Baricco

Duecento tra i più importanti artisti da 30 paesi incontreranno papa Francesco nella Cappella Sistina. L'occasione venerdì mattina a 50 anni dall'inaugurazione della Collezione d'Arte Moderna e Contemporanea dei Musei Vaticani.
L'udienza continua una tradizione avviata nel 1964, quando Paolo VI chiese di rinnovare l'amicizia tra la Chiesa e gli artisti. «La volontà del Santo Padre è quella di celebrare il lavoro e la vita degli artisti, evidenziando il loro contributo alla costruzione di un senso di umanità condivisa e alla promozione di valori comuni», si legge in una nota del dicastero per la Cultura e l'Educazione.
Impossibile elencare tutti, tra pittori, scultori, architetti, scrittori, musicisti, registi e attori: si va da Anselm Kiefer, Jean Nouvel, Anish Kapoor, Andres Serrano, Thomas Saraceno, Mario Botta, Rem Koolhaas, Joana Vasconcelos, Doris Salcedo a Ken Loach a Mario Ceroli, Giuseppe Penone, Fabrizio Plessi, Michele De Lucchi, Mimmo Paladino, Raul Gabriel, Nicola Samorì, Andrea Mastrovito, Stefano Arienti... e poi Caetano Veloso, Eric-Emmanuel Schmitt, Valerie Perrin, Amelie Nothomb, Colum McCann, Ferzan Ozpetek, Abel Ferrara, Jhumpa Lahiri, Javier Cercas Nicolò Ammaniti, Roberto Andò, Alessandro Baricco, Marco Bellocchio, Gianrico Carofiglio, Paolo Cognetti, Simone Cristicchi, Alessandro Zaccuri, Giuseppe Lupo, Luca Doninelli, Ludovico Einaudi, Giovanni Sollima, Mariangela Gualtieri, Alessandro Haber, Emilio Isgrò, Nicola Lagioia, Vivian Lamarque, Luciano Ligabue, Mario Martone, Arnoldo Mondadori, Michela Murgia, Mogol, Alice Rohrwacher, Sergio Rubini, Roberto Saviano, Igiaba Scego, Susanna Tamaro, Sandro Veronesi...

L'iniziativa conferma il ruolo del dicastero per la Cultura e l'Educazione come promotore delle relazioni tra la Santa Sede e il mondo della cultura, «privilegiando il dialogo come strumento indispensabile di vero incontro, di reciproca interazione e di arricchimento, affinché i cultori delle arti, della letteratura e della Cultura, in ogni sua forma, si sentano riconosciuti dalla Chiesa come persone al servizio di una sincera ricerca del vero, del bene e del bello».

Il prefetto del dicastero, cardinale José Tolentino de Mendonça, afferma che «abbiamo bisogno di rilanciare l'esperienza della Chiesa come amica degli artisti, interessati alle domande che la contemporaneità ci pone (tanto quelle attuali, pressanti di drammaticità, come quelle così visionarie che indicano nuovi futuri possibili) e disponibili a sviluppare un dialogo più ricco e una crescita della comprensione reciproca». L'evento è organizzato in collaborazione con il Governatorato vaticano, i Musei Vaticani e il dicastero per la Comunicazione.

avvenire.it

A Buenos Aires 'la giustizia si fa con l'arte'


 (di Patrizia Antonini) (ANSA) - BUENOS AIRES, 09 GIU - La giustizia come perimetro di esplorazione artistica, per dare forme ad un concetto astratto e al tempo stesso fondamentale per la vita di ognuno. È lo sforzo di Encupula, movimento collettivo di "arte giuridica" nato a Buenos Aires da un'intuizione della giovane avvocatessa e artista italo-argentina Giorgia Alliata, che in un colloquio con l'ANSA illustra il progetto a cui aderiscono artisti e intellettuali da varie parti del mondo, e che si propone come "ponte generazionale", per parlare a tutti, fuori dalle gallerie, ripartendo dall'arte come scintilla rivoluzionaria per cambiare lo status quo. Punto di partenza dell'iniziativa è stato il recupero di una delle splendide cupole di inizio Novecento del centro della capitale, tra Cordoba e Esmeralda, dopo l'abbandono degli anni della pandemia, che hanno trasformato la geografia cittadina.

 "Uno spazio inclusivo di rinascita e riconciliazione, dove l'arte diventa strumento per ottenere quella giustizia individuale, che magari non si vedrà mai riconosciuta nelle sedi istituzionali o attraverso la politica". In questo atelier, "le opere, i racconti o le installazioni artistiche attivano nuovi percorsi", proponendo "esperienze immersive o transizionali", come ad esempio il Labirinto, uno dei lavori ospitati attualmente. "Oppure le reazioni suscitate dai colori blu e oro (che secondo il movimento rappresentano l'aspirazione individuale alla giustizia e la relatività del concetto)", osserva Alliata. Uno spazio, quello della cupola, che si sta facendo conoscere nella capitale argentina, con un moltiplicarsi di incontri culturali aperti in cui far coabitare punti di vista, che si ritrovano rappresentati fisicamente e sedimentati anche sulle pareti. "Muri che si preparano ad accogliere strati, ma anche sottrazioni, o contaminazioni, in un flusso esperienziale che si esprime attraverso un'opera artistica collettiva e in continuo mutamento". Un concetto che si ritrova espresso anche nei materiali fotochimici utilizzati e in un quadro di un'artista ospite che domina lo spazio e raccoglie gli scatti di 262 sguardi diversi. "Uno statement per dire che l'opera non appartiene necessariamente a qualcuno, che c'è spazio per tutti, e che il concetto può abitare dentro ognuno di noi".

ansa.it

A Genova la 'Rotta dei Capolavori', network musei e opere d'arte. In occasione di The Ocean race 30 tappe tra arte e cultura


- E' pronta a Genova la 'rete delle meraviglie' (dal 19 maggio al 10 settembre 2023), ovvero la possibilità di percorrere un itinerario inedito per scoprire la ricchezza di un patrimonio culturale vario e di inestimabile valore. Da domani infatti sarà possibile incamminarsi sulla Rotta dei Capolavori, un progetto di network museale del Comune di Genova con Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, ideato e curato da Anna Orlando, la prima e più completa rete museale mai realizzata a Genova in cui ogni realtà si presenta con il proprio highlight.

Sono circa trenta le tappe, in strutture tutte diverse tra loro, che offrono una panoramica dell'arte e del sapere dall'antichità ai nostri giorni. I musei di Archeologia ligure e d'arte Contemporanea, la storia naturale e l'arte sacra, la Lanterna e il sommergibile Nazario Sauro sono alcune tappe di un itinerario che tocca tutto il territorio.
    L'edizione 2023 è targata The Ocean Race ed è stata pensata in occasione dell'arrivo della competizione internazionale a Genova. Il network culturale aprirà e chiuderà la 'navigazione' con alcuni 'capolavori ospiti': il 'Paesaggio con covoni e luna nascente' di Van Gogh esposto al Ducale è lo starting point e 'l'approdo' è 'Sinfonie d'arte', capolavori in dialogo tra Modena e Genova allestita a Palazzo Doria Carcassi. "La creazione di un itinerario tra i capolavori di Genova - ha detto il sindaco Marco Bucci -. rappresenta una grande opportunità. Un viaggio nel tempo tra arte e cultura che permetterà di riscoprire il patrimonio artistico genovese". Secondo il governatore Giovanni Toti "in questo modo la città si presenta ai visitatori con un'offerta culturale permanente, evocativa e legata a grandi artisti come Rubens, Van Gogh, Fontana o Cambiaso".
    "Dopo i risultati del network culturale creato attorno alla mostra 'Rubens a Genova' - ha detto la curatrice Anna Orlando - è ancor più evidente l'efficacia della rete e di progetti che mettano a sistema il nostro patrimonio per offrirlo a turisti e genovesi. L'occasione di The Ocean Race è idonea a creare un itinerario per segnalare le opere da non perdere, custodite in città, insieme alle mostre temporanee in corso in questo periodo".

ansa.it

Beni ecclesiastici, un tesoro culturale che non si finisce mai di scoprire

Un’immagine del convegno sui beni ecclesiastici romosso dalla Cei 
 avvenire.it 

 Che cos’è un libro antico? Quali sono le sue caratteristiche? E soprattutto, cosa ha ancora da dire a noi oggi? È questo il tema dell’incontro itinerante che si tiene domani mattina presso la Biblioteca diocesana “Carlo Maria Martini” di Pescara, guidato da Chiara Cauzzi, ricercatrice della Biblioteca Universitaria di Lugano. A proposito di documenti antichi, presso la sala d’ingresso del Seminario arcivescovile di Otranto è possibile ammirare (oggi è l’ultimo giorno) una mostra con documenti del 1480 sulla presa della città pugliese da parte degli Ottomani e il martirio sconvolgente dei santi Antonio Primaldo e 800 compagni, avvenuto in quello stesso anno. Carte di enorme valore testimoniale provenienti sia dal fondo archivistico diocesano che da altri fondi italiani.

Chi invece volesse ripercorrere una delle storie più affascinanti della Controriforma, quella di sant’Antonio Maria Zaccaria e della Congregazione dei Chierici Regolari di San Paolo da lui fondata, detti Barnabiti dal nome della loro prima sede, la chiesa milanese di San Barnaba, può visitare l’esposizione presso il complesso di San Carlo ai Catinari, a Roma. Un appuntamento già passato ma che merita una segnalazione, sempre sulla storia della Chiesa, è quello andato in scena domenica scorsa all’abbazia di Nonantola (Modena): “A cavallo in armi verso Oriente. I cavalieri Templari nei documenti dell’Archivio abbaziale di Nonantola”, una conferenza di don Riccardo Fangarezzi, direttore dell’Archivio abbaziale, a cui è seguita l’inaugurazione della mostra al museo diocesano.

Queste citate sono solo alcune delle numerosissime iniziative organizzate in occasione dell’edizione 2023 delle Giornate di valorizzazione del patrimonio culturale ecclesiastico (13-21 maggio) e segnalate sulla pagina dedicata del sito BeWeB, sigla che sta per Beni ecclesiastici in web, ovvero la vetrina che rende visibile il censimento sistematico del patrimonio storico e artistico, architettonico, archivistico e librario portato avanti dalle diocesi e dagli istituti culturali ecclesiastici sui beni di loro proprietà.

Le Giornate sono state inaugurate dal convegno che si è svolto a Firenze gli scorsi 12 e 13 maggio, organizzato dall’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto insieme al Servizio nazionale per la pastorale delle persone con disabilità e all’arcidiocesi di Firenze (con la partecipazione delle associazioni professionali di settore Amei – Associazione musei ecclesiastici italiani, Aae – Associazione archivistica ecclesiastica, e Abei – Associazione bibliotecari ecclesiastici italiani). «Il titolo comune che abbiamo voluto dare sia alle Giornate di valorizzazione che al convegno – spiega don Luca Franceschini, direttore dell’Ufficio nazionale Cei per i beni culturali ecclesiastici – è “Oltre lo scivolo.

Beni culturali ecclesiastici: dall’accessibilità all’inclusione” nell’intento di far percepire sempre più il bene culturale ecclesiastico, che sia mobile o immobile, come portatore di un valore universale e testimonianza concreta. Con questo convegno la Chiesa ha fatto un passo avanti nell’attenzione alle persone più isolate, per un’inclusione a tutto campo. I partecipanti, provenienti da molte delle diocesi italiane, lavorano quotidianamente nella valorizzazione dei beni culturali ecclesiastici; il loro impegno è volto non solo alla trasmissione dell’aspetto storico-culturale ma soprattutto a rivelare l’aspetto spirituale dei beni culturali ecclesiastici al quale fanno da cornice non secondaria la vita liturgica, pastorale e teologica».

Da segnalare alcuni laboratori che hanno coinvolto i partecipanti con esperienze per l’accessibilità e l’inclusione: percorsi, libri e quadri tattili, videodescrizioni con la lingua dei segni, progetti di audiodescrizioni, percorsi per persone con autismo e per persone con Alzheimer

Museo d'Arte per bambini supera visitatori prima del Covid

 - Aumentano le presenze al Museo d'arte per Bambini di Siena che nei primi quattro mesi dell'anno ha segnato un incremento dei visitatori anche rispetto allo stesso periodo del 2019, prima del Covid. Da gennaio ad aprile 2023 il numero ingressi è stato di 2.974 visitatori da tutta Italia.

Effettuate 150 attività educative e didattiche. Nello stesso periodo del 2019 i biglietti furono 2572. Il Museo d'Arte per Bambini offre 15 proposte diversificate per le scuole e le famiglie in base alle fasce di età. Previsti progetti rivolti al pubblico fragile e alle scuole medie e superiori. "L'offerta didattica del Museo d'arte per Bambini nasce dalla necessità di coltivare un dialogo diretto con il mondo della scuola - spiega Michela Eremita - L'obiettivo principale è rendere gli studenti protagonisti dell'esperienza museale, stimolando la loro curiosità conoscitiva ed esperienziale mediante la proposta di contenuti mirati e attività laboratoriali dedicate".
    L'offerta è stata suddivisa in aree a tema (Collezione Museo d'arte per bambini, Santa Maria della Scala, Museo Archeologico Nazionale, Collezione Piccolomini-Spannocchi e alcune delle Mostre temporanee) che corrispondono agli ambienti museali con la loro specifica offerta artistica". Il Museo nasce a Siena nel 1998 e fin da subito si è affermato con iniziative dedicate al mondo dei ragazzi. Dal 2007 si è trasferito al Santa Maria della Scala. "Ai bambini e alle famiglie sono dedicate attività a tema che permettono di scoprire differenti aspetti del complesso museale - racconta Eremita -. L'offerta è pensata per consentire ai genitori di vivere gli spazi insieme ai figli con visite interattive, giochi e attività di laboratorio dove sperimentare tecniche artistiche". Un altro aspetto particolarmente importante è dedicato alla cura e alla progettazione di percorsi interamente rivolti a persone in situazioni di disabilità e, più in generale, alle categorie fragili. (ANSA).
   

Il progetto a Lucca. Arte e fede, il "tesoro" dei martiri del Giappone


Interpretare la cultura cristiana in Giappone è un percorso accidentato: ogni ragionamento analitico di stampo cartesiano è destinato a cercare invano spiegazioni razionali per situazioni che trovano invece radici profonde nell’invisibile. Entrare in dialogo con la cultura cristiana nel Sol Levante significa confrontarsi con una realtà complessa, in cui non si trova un soggetto che funga da centro dominante, ma convivono una pluralità di situazioni, con sensazioni, emozioni e percezioni che cambiano in relazione al modo in cui ciascun individuo percepisce in un dato momento, chi si trova dinanzi e il luogo in cui si colloca. Tutto ciò che a noi occidentali appare come una condizione statica, costituisce invece un processo dinamico, proprio della tradizione culturale giapponese, radicato nello strettissimo rapporto con la natura e la comunità. La comprensione della cultura cristiana in Giappone presenta pertanto difficoltà interpretative; del resto con questo stesso problema si sono confrontati i numerosi missionari occidentali che a partire dalla metà del XVI secolo sono giunti nel grande arcipelago “dove sorge il sole”. Il geografo tedesco Ferdinand von Richthofen (1833-1905) nell’opera Tagebucher aus China (1877), descrive come il primo incontro tra Oriente e Occidente avvenne lungo la Via della Seta, rete di strade che si stendevano dai paesi dell’area Mediterranea a tutto il continente asiatico, deviando anche nel sud dell’India e raggiungendo talvolta il Giappone. Su queste rotte alcuni Italiani compirono imprese epiche, come quella di fra Giovanni da Pian del Carpine, francescano umbro, che nell’aprile 1245, su incarico di papa Innocenzo IV, iniziò il suo itinerario in Oriente per convertire i mongoli; come il viaggio dei commercianti veneziani Matteo e Niccolò Polo e del figlio di quest’ultimo, Marco; come le eroiche avventure del gesuita abruzzese Alessandro Valignano, che arrivò in Giappone nel 1579, e del domenicano Angelo di Bernardino Orsucci, nato a Lucca l’8 maggio 1573 e morto martire a Nagasaki nel 1622. Questi primi incontri hanno creato i presupposti per instaurare una prima importante “rete di scambi”; i rapporti da essi inaugurati hanno fatto sì che la Via della Seta sia ancora rimasta come sinonimo storico dell’incontro tra Occidente e Oriente.
Già alla fine del XVI secolo diversi missionari italiani avevano intrapreso spedizioni oltreoceano; tra questi anche l’Orsucci: dopo lunghe permanenze tra Messico e Filippine, nell’agosto del 1618 era giunto a Nagasaki per soccorrere le comunità locali, sottoposte a feroce persecuzione. L’editto emanato da Toyotomi Hideyoshi il 24 luglio 1587 aveva anche bandito i missionari cristiani, onde evitare che diffondessero la loro “perniciosa dottrina”. Nonostante i numerosi tentativi di dialogo intrapresi dagli ordini religiosi presenti in Giappone, supportati anche dalle lettere che giungevano dalla Santa Sede, il martirio (attraverso crocifissioni o raffinate forme di tortura) fu l’unico esito del contrasto dei signori feudali giapponesi con le comunità cristiane. Ebbe da qui inizio il lungo cammino del “cristianesimo nascosto”, che in parte continua ancora oggi, nonostante le proibizioni siano state abolite nel 1873 dall’imperatore Meiji. Nel 2018 il valore immateriale di questa straordinaria eredità religiosa è stato riconosciuto Patrimonio dell’Umanità. Trascorsi 470 anni dalla morte di Francesco Saverio (1552-2022), 400 anni dalla sua canonizzazione e dal martirio di Angelo Orsucci (1622-2022), a pochi anni dal viaggio apostolico di sua santità Francesco in Giappone (novembre 2019), il progetto “Thesaurum Fidei. Missionari martiri e cristiani nascosti in Giappone: 300 anni di eroica fedeltà a Cristo” ripercorre il complesso e travagliato cammino del “cantiere missionario” nel Sol Levante. Promosso dall’arcidiocesi di Lucca all’indomani del viaggio diocesano nella prefettura di Nagasaki (settembre 2022), intende ridare voce a quanti hanno donato la propria vita per la fede e la diffusione del Vangelo in Giappone, attraverso un convegno storico e una mostra, visitabile in questo mese di maggio. “Thesaurum fidei” darà modo di approfondire gli studi e di far conoscere al grande pubblico l’opera religiosa e diplomatica svolta dai missionari che, pagando anche con la vita, hanno consentito di tessere un filo che, più forte che mai, continua ad unire il mondo intero. Sarà presentata anche la straordinaria esperienza evangelica dei kakure kirishitan (cristiani nascosti), durata 250 anni (sette generazioni) e capace di tramandare la fede cattolica e la memoria dei màrtiri e dei luoghi degli imprigionamenti e delle uccisioni. Tutto ciò aiuterà a riflettere sul valore e sul significato che il cristianesimo ha avuto ed ha oggi nel Sol Levante, e sulle prospettive dell’azione evangelizzatrice che ancora continua, attraverso tanti missionari laici e religiosi, impegnati a diffondere la parola di Cristo.
avvenire.it

- Segnalazione web a cura di https://viagginews.blogspot.com

Al Museo del Tessuto di Prato al via la mostra Kimono. Riflessi d'arte tra Giappone e Occidente

FIRENZE - 'Kimono - Riflessi d'arte tra Giappone e Occidente' è il titolo della mostra organizzata dal Museo del Tessuto di Prato che ha ottenuto il patrocinio dell'Ambasciata del Giappone in Italia, in corso dal 29 aprile fino al 19 novembre 2023.
    La mostra, si spiega in una nota, esplora le contaminazioni creative e culturali - intervenute tra Europa e Giappone prevalentemente dalla fine dell'Ottocento alla prima metà del Novecento - attraverso l'esposizione di un'accurata selezione di opere che di quei reciproci influssi testimoniano i passaggi fondamentali.

Accanto al già noto fenomeno del Giapponismo, ovvero il modo in cui l'arte europea di quel periodo ha recepito e reinterpretato il linguaggio espressivo e decorativo dell'arte giapponese, il percorso espositivo si sofferma soprattutto ad illustrare il processo opposto, definito da alcuni Occidentalismo, nell'ambito del quale anche l'oggetto più iconico della cultura del Sol Levante, il kimono, risente dell'influenza della cultura e dell'arte figurativa occidentale.
    In esposizione una serie di dipinti, xilografie, cartoline d'epoca, stampe e tessuti provenienti sia da importanti collezioni private che da inedite raccolte del Museo, ma soprattutto i cinquanta kimono maschili e femminili appartenenti all'esclusiva collezione privata di Lydia Manavello, tutti databili al primo e secondo quarto del Novecento, realizzati in seta operata, ricamata o stampata. 

ansa.it

- Segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone e Albana Ruci turismoculturale@yahoo.it

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Reportage. Isole Aran: poesia dai confini del mondo

Nell’isola ai confini del mondo è facile smarrire del tutto la concezione del tempo. Da quando il traghetto molla gli ormeggi dal porticciolo di Rossaveel, immerso nelle nebbie eterne del Connemara, l’orologio segna tre quarti d’ora di traversata per raggiungere Inishmore, la più grande delle isole Aran. Ma forse è un’illusione, perché in questa striscia di roccia calcarea sferzata dal vento e sperduta nell’Atlantico il tempo sembra essersi fermato. Gli abitanti più anziani la chiamano ancora Inis Mór, e ricordano l’epoca in cui era considerata l’ultima roccaforte della cultura gaelica contro l’anglicizzazione dell’Irlanda. Una terra che dette i natali al più grande poeta in lingua irlandese, Máirtín Ó Direáin, e poi allo scrittore Liam O’Flaherty, l’illustre esponente del Rinascimento irlandese che sull’isola ambientò molti suoi romanzi. Al volgere del XIX secolo vi mise piede per la prima volta anche un drammaturgo dai baffi cadenti e dall’aria malinconica che sarebbe diventato uno dei grandi del teatro irlandese, John Millington Synge. A Parigi aveva incontrato William Butler Yeats, di qualche anno più vecchio ma già famoso, che gli dette uno di quei consigli che rivoluzionano la vita di un uomo: vai alle isole Aran, ci troverai una vita non ancora espressa in letteratura.

Racconti di fate e testimonianze di vita semplice e tragica

Synge seguì il suggerimento del grande poeta e vi trascorse varie estati e autunni, intrecciando rapporti con gli abitanti, approfondendo la conoscenza del gaelico, raccogliendo racconti di fate e testimonianze di una vita semplice e tragica. Legò per sempre il suo nome a quest’ultimo lembo primitivo d’Irlanda e alle persone che ci vivevano divenendo il cantore dell’Irlanda rurale e primordiale, il drammaturgo paragonato ai greci per la profonda adesione al dolore umano. «Sono a Inishmore, seduto accanto a un fuoco di torba, e ascolto un mormorio in gaelico che sale da un piccolo pub verso la mia stanza», scrisse nell’incipit della sua raccolta di racconti Le isole Aran, pubblicata per la prima volta nel 1907. Tutte le sue opere teatrali sono ambientate o fortemente influenzate dal periodo che trascorse a Inishmore e in un’altra delle isole Aran, Inishman. Li descrisse come luoghi magici ma assai poco adatti per viverci, come avrebbe confermato anche un grande classico del documentario della prima metà del ’900, L’uomo di Aran del regista statunitense Robert Flaherty. Ancora oggi, è proprio ciò che manca a rendere Inishmore un’isola dal fascino senza tempo. Le macchine sono una rarità, ci si muove a piedi, in bicicletta o a bordo di piccoli pulmini guidati dagli abitanti. L’elettricità è arrivata soltanto negli anni ’70. Intorno al villaggio si scorgono poche casette colorate, due pub e poi i viottoli che serpeggiano fra ali basse di muretti di pietra a secco che disegnano strade e confini. Piccoli appezzamenti di pascolo, ampi spazi incontaminati e rovine di antichi monasteri che si ergono lontane dal frastuono degli uomini. « L’interesse supremo dell’isola – annotò ancora Synge - risiede nella strana concordia che esiste tra le persone e gli impersonali impulsi limitati ma potenti della natura che è intorno a loro». In questa terra ricca di leggende, di silenzio e di echi letterari e cinematografici vivono oggi poco più di settecento abitanti fieri della loro storia e delle loro tradizioni. Due secoli fa erano circa tre volte tanti ma poi le carestie dell’Ottocento e le durissime condizioni di vita avrebbero costretto molti di loro a partire per non fare più ritorno. Gli odierni abitanti sono dediti a un turismo lento, sostenibile e rispettoso dell’ecosistema naturale. Quelle che incrociamo sono persone ospitali che salutano ancora alzando tre dita della mano, quasi per benedire, come facevano gli antichi monaci che si rifugiarono qui a meditare in cerca di silenzio e di spiritualità.

Hollywood è tornata agli "Spiriti dell'isola"

Un anno fa Hollywood si è affacciata di nuovo: il regista britannico Martin McDonagh vi ha portato il set del suo film candidato a nove Oscar, Gli spiriti dell’isola. Poi i riflettori si sono spenti di nuovo e la vita è tornata a scorrere come prima. Visitare quest’isola, oggi, è come risalire alle radici di un’esistenza che coinvolge solo i principi fondamentali: il confronto con un territorio ancora selvaggio in un fazzoletto di terra immutato da secoli, il rude contatto con una natura violenta che supera ogni immaginazione e può mettere i brividi, il ricordo di una lotta impari con il mare che in passato vedeva quasi sempre l’uomo soccombere. «Molti sono stati inghiottiti dalle acque dell’oceano in tempesta, che in alcuni casi non hanno neanche restituito i loro corpi », racconta un artista locale, Cyril Flaherty, indicandoci una serie di monumenti allineati di fronte al mare e sormontati da piccole croci. Tristi cenotafi senza nome, eretti in memoria di questi Malavoglia del nord. È lui ad accompagnarci in un paesaggio lunare che evoca quadri, poesie e un passato leggendario. Un paesaggio solcato da torbiere, minuscoli rivoli d’acqua e un terreno che è una lastra di pietra naturale. «Coltivarlo potrebbe sembrare un’impresa impossibile ma la gente del posto ha imparato da secoli a rendere fertile anche la pietra, collocandoci sopra uno strato di sabbia e alghe marine», ci spiega. Nella parte settentrionale dell’isola, però, non si incontra anima viva. I sentieri di roccia si fanno sempre più impervi e cominciano a salire finché non si scorgono, quasi all’improvviso, i contorni del Dún Aengus, il più celebre dei forti preistorici delle isole Aran. Costruito durante l’Età del bronzo e risalente al I millennio a.C., è formato da una combinazione di quattro cinte murarie concentriche, con uno spessore che in alcuni punti raggiunge i quattro metri. In lontananza si avvertono rumori inquietanti che sembrano esplosioni. Solo all’interno delle mura ci si rende conto che il forte è affacciato su una scogliera di calcare a picco sull’Atlantico alta oltre un centinaio di metri. Quelle che sembravano esplosioni sono in realtà le onde che si infrangono violentemente sulla roccia. Dal promontorio l’oceano risuona cupo, non si può non provare un brivido di vertigine di fronte all’immensità della natura. A separarci dall’abisso non c’è neanche una spalliera di protezione.

Sulla scogliera le grotte dei druidi

Un tratto di scogliera sotto al Dún Aengus è stato denominato “Wormhole” (“buco del verme”) perché è formato da ampie grotte scavate nei secoli dall’incessante forza delle acque. La posizione del forte suggerisce che la sua funzione principale non fosse di natura militare bensì religiosa e cerimoniale. Si pensa che sia stato usato dai druidi, gli antichi sacerdoti dei Celti, per riti stagionali. Lo scrittore Liam O’Flaherty – che nacque qui nel 1896 – scrisse: «quest’isola ha il carattere e la personalità di un Dio muto. Si è intimoriti dalla sua presenza, si respira la sua aria. Su di essa aleggia un senso travolgente di grande, nobile tragedia. L’instabilità della vita nell’isola trasforma gli amici in nemici e i nemici in amici con sorprendente rapidità». Quasi una metafora della guerra civile, che anticipa la trama del film Gli spiriti dell’isola.

avvenire.it

- Segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone e Albana Ruci turismoculturale@yahoo.it

Arte. Chiara Dynys: vivere la soglia


La piazza del Mart ha una nuova “porta”. Al centro della fontana si innalza una grande struttura di metallo coperta d’oro, perno attorno a cui ruota “L’ombra della luce”, focus espositivo che il museo di Rovereto dedica a Chiara Dynys, da oggi fino al 27 agosto 2023. Giuseppe Panza di Biumo ha scritto che “Chiara Dynys è un’artista della luce. Ha scelto di lavorare con l’impalpabile sostanza che è pura energia, ma che non è solo energia, diventa qualcosa che ci scalda, ci fa vedere il mondo”. A lui l’artista ha dedicato Giuseppe’s Door, una “porta” che ora diventa in varie declinazioni protagonista del progetto per il museo roveretano, dove tra l’altro è presente anche Giotto Behind the Mirror, installazione parte della mostra “Giotto e il Novecen-to”, prorogata fino al 1° maggio. La soglia e la luce sono i temi cardine dell’artista di origini mantovane, protagonista di una carriera internazionale che l’ha vista esporre dal Musée d’Art Moderne di Saint-Étienne al Centre d’Art Contemporain di Ginevra, dalla Städtische Galerie di Stoccarda fino al Kunstmuseum di Bonn, il Museo del Novecento di Milano e la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma oltre che Villa e Collezione Panza di Varese. Un percorso iniziato nella seconda metà degli anni 80: « In quell’epoca in Italia eravamo pochissime artiste. Se si scorrono i cataloghi delle retrospettive sull’arte di quegli anni non troverà altri nomi oltre al mio. Le donne della mia generazione hanno iniziato ad apparire negli anni 90, quando le cose sono iniziate a cambiare. E per quanto riguarda generazioni precedenti c’erano grandi artiste ma isolate e in numero circoscritto: penso a Carla Accardi, Dadamaino, Grazia Varisco, Giosetta Fioroni».

Come è iniziato il suo lavoro sulla soglia?

Il punto di partenza è stata la pittura. Costruivo i colori manualmente, usando pigmenti, cere sciolte, resine bicomponenti, la sabbia ferrosa di Baratti, lo zolfo. Grandi campiture dipinte a terra. Fin dai primi lavori c’era l’idea della soglia, dell’apertura, con la luce che emerge oltre e attraverso le forme. Poi ho cominciato a sagomare le tele e quindi a estrofletterle: lavori di grandi dimensioni che ora sono nei musei europei. Sono passaggi ispirati all’antro della Sibilla a Cuma, un luogo per me magico: un corridoio con un continuo reiterarsi di forme trapezoidali in una alternanza di buio e luce.

Sono lavori in cui la soglia acquisisce densità. Nei vetri intrisi di luce delle Giuseppe’s Door è molto evidente.

La soglia è il punto in cui coincidono inizio e fine, partenza e ritorno. La soglia è il luogo, la condizione. È la nostra stessa esperienza. Sono soglie anche le piccole feritoie, ognuna di un bianco e di un materiale diverso, che ho portato al museo di St. Etienne.

Lei ha praticato il cinema e ha fatto riferimento alle precoci visioni cinematografiche accanto a sua madre, che si occupava di critica cinematografica. Come l’esperienza del cinema, che è come un grande attraversamento, ha agito alla base della sua poetica?

La mia idea della soglia, del cono ottico, è legatissima al cinema. Mia madre visionava film e con lei ho visto da bambina i film di Ingmar Bergman: forse in un’età un po’ precoce… però il mio immaginario si è sviluppato in una direzione metafisica. E per questo il mio attraversamento non è un semplice passaggio di luogo fisico, un andare da un luogo a un altro, ma è un attraversamento intimo, spirituale. È lo stesso che accade durante la visione di un grande film o la lettura di un grande romanzo. Si fa un salto, si va oltre. Si cambia.


La cornice di solito serve a separare l’immagine dal muro, lei la trasforma nel luogo del passaggio.

Quella che chiamiamo cornice diventa una stanza. Per me è importantissima. Le “cornici” dei miei lavori sono fusioni in metacrilato, luminescenti, trasparenti o traslucide. Sono parte del lavoro, le costruisco in un pezzo unico perché devono essere una scultura che porta all’interno di un mondo. Non è un apparato estetico, è coessenziale al senso. È una fusione che ti assorbe, un condotto che ti risucchia in un universo. Come il corridoio della Sibilla. In questo senso mi hanno influenzato i primissimi lavori di Peter Halley a New York, a metà anni 80. Per me sono stati uno choc rivelatore. Vedendoli ho capito che anch’io con il mio linguaggio avrei immaginato una luce in fondo al tunnel.

Nei suoi libri aperti su cui sono scritte coppie di parole il passaggio non esiste fisicamente ma è percepibile nella tensione che si instaura tra gli opposti. Che cos’è per lei il reale?

Le rispondo con una frase di William Blake, che mi ha fatto conoscere Margaret Mazzantini e mi corrisponde in tutto e per tutto: “I contrari sono ugualmente veri”. Dove trovo il passaggio tra le parole, tra queste due contrapposizioni? Io costruisco su questi libri un rapporto dialettico tra due significati semplici, primari. Parole e frasi che arrivano dirette. “Tutto / Niente”. “Terra / Mare”. Sono contrapposti che si completano in una sola immagine, una visione unitaria. E concreta.

In Gold Shell la presenza dell’oro accentua il valore sacro della soglia.

Quando si muore forse si va nella luce, ma certamente arriviamo nel mondo uscendo alla luce dal grembo protetto in un buio acquatico. La luce pervade tutto ed è indifferente a tutto, mentre noi non possiamo essere indifferenti nei suoi confronti. Ho usato l’oro già nelle prime opere a New York. È il colore della luce, del divino, del sacro. L’oro è una espressione dell’andare oltre. L’ho usato insieme al vetro nell’installazione I camini delle fate, proposta a Villa Panza nel 2021, ispirata a cenobiti eremitici in Cappadocia, un luogo mistico dove da questo mondo si pensa all’altro. Sono dorate le cornici dei miei trittici dedicati all’infanzia in Libano. L’ho impiegato insieme alle superfici specchianti nei monoliti del mio San Sebastiano, nell’opera che ho dedicato a Giotto, esposta al Mart, nell’installazione dedicata al San Nicola di Piero della Francesca al Poldi Pezzoli, nel 2013… Con il mio lavoro intendo trasmettere una grande energia, mostrare come la nostra finitezza possa incontrarsi con una delle grandi forze dell’universo senza, per così dire, uscirne “con le ossa rotte”: la nostra cronaca appartiene per un pezzetto infinitesimo a quell’infinito. La nostra storia, anche la storia dell’arte, in qualche momento tocca quell’infinito. Le forme aspirano ancora una volta a quell’infinito. E qual è l’infinito più accessibile per un artista se non la luce?
avvenire.it

Ponti di primavera, è boom per le città d’arte che fanno il pieno anche di stranieri

Per il lungo ponte di primavera gli italiani si mettono in viaggio. Fino al 1° maggio i dati del settore alberghiero mostrano una crescita esponenziale di turisti italiani: il 65% delle prenotazioni del periodo arrivano dalla clientela domestica.

Non mancano gli stranieri con un trend positivo che continua ininterrotto ormai da molti mesi. Numerose le presenze dall’Europa, francesi e tedeschi, inglesi, svizzeri e spagnoli ma sul podio troviamo sempre il turismo americano che dalla fine del covid sta generando numeri eccezionali, ben oltre i livelli precrisi. Ma risposte positive arrivano anche da altri mercati come il Brasile che sta ricominciando a muovere numeri importanti e dai primi segnali di ritorno dei turisti cinesi.

In termini di occupazione camere questo si traduce in oltre il 90% di occupazione a Venezia, 85% a Roma seguita da Firenze con un buon 75%. È interessante anche il risultato di Milano e Torino con rispettivamente il 67 e il 65% delle camere prenotate.

Nel solco della tradizione buono anche il risultato delle aree interne, trainate dall’Umbria che raggiunge l’80% di occupazione camere anche se con una permanenza molto breve nei soli periodi delle festività.

“Nessuna sorpresa dai ponti di primavera – commenta Maria Carmela Colaiacovo, presidente di Associazione Italiana Confindustria Alberghi – si conferma il trend positivo che ha animato tutto il periodo da quando le restrizioni imposte dal covid sono finite nel maggio dello scorso anno. Le presenze alberghiere nei prossimi 10 giorni vedono dei picchi ulteriori determinati dalla combinazione favorevole delle festività che muovono il turismo interno, ma quello che ci fa ben sperare in prospettiva è la tenuta e la continuità del turismo internazionale che dimostra, in questo momento, una particolare attenzione verso il nostro Paese. Un’opportunità che dobbiamo e vogliamo cogliere per consolidare anche il mercato dei prossimi mesi regalando a questi viaggiatori un’esperienza di accoglienza made in Italy da raccontare”.

travelnostop.com

Expo 2030: gli ispettori promuovono Roma, "troppo bella"

AGI - Una promozione in piena regola che lancia Roma nella difficile corsa per Expo 2030: è positivo il bilancio degli ispettori del Bie dopo cinque giorni di incontri e sopralluoghi nella Città Eterna. Un punto debole? "Roma è troppo bella, sarà difficile per le altre città competere con Roma", ha risposto con un sorriso il segretario generale del Bie, Dimitri Kerketzes, che ha accompagnato nella visita i quattro ispettori, "al Bie siamo felici perchè abbiamo una candidatura che sarà un punto di riferimento per il futuro".

Al di là dei convenevoli di rito, il funzionario greco nato a Londra ha lanciato segnali importanti come quello che si terrà conto anche dei diritti umani e del trattamento dei lavoratori, tallone d'Achille di Riad, la più temibile rivale di Roma. "Ci sono stati eventi che hanno avuto una cattiva pubblicità in passato, ma per Expo 2030 tutti i governi devono indicare questo aspetto nell'organizzazione", ha sottolineato.

Lo spettacolo di luci al Colosseo 

La visita è stata "molto efficiente e ben organizzata", ha confermato il presidente della delegazione del Bie, il kazako Murager Sauranbayev, nel punto stampa di Mercati di Traiano. Dal sopralluogo a Tor Vergata (il cui "sviluppo permetterà di servire anche dopo un'area molto ampia con un ospedale e l'università", è stato annotato) allo spettacolo di luci con 500 droni al Colosseo, gli ispettori sono apparsi molto colpiti dal modo in cui Roma si è presentata. Lo show ai Fori Imperiali "è stata una cosa da togliere il fiato, questo dimostra la cultura che potete offrire in Italia e quello che potrete fare nel 2030", ha osservato Kerketzes.

Con Roma si sono completate le ispezioni nelle quattro città candidate: le altre sono Riad, la sudcoreana Busan e l'ucraina Odessa (in quel caso c'è stata una videoconferenza a causa della guerra). Sulla base delle relazioni degli ispettori, entro la prima decade di maggio il Comitato esecutivo del Bie deciderà quali candidature possono andare avanti. Poi il 20 giugno si farà il punto all'Assemblea generale che darà il via alla volata finale verso il voto dei 171 Stati membri a novembre.

Massolo: "Abbiamo un progetto forte e condiviso"

"È andata bene", ha assicurato il presidente del Comitato Promotore di Expo 2030, Giampiero Massolo, "credo che siamo riusciti a dimostrare che abbiamo un progetto solido, sostenibile, soprattutto condiviso dalle autorità nazionali, locali, dalle forze politiche di maggioranza e opposizione, dalle forze sociali e soprattutto dell'opinione pubblica e dalla società civile". Una compattezza che non può riguardare altre candidature e che fa del progetto italiano "l'Expo della libertà, dell'inclusione e del lavorare insieme".

"La visita è stata un grande successo", ha esultato il sindaco Roberto Gualtieri, "Roma è pronta e perfettamente all'altezza di organizzare e ospitare un evento di portata mondiale come Expo 2030".

Massolo non si è sbilanciato in previsioni ma ha lanciato un appello ai partner europei, alcuni dei quali come Francia e Grecia sarebbero orientati a votare per Riad: "Abbiamo, e siamo forti di questo, il sostegno delle istituzioni europee. Io spero che chi ora dà la propria preferenza ad altri possa ricredersi per tempo, perchè voterebbe per un progetto valido, nell'interesse non solo dell'Italia ma dell'Europa intera", ha detto l'ex segretario generale della Farnesina. 

Nuovi investimenti sulla cultura per una società «neo-umanista»


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Italia ha  bisogno oggi più che mai di potersi riconoscere in un patrimonio storico e artistico senza pari, rilanciando i consumi culturali

Nel serrato dibattito degli ultimi mesi sulle politiche pubbliche, reso più vivace dalla nascita di un governo di destracentro con ampia maggioranza parlamentare e una premier donna, si deve registrare una Grande Assente: la Cultura. Per la verità, in un’epoca di emergenze continue e gravi che fanno parlare ormai abitualmente di “permacrisi” (ovvero di crisi permanente), era piuttosto prevedibile. Di fronte alla confluenza di gravi problematiche di salute pubblica, economiche, belliche, dunque attinenti la sopravvivenza stessa e i bisogni primari, la cultura passa inevitabilmente in secondo piano. “Di cultura non si vive”: molte persone impegnate nei diversi settori culturali amaramente sottoscriverebbero tale affermazione; “la cultura non si mangia”, aggiungerebbero con un pizzico di cinismo beffardo altri, non troppo sensibili al fascino dell’arte, della musica, della letteratura.

A questo punto sarebbe facile per contrappasso sposare una posizione vivacemente antitetica, che andava assai di moda sul finire degli anni Ottanta del Novecento: “di cultura si vive, eccome”, se solo sapessimo mettere a frutto i giacimenti culturali di un Paese che – questo lo slogan di allora ripetuto allo sfinimento – è «un museo a cielo aperto ». I meno giovani ricorderanno questo tipo di argomentazione, che in alcuni casi suonava quasi come un invito alla riscossa per tutti gli operatori dei diversi settori culturali: musei, siti archeologici, enti lirici, teatri. Sembrava fosse stato scoperto il petrolio italiano fatto di colonne, mosaici e statue, accatastati senza rispetto in armadi polverosi nei sotterranei dei grandi musei. Per un po' si continuò a pensare che bastasse tirarli fuori, sottrarli alla occhiuta, gelosa ed escludente custodia degli storici dell’arte, mapparli, aggiungervi un po’ di cosiddetti “servizi aggiuntivi” (caffetterie, angoli riposo, ristorantini) e la nostra economia sarebbe volata.

Naturalmente così non è andata. Il grande lancio della commercializzazione della cultura naufragò presto sulle prime inefficienze e contraddizioni. I mecenati (grandi imprese in cerca di lustro) snobbavano tlo spettacolo dal vivo (troppo effimero, transeunte, per lucidare un blasone-brand) a favore del restauro di un bene archeologico, immutabile, immobile da secoli, e dunque stabile ritorno pubblicitario per l’azienda che ne avesse finanziato il recupero. Lo strumento della fiscalità non riuscì a rafforzare più di tanto l’azione dei mecenati, e anche quella si rivelò una bolla. Altre fragilità e disorganizzazioni fecero il resto: come quando per bando pubblico si affidarono a diverse aziende informatiche grandi progetti di mappatura dei beni esistenti, che non riuscivano però a dialogare attraverso le banche dati approntate dato che i linguaggi e i programmi utilizzati erano differenti…

La cultura non mise le ali all’economia né in quegli anni Ottanta né nei decenni che seguirono, anche perché i problemi erano e sono molto più complessi; a cominciare da strade e infrastrutture mancanti. Paradigmatico il caso della Sicilia, che gronda siti archeologici di bellezza incomparabile ma ancora oggi ha un sistema di collegamenti e di viabilità che esclude ogni possibilità di accesso concreto a molte di tali archeo-meraviglie. E tuttavia forse non fu questa la sola debolezza di un rilancio che voleva tradurre in oro luccicante e sonante i vecchi gioielli di famiglia. Ai nostri giorni le cose non vanno molto meglio, se nei programmi elettorali delle recenti elezioni politiche la cultura ha ottenuto poca o nessuna attenzione, con affermazioni e propositi generici, senza indicazioni chiare delle risorse finanziarie per i diversi interventi, con la solita oscillazione tra quanti vogliono più ruolo per il pubblico e quanti preferirebbero mettere tutto in mano ai privati. È forse giunto, perciò, il momento propizio per parlare di politiche culturali con un occhio più evoluto, che del passato sappia fare tesoro aggiungendo però una consapevolezza nuova, figlia dei nostri tempi così liminali, così disorientanti, che ci stanno traghettando in un altro mondo, in un’altra epoca, in cui senza bussole sarà certamente più facile perdersi.

Finora nel nostro Paese il mondo delle politiche culturali nei diversi settori è stato affrontato facendo riferimento ad alcuni paradigmi concettuali. Anzitutto la conservazione, tipica dell’approccio degli storici dell’arte, interessata soprattutto alla preservazione del bene. Successivamente, come accennato sopra, si è affermata l’idea della promozione-valorizzazione-commercializzazione, figlia in parte di un democratico desiderio di portare la cultura alle masse, in parte del più concreto desiderio di mettere a frutto capitelli e dipinti. Dal punto di vista strettamente politico è prevalso troppo spesso, invece, un paradigma elettoral-assistenzialistico: non a caso gli enti lirici hanno sempre assorbito buona parte del Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus) potendo vantare numerosi addetti (maestranze, elettricisti, costumisti ecc.) e dunque un buon bacino di consenso potenziale.

Ma oggi molte cose sono cambiate, anche nella percezione delle istituzioni della cultura, per lo meno in ambito internazionale. I libri, il teatro, le mostre entrano in maniera più o meno codificata e a buon diritto nel paniere che definisce il benessere dei diversi Paesi. O, quantomeno, si riscontra che i Paesi che risultano in cima alle classifiche della felicità attribuiscono ai consumi culturali un grande posto nel modo di occupare il cosiddetto tempo libero (concetto anche questo in via di ridefinizione). Pensiamo alla Finlandia che da anni è in testa alla classifica della felicità dei Paesi («Sustaineble Development Solution Network», World Happiness Report 2022) e che si basa su uno stile di vita che potremmo definire da “giovane colto” (muoviti, studia, leggi, vivi la cultura, vivi la natura, ama, condividi, ricerca) anche per i pensionati, che trovano occasioni culturali in situazioni di prossimità domestica. Quanto ai giovani veri e propri, hanno facilmente a disposizione in piccoli centri distribuiti territorialmente il necessario per produrre le loro intuizioni musicali, registrarle e metterle in rete, in modo da avere occasioni concrete di farsi conoscere. Purtroppo l’Italia non è neanche sulla scia di questo modo di vivere “giovanile e colto”. Sempre nello stesso Rapporto, l’Italia perde ulteriori postazioni e passa dal 25° al 31° posto.

Nonostante la ritrovata normalità e l’accelerazione dell’estate 2022 nella fruizione di eventi e spettacoli dal vivo, i consumi culturali sono ancora lontani dai livelli pre-Covid e risalgono lentamente. L’indice realizzato da Impresa Cultura Italia-Confcommercio e Swg ha raggiunto nei primi 9 mesi del 2022 i 68 punti (+9 sul 2021 e +12 sul 2020), distante però più di 30 punti dal valore di riferimento del 2019. Valori di riferimento che non erano certo stellari. Dalla crisi di antica data del comparto culturale, accentuata oggi da un’emergenzialità globale, è possibile però, per dirla con il sociologo Mauro Magatti, trarre una lezione generativa, che non resti impantanata nelle contraddizioni della politica culturale nel nostro Paese, ma da esse tragga una provocazione e uno stimolo potente a ripensarsi alla luce del cambiamento d’epoca in una nuova centralità. Il mondo della cultura nei suoi diversi comparti non ha mai avuto, come in questi tempi di mutazione velocissima, di fronte a sé una sfida più entusiasmante, più nobile e fondativa.

Oggi, come ha argomentato Stefano Zamagni su “Avvenire” del 13 gennaio 2023, uno dei problemi sociali più importanti che emergono all’orizzonte è fornire una risposta solida alla posizione transumanista, sostenuta dai colossi dell’high tech, che si propone non tanto il potenziamento ma il superamento di ciò che è umano nell’uomo. Il progetto che si può contrapporre con forza a questa tesi è quello neoumanista, sostenuto anche dalla Chiesa, la cui culla è proprio l’Europa. Un neo-umanesimo che nella libera espressione creativa da una parte e nel nutrimento, nella fruizione culturale dall’altra trova la sua espressione più vera. Un progetto che ricordi all’Uomo, che si è perso e non sa più chi egli sia, che non è fatto solo di materia e conoscenza razionale (su queste basi l’intelligenza artificiale sta dilagando in modo anche inquietante e potrebbe essere assai competitiva in poco tempo) ma di emozioni, sentimenti, motivazioni, valori, creatività, intuizioni, etica, responsabilità, dubbi, ripensamenti, e tanto altro: il “codice dell’anima”, come avrebbe detto Hillmann. Il talento indomabile di poeti, scrittori, pittori, musicisti interpreta nelle loro anime all’eterna ricerca del Bello e del Vero il mistero insondabile dell’umano e della sua perenne domanda di senso. A una distruttiva, robotica barbarie transumanista può essere argine roccioso e inespugnabile la loro umanità caparbia, intensa e inquieta.

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