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Museo d'Arte per bambini supera visitatori prima del Covid

 - Aumentano le presenze al Museo d'arte per Bambini di Siena che nei primi quattro mesi dell'anno ha segnato un incremento dei visitatori anche rispetto allo stesso periodo del 2019, prima del Covid. Da gennaio ad aprile 2023 il numero ingressi è stato di 2.974 visitatori da tutta Italia.

Effettuate 150 attività educative e didattiche. Nello stesso periodo del 2019 i biglietti furono 2572. Il Museo d'Arte per Bambini offre 15 proposte diversificate per le scuole e le famiglie in base alle fasce di età. Previsti progetti rivolti al pubblico fragile e alle scuole medie e superiori. "L'offerta didattica del Museo d'arte per Bambini nasce dalla necessità di coltivare un dialogo diretto con il mondo della scuola - spiega Michela Eremita - L'obiettivo principale è rendere gli studenti protagonisti dell'esperienza museale, stimolando la loro curiosità conoscitiva ed esperienziale mediante la proposta di contenuti mirati e attività laboratoriali dedicate".
    L'offerta è stata suddivisa in aree a tema (Collezione Museo d'arte per bambini, Santa Maria della Scala, Museo Archeologico Nazionale, Collezione Piccolomini-Spannocchi e alcune delle Mostre temporanee) che corrispondono agli ambienti museali con la loro specifica offerta artistica". Il Museo nasce a Siena nel 1998 e fin da subito si è affermato con iniziative dedicate al mondo dei ragazzi. Dal 2007 si è trasferito al Santa Maria della Scala. "Ai bambini e alle famiglie sono dedicate attività a tema che permettono di scoprire differenti aspetti del complesso museale - racconta Eremita -. L'offerta è pensata per consentire ai genitori di vivere gli spazi insieme ai figli con visite interattive, giochi e attività di laboratorio dove sperimentare tecniche artistiche". Un altro aspetto particolarmente importante è dedicato alla cura e alla progettazione di percorsi interamente rivolti a persone in situazioni di disabilità e, più in generale, alle categorie fragili. (ANSA).
   

Il progetto a Lucca. Arte e fede, il "tesoro" dei martiri del Giappone


Interpretare la cultura cristiana in Giappone è un percorso accidentato: ogni ragionamento analitico di stampo cartesiano è destinato a cercare invano spiegazioni razionali per situazioni che trovano invece radici profonde nell’invisibile. Entrare in dialogo con la cultura cristiana nel Sol Levante significa confrontarsi con una realtà complessa, in cui non si trova un soggetto che funga da centro dominante, ma convivono una pluralità di situazioni, con sensazioni, emozioni e percezioni che cambiano in relazione al modo in cui ciascun individuo percepisce in un dato momento, chi si trova dinanzi e il luogo in cui si colloca. Tutto ciò che a noi occidentali appare come una condizione statica, costituisce invece un processo dinamico, proprio della tradizione culturale giapponese, radicato nello strettissimo rapporto con la natura e la comunità. La comprensione della cultura cristiana in Giappone presenta pertanto difficoltà interpretative; del resto con questo stesso problema si sono confrontati i numerosi missionari occidentali che a partire dalla metà del XVI secolo sono giunti nel grande arcipelago “dove sorge il sole”. Il geografo tedesco Ferdinand von Richthofen (1833-1905) nell’opera Tagebucher aus China (1877), descrive come il primo incontro tra Oriente e Occidente avvenne lungo la Via della Seta, rete di strade che si stendevano dai paesi dell’area Mediterranea a tutto il continente asiatico, deviando anche nel sud dell’India e raggiungendo talvolta il Giappone. Su queste rotte alcuni Italiani compirono imprese epiche, come quella di fra Giovanni da Pian del Carpine, francescano umbro, che nell’aprile 1245, su incarico di papa Innocenzo IV, iniziò il suo itinerario in Oriente per convertire i mongoli; come il viaggio dei commercianti veneziani Matteo e Niccolò Polo e del figlio di quest’ultimo, Marco; come le eroiche avventure del gesuita abruzzese Alessandro Valignano, che arrivò in Giappone nel 1579, e del domenicano Angelo di Bernardino Orsucci, nato a Lucca l’8 maggio 1573 e morto martire a Nagasaki nel 1622. Questi primi incontri hanno creato i presupposti per instaurare una prima importante “rete di scambi”; i rapporti da essi inaugurati hanno fatto sì che la Via della Seta sia ancora rimasta come sinonimo storico dell’incontro tra Occidente e Oriente.
Già alla fine del XVI secolo diversi missionari italiani avevano intrapreso spedizioni oltreoceano; tra questi anche l’Orsucci: dopo lunghe permanenze tra Messico e Filippine, nell’agosto del 1618 era giunto a Nagasaki per soccorrere le comunità locali, sottoposte a feroce persecuzione. L’editto emanato da Toyotomi Hideyoshi il 24 luglio 1587 aveva anche bandito i missionari cristiani, onde evitare che diffondessero la loro “perniciosa dottrina”. Nonostante i numerosi tentativi di dialogo intrapresi dagli ordini religiosi presenti in Giappone, supportati anche dalle lettere che giungevano dalla Santa Sede, il martirio (attraverso crocifissioni o raffinate forme di tortura) fu l’unico esito del contrasto dei signori feudali giapponesi con le comunità cristiane. Ebbe da qui inizio il lungo cammino del “cristianesimo nascosto”, che in parte continua ancora oggi, nonostante le proibizioni siano state abolite nel 1873 dall’imperatore Meiji. Nel 2018 il valore immateriale di questa straordinaria eredità religiosa è stato riconosciuto Patrimonio dell’Umanità. Trascorsi 470 anni dalla morte di Francesco Saverio (1552-2022), 400 anni dalla sua canonizzazione e dal martirio di Angelo Orsucci (1622-2022), a pochi anni dal viaggio apostolico di sua santità Francesco in Giappone (novembre 2019), il progetto “Thesaurum Fidei. Missionari martiri e cristiani nascosti in Giappone: 300 anni di eroica fedeltà a Cristo” ripercorre il complesso e travagliato cammino del “cantiere missionario” nel Sol Levante. Promosso dall’arcidiocesi di Lucca all’indomani del viaggio diocesano nella prefettura di Nagasaki (settembre 2022), intende ridare voce a quanti hanno donato la propria vita per la fede e la diffusione del Vangelo in Giappone, attraverso un convegno storico e una mostra, visitabile in questo mese di maggio. “Thesaurum fidei” darà modo di approfondire gli studi e di far conoscere al grande pubblico l’opera religiosa e diplomatica svolta dai missionari che, pagando anche con la vita, hanno consentito di tessere un filo che, più forte che mai, continua ad unire il mondo intero. Sarà presentata anche la straordinaria esperienza evangelica dei kakure kirishitan (cristiani nascosti), durata 250 anni (sette generazioni) e capace di tramandare la fede cattolica e la memoria dei màrtiri e dei luoghi degli imprigionamenti e delle uccisioni. Tutto ciò aiuterà a riflettere sul valore e sul significato che il cristianesimo ha avuto ed ha oggi nel Sol Levante, e sulle prospettive dell’azione evangelizzatrice che ancora continua, attraverso tanti missionari laici e religiosi, impegnati a diffondere la parola di Cristo.
avvenire.it

- Segnalazione web a cura di https://viagginews.blogspot.com

Reportage. Isole Aran: poesia dai confini del mondo

Nell’isola ai confini del mondo è facile smarrire del tutto la concezione del tempo. Da quando il traghetto molla gli ormeggi dal porticciolo di Rossaveel, immerso nelle nebbie eterne del Connemara, l’orologio segna tre quarti d’ora di traversata per raggiungere Inishmore, la più grande delle isole Aran. Ma forse è un’illusione, perché in questa striscia di roccia calcarea sferzata dal vento e sperduta nell’Atlantico il tempo sembra essersi fermato. Gli abitanti più anziani la chiamano ancora Inis Mór, e ricordano l’epoca in cui era considerata l’ultima roccaforte della cultura gaelica contro l’anglicizzazione dell’Irlanda. Una terra che dette i natali al più grande poeta in lingua irlandese, Máirtín Ó Direáin, e poi allo scrittore Liam O’Flaherty, l’illustre esponente del Rinascimento irlandese che sull’isola ambientò molti suoi romanzi. Al volgere del XIX secolo vi mise piede per la prima volta anche un drammaturgo dai baffi cadenti e dall’aria malinconica che sarebbe diventato uno dei grandi del teatro irlandese, John Millington Synge. A Parigi aveva incontrato William Butler Yeats, di qualche anno più vecchio ma già famoso, che gli dette uno di quei consigli che rivoluzionano la vita di un uomo: vai alle isole Aran, ci troverai una vita non ancora espressa in letteratura.

Racconti di fate e testimonianze di vita semplice e tragica

Synge seguì il suggerimento del grande poeta e vi trascorse varie estati e autunni, intrecciando rapporti con gli abitanti, approfondendo la conoscenza del gaelico, raccogliendo racconti di fate e testimonianze di una vita semplice e tragica. Legò per sempre il suo nome a quest’ultimo lembo primitivo d’Irlanda e alle persone che ci vivevano divenendo il cantore dell’Irlanda rurale e primordiale, il drammaturgo paragonato ai greci per la profonda adesione al dolore umano. «Sono a Inishmore, seduto accanto a un fuoco di torba, e ascolto un mormorio in gaelico che sale da un piccolo pub verso la mia stanza», scrisse nell’incipit della sua raccolta di racconti Le isole Aran, pubblicata per la prima volta nel 1907. Tutte le sue opere teatrali sono ambientate o fortemente influenzate dal periodo che trascorse a Inishmore e in un’altra delle isole Aran, Inishman. Li descrisse come luoghi magici ma assai poco adatti per viverci, come avrebbe confermato anche un grande classico del documentario della prima metà del ’900, L’uomo di Aran del regista statunitense Robert Flaherty. Ancora oggi, è proprio ciò che manca a rendere Inishmore un’isola dal fascino senza tempo. Le macchine sono una rarità, ci si muove a piedi, in bicicletta o a bordo di piccoli pulmini guidati dagli abitanti. L’elettricità è arrivata soltanto negli anni ’70. Intorno al villaggio si scorgono poche casette colorate, due pub e poi i viottoli che serpeggiano fra ali basse di muretti di pietra a secco che disegnano strade e confini. Piccoli appezzamenti di pascolo, ampi spazi incontaminati e rovine di antichi monasteri che si ergono lontane dal frastuono degli uomini. « L’interesse supremo dell’isola – annotò ancora Synge - risiede nella strana concordia che esiste tra le persone e gli impersonali impulsi limitati ma potenti della natura che è intorno a loro». In questa terra ricca di leggende, di silenzio e di echi letterari e cinematografici vivono oggi poco più di settecento abitanti fieri della loro storia e delle loro tradizioni. Due secoli fa erano circa tre volte tanti ma poi le carestie dell’Ottocento e le durissime condizioni di vita avrebbero costretto molti di loro a partire per non fare più ritorno. Gli odierni abitanti sono dediti a un turismo lento, sostenibile e rispettoso dell’ecosistema naturale. Quelle che incrociamo sono persone ospitali che salutano ancora alzando tre dita della mano, quasi per benedire, come facevano gli antichi monaci che si rifugiarono qui a meditare in cerca di silenzio e di spiritualità.

Hollywood è tornata agli "Spiriti dell'isola"

Un anno fa Hollywood si è affacciata di nuovo: il regista britannico Martin McDonagh vi ha portato il set del suo film candidato a nove Oscar, Gli spiriti dell’isola. Poi i riflettori si sono spenti di nuovo e la vita è tornata a scorrere come prima. Visitare quest’isola, oggi, è come risalire alle radici di un’esistenza che coinvolge solo i principi fondamentali: il confronto con un territorio ancora selvaggio in un fazzoletto di terra immutato da secoli, il rude contatto con una natura violenta che supera ogni immaginazione e può mettere i brividi, il ricordo di una lotta impari con il mare che in passato vedeva quasi sempre l’uomo soccombere. «Molti sono stati inghiottiti dalle acque dell’oceano in tempesta, che in alcuni casi non hanno neanche restituito i loro corpi », racconta un artista locale, Cyril Flaherty, indicandoci una serie di monumenti allineati di fronte al mare e sormontati da piccole croci. Tristi cenotafi senza nome, eretti in memoria di questi Malavoglia del nord. È lui ad accompagnarci in un paesaggio lunare che evoca quadri, poesie e un passato leggendario. Un paesaggio solcato da torbiere, minuscoli rivoli d’acqua e un terreno che è una lastra di pietra naturale. «Coltivarlo potrebbe sembrare un’impresa impossibile ma la gente del posto ha imparato da secoli a rendere fertile anche la pietra, collocandoci sopra uno strato di sabbia e alghe marine», ci spiega. Nella parte settentrionale dell’isola, però, non si incontra anima viva. I sentieri di roccia si fanno sempre più impervi e cominciano a salire finché non si scorgono, quasi all’improvviso, i contorni del Dún Aengus, il più celebre dei forti preistorici delle isole Aran. Costruito durante l’Età del bronzo e risalente al I millennio a.C., è formato da una combinazione di quattro cinte murarie concentriche, con uno spessore che in alcuni punti raggiunge i quattro metri. In lontananza si avvertono rumori inquietanti che sembrano esplosioni. Solo all’interno delle mura ci si rende conto che il forte è affacciato su una scogliera di calcare a picco sull’Atlantico alta oltre un centinaio di metri. Quelle che sembravano esplosioni sono in realtà le onde che si infrangono violentemente sulla roccia. Dal promontorio l’oceano risuona cupo, non si può non provare un brivido di vertigine di fronte all’immensità della natura. A separarci dall’abisso non c’è neanche una spalliera di protezione.

Sulla scogliera le grotte dei druidi

Un tratto di scogliera sotto al Dún Aengus è stato denominato “Wormhole” (“buco del verme”) perché è formato da ampie grotte scavate nei secoli dall’incessante forza delle acque. La posizione del forte suggerisce che la sua funzione principale non fosse di natura militare bensì religiosa e cerimoniale. Si pensa che sia stato usato dai druidi, gli antichi sacerdoti dei Celti, per riti stagionali. Lo scrittore Liam O’Flaherty – che nacque qui nel 1896 – scrisse: «quest’isola ha il carattere e la personalità di un Dio muto. Si è intimoriti dalla sua presenza, si respira la sua aria. Su di essa aleggia un senso travolgente di grande, nobile tragedia. L’instabilità della vita nell’isola trasforma gli amici in nemici e i nemici in amici con sorprendente rapidità». Quasi una metafora della guerra civile, che anticipa la trama del film Gli spiriti dell’isola.

avvenire.it

- Segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone e Albana Ruci turismoculturale@yahoo.it

Expo 2030: gli ispettori promuovono Roma, "troppo bella"

AGI - Una promozione in piena regola che lancia Roma nella difficile corsa per Expo 2030: è positivo il bilancio degli ispettori del Bie dopo cinque giorni di incontri e sopralluoghi nella Città Eterna. Un punto debole? "Roma è troppo bella, sarà difficile per le altre città competere con Roma", ha risposto con un sorriso il segretario generale del Bie, Dimitri Kerketzes, che ha accompagnato nella visita i quattro ispettori, "al Bie siamo felici perchè abbiamo una candidatura che sarà un punto di riferimento per il futuro".

Al di là dei convenevoli di rito, il funzionario greco nato a Londra ha lanciato segnali importanti come quello che si terrà conto anche dei diritti umani e del trattamento dei lavoratori, tallone d'Achille di Riad, la più temibile rivale di Roma. "Ci sono stati eventi che hanno avuto una cattiva pubblicità in passato, ma per Expo 2030 tutti i governi devono indicare questo aspetto nell'organizzazione", ha sottolineato.

Lo spettacolo di luci al Colosseo 

La visita è stata "molto efficiente e ben organizzata", ha confermato il presidente della delegazione del Bie, il kazako Murager Sauranbayev, nel punto stampa di Mercati di Traiano. Dal sopralluogo a Tor Vergata (il cui "sviluppo permetterà di servire anche dopo un'area molto ampia con un ospedale e l'università", è stato annotato) allo spettacolo di luci con 500 droni al Colosseo, gli ispettori sono apparsi molto colpiti dal modo in cui Roma si è presentata. Lo show ai Fori Imperiali "è stata una cosa da togliere il fiato, questo dimostra la cultura che potete offrire in Italia e quello che potrete fare nel 2030", ha osservato Kerketzes.

Con Roma si sono completate le ispezioni nelle quattro città candidate: le altre sono Riad, la sudcoreana Busan e l'ucraina Odessa (in quel caso c'è stata una videoconferenza a causa della guerra). Sulla base delle relazioni degli ispettori, entro la prima decade di maggio il Comitato esecutivo del Bie deciderà quali candidature possono andare avanti. Poi il 20 giugno si farà il punto all'Assemblea generale che darà il via alla volata finale verso il voto dei 171 Stati membri a novembre.

Massolo: "Abbiamo un progetto forte e condiviso"

"È andata bene", ha assicurato il presidente del Comitato Promotore di Expo 2030, Giampiero Massolo, "credo che siamo riusciti a dimostrare che abbiamo un progetto solido, sostenibile, soprattutto condiviso dalle autorità nazionali, locali, dalle forze politiche di maggioranza e opposizione, dalle forze sociali e soprattutto dell'opinione pubblica e dalla società civile". Una compattezza che non può riguardare altre candidature e che fa del progetto italiano "l'Expo della libertà, dell'inclusione e del lavorare insieme".

"La visita è stata un grande successo", ha esultato il sindaco Roberto Gualtieri, "Roma è pronta e perfettamente all'altezza di organizzare e ospitare un evento di portata mondiale come Expo 2030".

Massolo non si è sbilanciato in previsioni ma ha lanciato un appello ai partner europei, alcuni dei quali come Francia e Grecia sarebbero orientati a votare per Riad: "Abbiamo, e siamo forti di questo, il sostegno delle istituzioni europee. Io spero che chi ora dà la propria preferenza ad altri possa ricredersi per tempo, perchè voterebbe per un progetto valido, nell'interesse non solo dell'Italia ma dell'Europa intera", ha detto l'ex segretario generale della Farnesina. 

Jovanotti, 'È un'epoca di passioni tristi viaggiare è militanza'

"Gli ultimi tre anni hanno cambiato la prospettiva.

Dopo la pandemia che è stata un trauma collettiva e personale era tempo di riformattare e di ripartire".

Jovanotti a fine gennaio, per un mese, è ripartito alla scoperta del Sud America in sella alla sua bici per Aracataca - Non voglio cambiare pianeta 2, ventidue puntate da 15 minuti dal 24 aprile in esclusiva su RaiPlay. Dall'Ecuador alla Colombia, dalle Ande all'Amazzonia e dall'Oceano alla mitica Macondo.
    "Una pedalata lunga 3500 km, 50mila metri di dislivello, tra salite e discese, foreste e cascate, sentieri e autostrade. Una pedalata alla volta, ce la faremo", racconta Jova del suo viaggio attraverso mari e oceani, villaggi e periferie, pueblos e città, tra musica, sorrisi, fatica e perseveranza. "Con la testa che si svuota e il cuore che fa il pieno. Ma tutto questo è anche sviluppo e ricerca della mia musica", racconta l'artista che ha consegnato 70 ore di girato, diventati un docu-trip in ventidue capitoli, come gli arcani maggiori dei tarocchi che lo hanno accompagnato giorno dopo giorno, realizzati in completa autonomia con action cam e cellulare. "Un racconto on the road come poteva esserlo l'Odissea... Non c'è nessuno che vince o che perde. E avanti, una pedalata alla volta ce la faremo - insiste - e se non ce la faremo, ce la farà quello dopo di noi, perché siamo l'uomo sapiens e si impara da quello che si fa". Un viaggio che, musicalmente, è continuato anche al ritorno "con una colonna sonora realizzata in soggettiva, sgangherata, sbagliata, ma che racconta bene quelle atmosfere. Ma non diventerà un disco". Fatica e sudore "e pensare che una volta i cantanti si drogavano, oggi si allenano - scherza Lorenzo Cherubini, da sempre attento alla forma fisica -. Ma i tour sono impegnativi e non ti puoi permettere di star male o di fermarti: hai un'industria intorno. Se dovessi scegliere un compagno di viaggio chiamerei Biagio (Antonacci, ndr). Anche Gianna Nannini è una sportiva pazzesca. Eros invece no, lui vuole stare comodo e mangiare italiano". Il titolo della serie (che avrà una trasposizione sulle reti generaliste perché "per me non c'è differenza tra le piattaforme e la televisione") riporta a Gabriel Garcia Marquez che ad Aracataca era nato. "E' una suggestione, un pretesto. La città di per sé non ha nessun motivo di interesse se non quello che tu proietti, è il luogo in cui ti sei formato e ognuno di noi ha la sua Aracataca. Per Fellini era Rimini, per Marquez era Aracataca, ovvero la Macondo di Cent'anni di Solitudine, quella che ha suggestionato anche me". Tre anni fa, in coincidenza con il primo lockdown la prima serie, sempre su RaiPlay, che ebbe nei primi 30 giorni 5,5 milioni di visualizzazioni e 600mila ore di visione, come sottolinea Elena Capparelli, direttrice di RaiPlay. Per Jovanotti, se Aracataca deve avere un obiettivo è solo uno: "quello di comunicare il senso dell'avventura. Prendete e partite, anche perché andare in bici è meno costoso che restare a casa - dice rivolgendosi soprattutto ai giovani -: in un'epoca di passioni tristi, per me opporsi a questo è una forma di militanza. Viviamo al centro di bombardamenti di notizie e ci sembra che il mondo ci raggiunga, ma al contrario raggiungere il mondo è necessario, perché altrimenti ti rende impotente rispetto al tuo potenziale di poterlo cambiare. Viaggiare rimane una delle grandi esperienza che l'essere umano può fare". E aggiunge: "Sono stati anni terribili per gli adolescenti, che vivono una sorta di stress post-traumatico. Ma non siate tristi, perché altrimenti sarete manipolabili: è la natura del potere.
    Non lo dico io, ma lo diceva Spinoza. E allora viaggiate, andate dove avete la sensazione di poter fiorire e non appassire".

ansa.it

Calvino, tour per i 100 anni tra Cirko Vertigo e sostenibilità 21 tappe da Zafferana Etnea a Cagliari, 1 luglio-15 settembre

ROMA - "Italo Calvino è stato un grande viaggiatore, prima involontario grazie al lavoro del papà botanico e poi per conto suo.

Non ha mai fatto nessuna separazione tra la vita e il lavoro e ha sempre continuato a pensare e creare contenuti. E' stato un grande 'impollinatore', ha esportato il marchio Italia nel mondo grazie alle sue opere che assieme a quelle di Primo Levi e Umberto Eco sono tra le più lette.

Per questo siamo felici di onorarlo nei 100 anni dalla nascita con un giro d'Italia in 80 giorni". Lo dice Paolo Verri, presidente della Fondazione Cirko Vertigo presentando l'iniziativa Calvino 100 - In cammino sul filo delle montagne dal 1 luglio al 15 settembre, progetto ideato e curato dal Cirko Vertigo e sostenuto in qualità di progetto speciale dal ministero della Cultura.

Un tour di 21 tappe con i meravigliosi artisti del circo contemporaneo, per lo più localizzate nei comuni montani d'Italia e nei borghi, ma che prevede anche alcune tappe nelle città e anche a Villa Torlonia a Roma. Attraverseranno l'Italia, a partire dal 1 luglio, dalla Sicilia, a Zafferana Etnea, fino alla tappa conclusiva in Sardegna presso l'Orto botanico di Cagliari. Quest'ultimo, racconta Verri, è proprio uno dei luoghi del cuore di Calvino visto che la mamma, Eva Mameli, è stata una delle scienziate più importanti del primo Novecento, pioniera della protezione della natura e prima direttrice donna dell'Orto botanico cagliaritano. Anche per questo durante il tour verranno messe a dimora più specie, ad esempio almeno un albero e un arbusto, e verranno seminate specie erbacee, tali da attirare varie specie animali, ricreando nel tempo un piccolo ecosistema. "Queste storie - dice - diventeranno residenti nei territori dove andremo, non arriveremo come un'astronave ma creeremo qualcosa in onore di Calvino e anche in onore del nostro Belpaese di cui dobbiamo essere orgogliosi". Si esplorerà e investigherà l'universo di Calvino, partendo dalla lettura di saggi e romanzi tra i quali "Le città invisibili", "Se una notte d'inverno un viaggiatore", "Le cosmicomiche" e "Lezioni americane".

"Come nuovi Palomar - dice ancora Verri - andremo in giro per l'Italia rintracciando tracce delle favole ma anche delle storie partigiane, facendo del nostro lavoro un metodo per un percorso di costruzione di senso nel rapporto tra artisti di circo e spettatori. Speriamo di essere in grado di ricostruire quel sentimento di comunità che animava Pin nel Sentiero dei nidi di ragno: una comunità non solo umana ma vegetale, capace di pensarsi e di viversi in un tempo lungo e diffuso". "All'effimero meraviglioso del circo contemporaneo si aggiunge una attività che genera valore e lascia tracce indelebili, una proposta culturale ampia e visionaria che consegna importanti semi per le giovani generazioni" aggiunge Paolo Stratta, direttore generale di Fondazione Cirko Vertigo, unico ente in Italia a rilasciare un diploma di Laurea triennale in circo contemporaneo equipollente in Dams (insieme a soli altri 7 nel mondo). Calvino 100 è realizzato da Cirko Vertigo in collaborazione con Uncem - Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani, Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari dell'Università di Torino e Ied - Istituto Europeo di Design, in partnership con Agis - Associazione Generale Italiana dello Spettacolo e con il sostegno degli sponsor Play Juggling, leader nel settore degli attrezzi per discipline circensi e Fresia Alluminio.

ansa.it

(Segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone e Albana Ruci - turismoculturale@yahoo.it)

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Cultura e spettacolo. Moretti a 69 anni torna a fare un film in cui recita nel ruolo di se stesso

Il 20 aprile esce nelle sale il nuovo film che sarà in concorso per la Palma d'Oro al 76esimo festival di Cannes. Il regista torna a fare un film in cui recita nel ruolo di se stesso, mettendosi a nudo e rispolverando le sue manie, idiosincrasie e insofferenze che lo hanno reso famoso e popolarissimo

AGI - “In ‘Il sol dell’avvenire’ ci sono temi e personaggi affrontati nei miei film precedenti. Recitazione, regia e scrittura sono un po’ diversi perché si cambia più al livello personale che professionale. Nei decenni si può cambiare, poco, e questo si riflette nella recitazione, nella scrittura e nella regia”. Così Nanni Moretti alla presentazione romana del suo ultimo film, in 500 sale dal prossimo 20 aprile, in concorso per la Palma d’Oro al 76esimo festival di Cannes. Una dichiarazione che non è affatto banale nella sua ovvia semplicità.

Moretti a 69 anni torna a fare un film in cui recita nel ruolo di se stesso, mettendosi a nudo e rispolverando le sue manie, idiosincrasie, passioni e insofferenze che lo hanno reso famoso e popolarissimo dai tempi di ‘Io sono un autarchico’, ‘Ecce bombo’ e ‘Sogni d’oro’. Ed è una sorta di omaggio che Nanni Moretti fa al suo cinema e a se stesso, da Michele Apicella in poi.

In ‘Il sol dell’avvenire’ ritorna al metaracconto del film nel film: se in ‘Aprile’ voleva realizzare un musical su un pasticcere trotskista (già accennato in ‘Caro diario’), stavolta il film che sta girando il regista interpretato da Moretti, che si chiama Giovanni come lui, è ambientato nel 1956 a Roma nei giorni dell’invasione sovietica dell’Ungheria. Un film in cui vuole riflettere sullo spaesamento dei comunisti di allora – interpretati dagli attori Silvio Orlando e Barbora Bobulova -  che si trovano a confrontarsi con la realtà e con un circo ungherese Budavari (ricordate ’Palombella rossa’ e quella ripetizione ossessiva da parte di Silvio Orlando, nel ruolo dell'allenatore della squadra di pallanuoto di Moretti, della frase: “Marca Budavári! Marca Budavári! Marca Budavári!”?).

Un film che si intreccia con la vita del protagonista (Nanni Moretti), un uomo di mezza età che vive un rapporto stanco con la moglie produttrice (Margherita Buy) che ha una figlia musicista (Valentina Romani) che scriverà le musiche del suo film e che si innamora di un uomo molto più anziano di lei (Jerzy Stuhr). La realizzazione del film, con i problemi economici (necessario l’intervento dei produttori coreani dopo quello annunciato ma poi tramontato di Netflix), le incomprensioni con tra il regista che vuole fare un film politico e la protagonista (Barbora Bobulova) che invece ritiene che sia un film d’amore e coinvolge nella sua idea il collega e – nel film nel film – caporedattore dell’Unità e capo della sezione di partito del quartiere Quarticciolo di Roma (Silvio Orlando).

Questo è il racconto in estrema sintesi di ‘Il sol dell’avvenire’. Sembra esaustivo, ma in realtà non dice nulla. Perché il film di Moretti è altra cosa. E’ un ritorno all’antico, è la voglia di prendere in prestito la propria figura di intellettuale insopportabile e odioso e criticare (se non mettere alla berlina) quelle che secondo lui sono delle cose inaccettabili.

Torna la mania delle scarpe di cui Moretti, come già molti anni fa in ‘Bianca’, ne fa una questione filosofica e esistenziale: l’attrice che arriva con i sabot è per lui una sorta di violenza. Le scarpe sono aperte davanti e dietro o sono chiuse davanti e dietro Non esiste una via di mezzo. E poi il concetto si ripete in una delle scene destinate a diventare di culto quando, in macchina con la moglie, parla dell’orrore delle pantofole (qui cita Panatta di ‘La profezia dell’armadillo’ facendo il rumore delle pantofole al suolo o delle scarpe indossate da Anthony Hopkins in ‘The Father’ sotto il pigiama) che accetta solo in Aretha Franklin in ‘The Blues Brothers’.

Ma non sono solo le scarpe a tornare. Moretti rispolvera tutto il suo repertorio, dall’odio per le parole straniere usate con ostinazione e ostentazione dai rampanti giovani di Netflix (qui l’ostilità di Moretti per le piattaforme streaming che uccidono il cinema in sala è dichiarata con forza) al fastidio per i nuovi registi che usano la violenza con banale semplicità.

Al giovane che la moglie produce e che deve girare l’ultimo ciak, un’esecuzione in stile ‘Gomorra’, blocca il set per ore per spiegare che “voi usate la violenza come intrattenimento, con leggerezza” e cita Kieslowski che in una terribile scena lunga sette minuti di ‘Breve film sull’uccidere’ comunica raccapriccio e orrore nello spettatore e, a differenza dei film dei registi di oggi (e qui torna l’invettiva di ‘Aprile’ contro il film ‘Harry pioggia di sangue’) non lascia alcuno spazio all’emulazione. E poi, a supporto delle sue parole, chiama al telefono Renzo Piano e sul set Corrado Augias. Martin Scorsese, invece, non risponde al telefono: c’è la segreteria.

C’è poi la passione per le canzoni italiane degli anni ’60 e ’70 (stavolta c’è anche De Andrè), c’è Fellini con la scena finale di ‘La dolce vita’ (una sorta di citazione come in uno specchio, anche se ‘Il sol dell’avvenire’ è più simile nell’idea a ‘8 ½’), c’è Piazza Mazzini che percorre insieme all’amico produttore francese Pierre (Mathieu Amalric) su un monopattino (“la seconda e ultima volta in cui ci sono andato”, racconta) e con ironia rispolvera un’antica accusa dei critici che scrissero che Moretti girava sempre i suoi film in zona Mazzini: “anche stavolta devo girare almeno una scena in questo quartiere”. 

Poi ci sono le passioni per cantare a squarciagola e massacrare le canzoni, il palleggio un po’ approssimativo con un pallone in piazza, la scena finale con un grande corteo in via dei Fori imperiali in cui inserisce tutti i protagonisti dei suoi film. Manca la Nutella e mancano i dolci in questo film, ma per il resto c’è tutto Nanni Moretti in una summa che si fa piacere anche se non graffia.

Lontani i tempi in cui se la prendeva con chi non conosceva la Sacher torta, oppure diceva a D’Alema di dire qualcosa di sinistra o picchiava chi usava termini come ‘trend negativo’. Ora Moretti è maturo. Ed è cambiato… “poco”, dice lui. E così fa un po’ strano vedere che, in un momento storico come quello attuale, uno dei grandi intellettuali di sinistra guardi al passato e immagini (in perfetto stile Tarantino, che ammette di avere apprezzato in ‘Inglorious Basterds’ in cui riscrive la Storia) come finale del suo film nel film una condanna del Pci di Togliatti all’invasione ungherese. La Storia sarebbe stata diversa (almeno per l’Italia), ma questo è appena accennato. Di politica, infatti, non si parla.

E forse la frase dell’attrice interpretata da Barbora Bobulova – “che ci frega della politica, questo è un film d’amore!" – è quella che un po’ dà la cifra del film, con il regista che vede la fine del matrimonio e non capisce il motivo. E ne soffre. Che accetta la storia della figlia con un uomo molto più anziano. Che accetta i produttori coreani ai quali, comunque, cambia il finale perché troppo simile a quello che potrebbe essere l’epilogo della sua vita. E poi chiude con un corteo, che ricorda molto alla lontana la giostra di ‘8 ½’ – di nuovo Fellini – in cui invece di tutte le donne amate dal regista mette tutti gli attori che hanno lavorato con lui. In un finale che sembra un omaggio a se stesso. Ma a 69 anni Nonni Moretti se lo concede. E a Cannes, ne siamo certi, piacerà.


Domenica 18 giugno 2023 il Premio Strega torna per la quinta volta nella sua storia a Verbania

Il premio letterario più prestigioso d’Italia ha scelto di nuovo le sponde del Lago Maggiore. La serata si svolgerà al Teatro Il Maggiore con la presentazione dei cinque finalisti e a seguire Strega Party nella location panoramica sul lago. A puntare sulla cultura per qualificare la città sono anche in questo caso coinvolti in un  lavoro di squadra Comune, Biblioteca Ceretti, Libreria Alpe Colle,  affiancati dalla Fondazione Il Maggiore e dalla ospitalità offerta dal >>> Grand Hotel Majestic. Unire le forze per migliorare la nostra città, per creare momenti utili prima di tutto per costruire senso di cittadinanza, relazioni e coscienza civile – commenta il sindaco Silvia Marchionini -. Ogni passo dipende da noi, dalla nostra quotidianità, dalle nostre scelte. Ed è fondamentale ricordare il lavoro preziosissimo della Fondazione Bellonci di Roma e della Ditta Strega Alberti di Benevento che dal 2018 hanno scelto e voluto fortemente portare il Premio Strega a Verbania, una decisione coraggiosa, un buon modo per creare rete tra centro e provincia, per un’Italia capace di stupire in ogni suo angolo creando lavoro e cultura attraverso i libri.

Fonte: verbaniamilleventi.org

 - Segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone e Albana Ruci turismoculturale@yahoo.it

Nuovi investimenti sulla cultura per una società «neo-umanista»


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Italia ha  bisogno oggi più che mai di potersi riconoscere in un patrimonio storico e artistico senza pari, rilanciando i consumi culturali

Nel serrato dibattito degli ultimi mesi sulle politiche pubbliche, reso più vivace dalla nascita di un governo di destracentro con ampia maggioranza parlamentare e una premier donna, si deve registrare una Grande Assente: la Cultura. Per la verità, in un’epoca di emergenze continue e gravi che fanno parlare ormai abitualmente di “permacrisi” (ovvero di crisi permanente), era piuttosto prevedibile. Di fronte alla confluenza di gravi problematiche di salute pubblica, economiche, belliche, dunque attinenti la sopravvivenza stessa e i bisogni primari, la cultura passa inevitabilmente in secondo piano. “Di cultura non si vive”: molte persone impegnate nei diversi settori culturali amaramente sottoscriverebbero tale affermazione; “la cultura non si mangia”, aggiungerebbero con un pizzico di cinismo beffardo altri, non troppo sensibili al fascino dell’arte, della musica, della letteratura.

A questo punto sarebbe facile per contrappasso sposare una posizione vivacemente antitetica, che andava assai di moda sul finire degli anni Ottanta del Novecento: “di cultura si vive, eccome”, se solo sapessimo mettere a frutto i giacimenti culturali di un Paese che – questo lo slogan di allora ripetuto allo sfinimento – è «un museo a cielo aperto ». I meno giovani ricorderanno questo tipo di argomentazione, che in alcuni casi suonava quasi come un invito alla riscossa per tutti gli operatori dei diversi settori culturali: musei, siti archeologici, enti lirici, teatri. Sembrava fosse stato scoperto il petrolio italiano fatto di colonne, mosaici e statue, accatastati senza rispetto in armadi polverosi nei sotterranei dei grandi musei. Per un po' si continuò a pensare che bastasse tirarli fuori, sottrarli alla occhiuta, gelosa ed escludente custodia degli storici dell’arte, mapparli, aggiungervi un po’ di cosiddetti “servizi aggiuntivi” (caffetterie, angoli riposo, ristorantini) e la nostra economia sarebbe volata.

Naturalmente così non è andata. Il grande lancio della commercializzazione della cultura naufragò presto sulle prime inefficienze e contraddizioni. I mecenati (grandi imprese in cerca di lustro) snobbavano tlo spettacolo dal vivo (troppo effimero, transeunte, per lucidare un blasone-brand) a favore del restauro di un bene archeologico, immutabile, immobile da secoli, e dunque stabile ritorno pubblicitario per l’azienda che ne avesse finanziato il recupero. Lo strumento della fiscalità non riuscì a rafforzare più di tanto l’azione dei mecenati, e anche quella si rivelò una bolla. Altre fragilità e disorganizzazioni fecero il resto: come quando per bando pubblico si affidarono a diverse aziende informatiche grandi progetti di mappatura dei beni esistenti, che non riuscivano però a dialogare attraverso le banche dati approntate dato che i linguaggi e i programmi utilizzati erano differenti…

La cultura non mise le ali all’economia né in quegli anni Ottanta né nei decenni che seguirono, anche perché i problemi erano e sono molto più complessi; a cominciare da strade e infrastrutture mancanti. Paradigmatico il caso della Sicilia, che gronda siti archeologici di bellezza incomparabile ma ancora oggi ha un sistema di collegamenti e di viabilità che esclude ogni possibilità di accesso concreto a molte di tali archeo-meraviglie. E tuttavia forse non fu questa la sola debolezza di un rilancio che voleva tradurre in oro luccicante e sonante i vecchi gioielli di famiglia. Ai nostri giorni le cose non vanno molto meglio, se nei programmi elettorali delle recenti elezioni politiche la cultura ha ottenuto poca o nessuna attenzione, con affermazioni e propositi generici, senza indicazioni chiare delle risorse finanziarie per i diversi interventi, con la solita oscillazione tra quanti vogliono più ruolo per il pubblico e quanti preferirebbero mettere tutto in mano ai privati. È forse giunto, perciò, il momento propizio per parlare di politiche culturali con un occhio più evoluto, che del passato sappia fare tesoro aggiungendo però una consapevolezza nuova, figlia dei nostri tempi così liminali, così disorientanti, che ci stanno traghettando in un altro mondo, in un’altra epoca, in cui senza bussole sarà certamente più facile perdersi.

Finora nel nostro Paese il mondo delle politiche culturali nei diversi settori è stato affrontato facendo riferimento ad alcuni paradigmi concettuali. Anzitutto la conservazione, tipica dell’approccio degli storici dell’arte, interessata soprattutto alla preservazione del bene. Successivamente, come accennato sopra, si è affermata l’idea della promozione-valorizzazione-commercializzazione, figlia in parte di un democratico desiderio di portare la cultura alle masse, in parte del più concreto desiderio di mettere a frutto capitelli e dipinti. Dal punto di vista strettamente politico è prevalso troppo spesso, invece, un paradigma elettoral-assistenzialistico: non a caso gli enti lirici hanno sempre assorbito buona parte del Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus) potendo vantare numerosi addetti (maestranze, elettricisti, costumisti ecc.) e dunque un buon bacino di consenso potenziale.

Ma oggi molte cose sono cambiate, anche nella percezione delle istituzioni della cultura, per lo meno in ambito internazionale. I libri, il teatro, le mostre entrano in maniera più o meno codificata e a buon diritto nel paniere che definisce il benessere dei diversi Paesi. O, quantomeno, si riscontra che i Paesi che risultano in cima alle classifiche della felicità attribuiscono ai consumi culturali un grande posto nel modo di occupare il cosiddetto tempo libero (concetto anche questo in via di ridefinizione). Pensiamo alla Finlandia che da anni è in testa alla classifica della felicità dei Paesi («Sustaineble Development Solution Network», World Happiness Report 2022) e che si basa su uno stile di vita che potremmo definire da “giovane colto” (muoviti, studia, leggi, vivi la cultura, vivi la natura, ama, condividi, ricerca) anche per i pensionati, che trovano occasioni culturali in situazioni di prossimità domestica. Quanto ai giovani veri e propri, hanno facilmente a disposizione in piccoli centri distribuiti territorialmente il necessario per produrre le loro intuizioni musicali, registrarle e metterle in rete, in modo da avere occasioni concrete di farsi conoscere. Purtroppo l’Italia non è neanche sulla scia di questo modo di vivere “giovanile e colto”. Sempre nello stesso Rapporto, l’Italia perde ulteriori postazioni e passa dal 25° al 31° posto.

Nonostante la ritrovata normalità e l’accelerazione dell’estate 2022 nella fruizione di eventi e spettacoli dal vivo, i consumi culturali sono ancora lontani dai livelli pre-Covid e risalgono lentamente. L’indice realizzato da Impresa Cultura Italia-Confcommercio e Swg ha raggiunto nei primi 9 mesi del 2022 i 68 punti (+9 sul 2021 e +12 sul 2020), distante però più di 30 punti dal valore di riferimento del 2019. Valori di riferimento che non erano certo stellari. Dalla crisi di antica data del comparto culturale, accentuata oggi da un’emergenzialità globale, è possibile però, per dirla con il sociologo Mauro Magatti, trarre una lezione generativa, che non resti impantanata nelle contraddizioni della politica culturale nel nostro Paese, ma da esse tragga una provocazione e uno stimolo potente a ripensarsi alla luce del cambiamento d’epoca in una nuova centralità. Il mondo della cultura nei suoi diversi comparti non ha mai avuto, come in questi tempi di mutazione velocissima, di fronte a sé una sfida più entusiasmante, più nobile e fondativa.

Oggi, come ha argomentato Stefano Zamagni su “Avvenire” del 13 gennaio 2023, uno dei problemi sociali più importanti che emergono all’orizzonte è fornire una risposta solida alla posizione transumanista, sostenuta dai colossi dell’high tech, che si propone non tanto il potenziamento ma il superamento di ciò che è umano nell’uomo. Il progetto che si può contrapporre con forza a questa tesi è quello neoumanista, sostenuto anche dalla Chiesa, la cui culla è proprio l’Europa. Un neo-umanesimo che nella libera espressione creativa da una parte e nel nutrimento, nella fruizione culturale dall’altra trova la sua espressione più vera. Un progetto che ricordi all’Uomo, che si è perso e non sa più chi egli sia, che non è fatto solo di materia e conoscenza razionale (su queste basi l’intelligenza artificiale sta dilagando in modo anche inquietante e potrebbe essere assai competitiva in poco tempo) ma di emozioni, sentimenti, motivazioni, valori, creatività, intuizioni, etica, responsabilità, dubbi, ripensamenti, e tanto altro: il “codice dell’anima”, come avrebbe detto Hillmann. Il talento indomabile di poeti, scrittori, pittori, musicisti interpreta nelle loro anime all’eterna ricerca del Bello e del Vero il mistero insondabile dell’umano e della sua perenne domanda di senso. A una distruttiva, robotica barbarie transumanista può essere argine roccioso e inespugnabile la loro umanità caparbia, intensa e inquieta.

avvenire.it


Una casa fatta ad arte, la visione di Cambellotti. A Roma mostra sul maestro alla Biennale di Monza del 1923

ROMA - L'allestimento interno della casa come riflesso della dimensione etica e della natura psichica della vita degli abitanti, capace di influenzare le loro emozioni e orientare le loro predilezioni, "consentendo poi di formare anche buoni cittadini e buoni governanti". Duilio Cambellotti immaginava così gli effetti di un abitare armonico orientato dall'arte.

Seguendo questo filo si sviluppa a Roma la mostra dedicata fino al 6 aprile dalla Galleria Russo al maestro e alla sua visione 'totale' che nella prima metà del Novecento ha abbracciato disegno, illustrazione, grafica, pittura, ceramica, scultura e scenografia teatrale. Il racconto muove da un aspetto particolare, la sua partecipazione nel 1923 a Monza alla Biennale delle Arti Decorative per allargarsi alla produzione di una vita.
    'Duilio Cambellotti. Raccogliere una forma attorno a un pensiero', curata da Daniela Fonti e Francesco Tetro, responsabili dell'Archivio dell'Opera dell'artista, mette insieme 160 opere della raccolta illustrando 40 anni di attività multidisciplinare svolta dall'artista-artigiano romano dal 1899 al 1939. Certo, a giocare un ruolo centrale è sempre il disegno, il tratto inconfondibile della moderna classicità che caratterizza illustrazioni, manifesti, incisioni. Ma a colpire - anche nella ricostruzione di una delle sale della Biennale di Monza - è soprattutto l' attenzione al dettaglio nei bronzi e nella decorazione di vasi, piatti, brocche e mattonelle ispirate ai miti dell'antichità e al vivere quotidiano delle popolazioni dell'agro pontino all'inizio del secolo. Nelle arti decorative, spiegano i curatori, Duilio Cambellotti (1876-1960) venne identificato come un autore fra i più originali nel panorama del rinnovamento degli oggetti d'uso in Italia. "Per la sua concezione dell'ambiente allestito quale progetto organico complessivo nel quale ogni oggetto prende luce creativa e riflette la propria sull'insieme - spiegano - l'artista mise ogni tecnica al servizio della creazione di uno spazio interno concepito come 'luogo d'arte', inserendo scultura, pittura parietale, ceramica, anche utilizzando gli espedienti comunicativi della sua attività di scenografo". Della prima e della seconda Biennale internazionale di Monza Cambellotti fu il protagonista principale, alla guida di un gruppo di artisti fra i più rilevanti e innovativi della scena di Roma e del Lazio. Un altro capitolo della mostra è riservato alla figura femminile e al suo passaggio da "libellula a mater familias, vittima degli effetti della guerra: rimasta sola a mandare avanti la propria famiglia, il suo podere o come lavorante presso altri, se rimasta vedova". E' questo il motivo che spinse l'artista a rappresentare donne dal volto addolorato in molti monumenti ai caduti del 1915-18 , a cominciare da quello di Terracina (Latina). Suggestiva è anche la selezione di modellini, bizzetti, disegni e cartelloni realizzati per le scenografie delle grandi tragedie greche a Siracusa, il Giulio Cesare di William Shakespeare (1906) e La Nave di Gabriele d'Annunzio (1908) a Roma.
    Tra il 1908 e il 1910 Cambellotti collaborò al settimanale "La Casa", edito da Edoardo De Fonseca, dedicandosi alla progettazione di interni e arredi di villini e dimore private tra cui, a Roma, la Casina delle Civette di Villa Torlonia, decorata con la collaborazione con il maestro vetraio Cesare Picchiarini e oggi sede del museo della Vetrata Liberty. 

ansa.it

Abu Dhabi, tra storia e cultura Musei, palazzi, forti, villaggi e riti beduini nel deserto

 

ABU DHABI - Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi, è una città ricca di cultura e di storia che sorprende per i suoi contrasti: sfarzosi palazzi d'epoca tra costruzioni avveniristiche, forti costieri trasformati in centri d'arte e antichi villaggi beduini, tutelati dall'Unesco, nelle oasi del deserto che la circonda.

Fondata nel 1791 dalla tribù dei Bani Yas, è una città che corre verso il futuro con grattacieli, torri e strutture audaci, come la vicina Dubai, e con un totale rispetto verso le sue tradizioni. Tanti sono i punti di interesse da scoprire per apprezzare la sua cultura, come il forte Qasr Al Hosn, il palazzo Qasr Al Watan, il museo Louvre Abu Dhabi e il Qaryat al Torath Heritage Village.

Qasr Al Hosn è uno storico forte, circondato da grattacieli altissimi che luccicano da lontano: è il monumento commemorativo dell'intera nazione, simbolo della storia di Abu Dhabi. Situato nel cuore della città, l'edificio sorge su una torre di guardia in corallo e pietra marina, costruita alla fine del XVIII secolo, la struttura più antica dell'isola di Abu Dhabi, e all'interno ospita la Casa degli Artigiani, che celebra il patrimonio artistico e la tradizione artigianale degli Emirati Arabi Uniti.
    Un altro simbolo della capitale e dell'intero Paese è il Louvre Abu Dhabi, il primo museo universale del mondo arabo che difende e promuove lo spirito di apertura tra le culture, rivelando le storie di connessioni tra le civiltà. Capolavoro dell'architettura contemporanea, sorge sull'isola di Sa'diyyat, distretto culturale della capitale, ed è il più grande museo della penisola arabica, con una struttura che di per sé è un'opera d'arte: il tetto a cupola, le cui geometrie si ispirano alle tradizionali foglie di palma ricoperte di paglia, è costituto da 7.850 stelle ripetute in diverse dimensioni e angolazioni che creano una "pioggia di luce", quando i raggi del sole le attraversano. Le sue gallerie ospitano opere d'arte internazionali che abbracciano la storia dell'umanità, in particolare due opere di Leonardo, altrettante opere di Picasso e uno dei celebri ritratti di Napoleone del pittore francese David.
    Qasr Al Watan, palazzo presidenziale ancora in funzione, invita a scoprire la ricca eredità di conoscenze e tradizioni che hanno plasmato la storia degli Emirati Arabi Uniti. Il palazzo è un'icona nello skyline di Abu Dhabi, con un design perfettamente realizzato per rendere omaggio al patrimonio arabo.
    A poco più di un'ora di auto dal cuore della capitale, la regione di Al Ain ospita alcuni dei villaggi più antichi del mondo ed è stata dichiarata patrimonio dell'Umanità dall'Unesco.
    Per scoprirli si passeggia lungo i sentieri ombreggiati dell'oasi di Al Ain, che ospita oltre 147mila palme da dattero e alberi da frutto su 1.200 ettari ed è alimentata da un sistema di irrigazione in funzione da 3mila anni. Oppure si visita il Qaryat al Torath Heritage Village, con un souk di una trentina di bancarelle che offrono prodotti artigianali e alimentari della tradizione emiratina. Qui si possono osservare le donne beduine mentre creano splendidi pezzi d'artigianato e scoprire abiti tradizionali, spezie, profumi, prodotti a base di palma da dattero e accessori. Chi è alla ricerca di un po' di avventura può recarsi al Parco del deserto di Jebel Hafit, dove fare escursioni a piedi o in bicicletta e godersi un esclusivo glamping nel deserto del rifugio Liwa Nights, che dà la possibilità di scoprire da vicino la cultura beduina. Nell'oasi di Liwa è possibile fare escursioni con il quad, partecipare a un safari o cavalcare un cammello sulle dune, prima di trascorrere la serata ad ammirare il cielo stellato.
    Per maggiori informazioni: dctabudhabi.ae e visitabudhabi.ae (ANSA).

Le mostre del 2023 Renoir, Perugino e maestri giapponesi

Dalla fotografia d'autore, con Morath ed Erwitt, alla poetica visione dei maestri giapponesi, fino al gesto pittorico di Perugino e Renoir e alle opere sorprendenti dell'argentino Erlich per la prima volta in Europa: anche il 2023 sarà un anno ricco di mostre interessanti, tra stili ed epoche differenti.

    VENEZIA - Al Museo di Palazzo Grimani il 18 gennaio si apre "Inge Morath. Fotografare da Venezia in poi", a cura di Kurt Kaindle e Brigitte Blüml, con Valeria Finocchi.

La mostra presenta il reportage che la fotografa austriaca realizzò in Laguna, quando l'Agenzia Magnum la inviò in città per conto della rivista L'Oeil: il percorso raccoglie circa 200 fotografie (di queste circa 80 mai esposte) con un focus su Venezia.
    ABANO TERME - Si intitola "Vintage" la mostra dedicata a Elliott Erwitt in programma al Museo Villa Bassi Rathgeb dal 28 gennaio all'11 giugno. A cura di Marco Minuz, l'esposizione riunisce 154 fotografie vintage, raramente esposte al pubblico, e 30 scatti iconici che toccano vari temi, dall'integrazione razziale alle mutazioni sociali, il nudismo e ancora i cani, i bambini, i viaggi.
    PARMA - Oltre 50 opere (edizioni e serigrafie, sperimentazioni su metallo, tessuti e plastica oltre a fotografie e video) provenienti da collezioni europee e americane compongono "Roy Lichtenstein. Variazioni Pop", a Palazzo Tarasconi dall'11 febbraio al 18 giugno. A cura di Gianni Mercurio, la mostra ripercorre l'intera carriera artistica di Lichtenstein a partire dagli anni '60, documentando temi e generi.
    ROVIGO - "Pierre-Auguste Renoir: l'alba di un nuovo classicismo", curata da Paolo Bolpagni, aprirà al pubblico il 25 febbraio a Palazzo Roverella. Fino al 25 giugno, il progetto mette al centro la produzione di Renoir a partire dagli anni '80 del XIX secolo, che segnò l'inizio di un progressivo allontanamento dall'esperienza impressionista: dopo un viaggio in Italia nel 1881 per il pittore fu infatti l'inizio di una rivoluzione creativa verso una personale forma di classicismo.
    GENOVA - La primavera a Palazzo Ducale si accompagna alla monografica dedicata a Man Ray (dal 4 marzo al 2 luglio), fotografo ma anche pittore, scultore, regista d'avanguardia e grafico. La mostra, curata da Walter Guadagnini e Giangavino Piazzola, esplora cronologicamente e tematicamente vita e carriera dell'artista.
    TORINO - L'universo giapponese, attraverso un percorso tematico suddiviso in 9 sezioni, con oltre 300 capolavori e alcune opere mai presentate in Italia, si potrà ammirare nella mostra "Utamaro, Hokusai, Hiroshige. Geishe, samurai e i miti del Giappone", ospitata dalla Società Promotrice delle Belle Arti di Torino dal 23 febbraio al 25 giugno. Nel percorso 30 disegni preparatori, 24 stampe di paesaggio di Hiroshige, una ventina di stampe di 'fiori e uccelli' (kachōga), una quarantina di stampe di attori kabuki (yakushae), una quarantina delle cosiddette stampe 'di belle donne' (bijinga), circa 30 stampe e 20 libri di carattere erotico (shunga), una ventina di stampe di guerrieri ed eroi (mushae).
    PERUGIA - "Il meglio maestro d'Italia. Perugino nel suo tempo", curata da Marco Pierini e Veruska Picchiarelli, è in programma alla Galleria Nazionale dell'Umbria dal 4 marzo all'11 giugno. Realizzata in occasione del V centenario della morte del pittore, l'esposizione documenta il ruolo di preminenza artistica del Perugino nella sua epoca, attraverso oltre 70 opere, tutte antecedenti al 1504, ovvero nel momento in cui si trovava all'apice della sua carriera.
    MILANO - Arriva a fine marzo a Palazzo Reale la prima prima grande mostra in Europa dell'artista argentino Leandro Erlich: nel percorso grandi installazioni con cui il pubblico potrà relazionarsi e giocare, diventando esso stesso l'opera d'arte.
    Tra i lavori esposti anche "Batiment", in cui le persone simulano l'arrampicata su un grande edificio, o "Swimming Pool" in cui si ha la sensazione di muoversi sott'acqua. Nel 2023 Palazzo Reale ospiterà anche mostre di Pistoletto, Morandi, Basilico, Newton, El Greco e Goya.
    ROMA - Da marzo a luglio a Palazzo Barberini la mostra "I Barberini. Caravaggio, Bernini, Poussin e la nascita del barocco", a cura di Maurizia Cicconi, Flaminia Gennari Santori, Sebastian Schütze, e allestita per il 400esimo anniversario dell'elezione a papa di Urbano VIII Barberini. Il percorso, che per la prima volta riunisce alcuni capolavori della collezione Barberini, racconta come durante il pontificato di Urbano VIII vi fosse una congiuntura artistica straordinaria, da lui incoraggiata, che determinò la nascita e l'affermarsi in Europa del barocco. (ANSA).

San Casciano come Riace, dall'acqua emergono 24 bronzi di epoca etrusca e romana. Il più grande deposito di statue dell'Italia antica. Gli archeologi: 'Una scoperta che cambierà la storia'

 


Adagiato sul fondo della grande vasca romana, il giovane efebo, bellissimo, sembra quasi dormire.

Accanto a lui c'è Igea, la dea della salute che fu figlia o moglie di Asclepio, un serpente arrotolato sul braccio.

Poco più in là, ancora in parte sommerso dall'acqua, si intravvede Apollo e poi ancora divinità, matrone, fanciulli, imperatori. Protetto per 2300 anni dal fango e dall'acqua bollente delle vasche sacre, è riemerso in questi giorni dagli scavi di San Casciano dei Bagni, in Toscana, un deposito votivo mai visto, con oltre 24 statue in bronzo di raffinatissima fattura, cinque delle quali alte quasi un metro, tutte integre e in perfetto stato di conservazione. "Una scoperta che riscriverà la storia e sulla quale sono già al lavoro oltre 60 esperti di tutto il mondo" annuncia in anteprima all'ANSA l'archeologo Jacopo Tabolli, il giovane docente dell'Università per Stranieri di Siena, che dal 2019 guida il progetto con la concessione del ministero della Cultura e il sostegno anche economico del piccolo comune. Un tesoro "assolutamente unico", sottolinea, che si accompagna ad una incredibile quantità di iscrizioni in etrusco e in latino e al quale si aggiungono migliaia di monete oltre ad una serie di altrettanto interessanti offerte vegetali. Insediato da una manciata di giorni, il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ha già visitato il laboratorio di restauro che ha appena accolto le statue e ora applaude: "Un ritrovamento eccezionale che ci conferma una volta di più che l'Italia è un paese fatto di tesori immensi e unici.La stratificazione di diverse civiltà è un unicum della cultura italiana", si appassiona il responsabile del Collegio Romano.

"La scoperta più importante dai Bronzi di Riace e certamente uno dei ritrovamenti di bronzi più significativi mai fatti nella storia del Mediterraneo antico", commenta accanto a lui il dg musei del MiC Massimo Osanna, che ha appena approvato l'acquisto del palazzo cinquecentesco che ospiterà nel borgo di San Casciano le meraviglie restituite dal Bagno Grande, un museo al quale si aggiungerà in futuro un vero e proprio parco archeologico. Luigi La Rocca, direttore generale per l'archeologia, condivide l'entusiasmo e sottolinea "l'importanza del metodo usato in questo scavo", che come è stato per le scoperte più recenti di Pompei, anche qui ha visto all'opera "specialisti di ogni disciplina, dagli architetti ai geologi, dagli archeobotanici agli esperti di epigrafia e numismatica".

Realizzate con tutta probabilità da artigiani locali, le 24 statue appena ritrovate - spiega Tabolli affiancato dal direttore dello scavo Emanuele Mariotti e da Ada Salvi della Soprintendenza- si possono datare tra il II secolo avanti Cristo e il I dopo. Il santuario, con le sue piscine ribollenti, le terrazze digradanti, le fontane, gli altari, esisteva almeno dal III secolo a.C. e rimase attivo fino al V d.C., racconta, quando in epoca cristiana venne chiuso ma non distrutto, le vasche sigillate con pesanti colonne di pietra, le divinità affidate con rispetto all'acqua. È anche per questo che, rimossa quella copertura, gli archeologi si sono trovati davanti un tesoro ancora intatto, di fatto “il più grande deposito di statue dell’Italia antica e comunque l’unico di cui abbiamo la possibilità di ricostruire interamente il contesto”, ribadisce Tabolli.

Disposte in parte sui rami di un enorme tronco d’albero fissato sul fondo della vasca, in molti casi appunto ricoperte di iscrizioni, ricoperte spesso di uova ("un mistero ancora tutto da studiare" sottolinea Tabolli) le statue come pure gli innumerevoli ex voto, arrivano dalle grandi famiglie del territorio e non solo, esponenti delle élites del mondo etrusco e poi romano, proprietari terrieri, signorotti locali, classi agiate di Roma e addirittura imperatori. Qui, a sorpresa, la lingua degli etruschi sembra sopravvivere molto più a lungo rispetto alle date canoniche della storia, così come le conoscenze etrusche in fatto di medicina sembrano essere riconosciute e accettate come tali anche in epoca romana.

Un grande santuario che sembra raccontarsi, insomma, come un luogo unico anche per gli antichi, una sorta di bolla di pace, se si pensa, come spiega Tabolli, "che anche in epoche storiche in cui fuori infuriano i più tremendi conflitti, all'interno di queste vasche e su questi altari i due mondi, quello etrusco e quello latino, sembrano convivere senza problemi". Chissà, ragiona l'archeologo, forse perché fin dalle origini il nume qui è sempre rimasta l'acqua con la sua divinazione, la sua forza, il suo potere: "Qui passa il tempo, cambia la lingua, cambiano persino i nomi delle divinità, ma il tipo di culto e l'intervento terapeutico rimangono gli stessi". Il cantiere adesso si chiude, riprenderà in primavera. L'inverno servirà per restaurare, studiare, capire. "Sarà un lavoro di squadra, com'è stato sempre finora", sorride orgoglioso Tabolli. Università, ministero, comune, specialisti di altri atenei del mondo. Tutti insieme, con l'occasione unica per scrivere un capitolo integralmente nuovo della storia antica.
ansa
(segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone - Turismo Culturale)

Bronzi e altari, a San Casciano emerge un tesoro romano unico "Senza eguali nel Mediterraneo". Franceschini, "Eccezionale"

Piscine termali in uno scenario mozzafiato con terrazze digradanti, fontane, giochi d'acqua. A San Casciano ai Bagni (Siena) gli scavi stanno restituendo il perimetro di un santuario etrusco e poi romano, incredibilmente grande e fastoso. E dall'acqua, anticipa all'ANSA l'archeologo Jacopo Tabolli, è appena emerso un incredibile tesoro di offerte votive. "Unico in Italia e nel Mediterraneo antico". Una scoperta "eccezionale" commenta il ministro Franceschini, che insieme al dg musei Osanna annuncia l'apertura nel borgo di un museo dedicato al Bagno Grande. "I ritrovamenti di queste settimane confermano l'importanza di questo scavo e del lavoro egregio portato avanti in questi anni", sottolinea Franceschini. Un lavoro, annuncia il ministro Pd, "che sarà valorizzato da un investimento dello Stato per dare ai reperti e allo loro storia una sede espositiva, che aiuterà anche il rilancio del territorio". I fondi per la realizzazione del museo, spiega il dg musei del Mic Massimo Osanna, sono già stati accantonati. Verrà realizzato in un palazzo del '500 acquisito dal ministero della Cultura nel centro storico del borgo toscano e allestito con tutti i reperti che sono stati trovati in questi anni ai quali si aggiungeranno quelli delle campagne di scavo future. (ANSA).

DA VEDERE | CULTURA: DOMENICA 3 LUGLIO INGRESSO GRATUITO NEI MUSEI E PARCHI ARCHEOLOGICI STATALI, ECCO DOVE ANDARE

 



Torna il 3 luglio l’appuntamento mensile con la cultura gratuita per tutti. Come ogni prima domenica del mese, si potrà entrare gratuitamente in tutti i musei, i parchi archeologici e i luoghi della cultura statali. Ecco dove.

(TurismoItaliaNews) Le visite si svolgeranno negli orari ordinari di apertura dei siti e dovranno avvenire nel pieno rispetto delle misure di sicurezza che raccomandano fortemente l’utilizzo della mascherina all’interno dei luoghi chiusi. Alcune sedi sono visitabili solo su prenotazione. L’elenco completo degli istituti coinvolti è consultabile all’indirizzo cultura.gov.it/domenicalmuseo

Tra Ottocento vigezzino e arte contemporanea | Paesaggio, ritratto, natura morta | dal 2 luglio al 4 settembre a Casa De Rodis, Domodossola

 

TRA OTTOCENTO VIGEZZINO E ARTE CONTEMPORANEA

Paesaggio, ritratto, natura morta

La nuova mostra di Casa De Rodis a Domodossola

Tra Ottocento vigezzino e arte contemporanea è il nuovo percorso espositivo di Casa De Rodis, a Domodossola (VB), aperto dal 2 luglio – inaugurazione ore 18 –, al 4 settembre. Paesaggio, ritratto, natura morta sono tre dei generi più frequentati dagli artisti di ogni tempo. Punti fermi che accompagnano da secoli la storia dell’arte, al di là di movimenti e correnti. Punto di partenza, il nucleo dei Maestri vigezzini: Alfredo Belcastro, Camillo Besana, Stefano Biotti, Enrico Cavalli, Giovanni Battista Ciolina, Carlo Fornara, Lorenzo Peretti Junior, Gian Maria Rastellini, Giacomo Rossetti. Punto di arrivo e di ripartenza, il lavoro di importanti artisti contemporanei: Stefano Anchisi, Cornelia Badelita, Romina Bassu, Hubert Blanz, Enzo Cucchi, Antonio De Luca, Marlin Dedaj, Özgür Demirci, Otto Dix, Serena Gamba, Piero Gilardi, Gioberto Noro, Alessandro Gioiello, Sea Hyun Lee, Robert Mapplethorpe, Mary McIntyre, Aldo Mondino, Fabio Roncato, Marcus Schaller.

Un percorso di ricerca trasversale organizzato da Collezione Poscio e Fondazione Scuola di Belle Arti Rossetti Valentini con l’obiettivo di instaurare un dialogo a più voci tra Ottocento e contemporaneo. La mostra, a cura di Giorgio Caione, accade davanti allo spettatore e gli si dis-vela come ponte, collegamento e connessione tra opere che appartengono a epoche diverse, capaci di creare un gioco di risonanze ed echi, sia esso tematico, simbolico o emotivo. Perché tutta l’arte, come ci ricorda il curatore partendo dalla celebre frase di Maurizio Nannucci, è stata contemporanea. Il nuovo non è solo il nostro, di nuovo, ma anche quello che lo era una volta e che oggi, forse, non riconosciamo più come tale. Vallate, alpeggi e montagne dipinti en plein air si confrontano con polaroid, paesaggi scomposti e ricomposti fatti di circuiti e microchip, immagini ottenute da raccolte di scatti satellitari. E ancora, ritratti si specchiano in volti che diventano ciechi e muti, immagini in movimento ci scrutano con sguardi rivolti dritti in macchina. Nature morte immerse nella luce e nel colore fanno da contraltare a memento mori destrutturalizzati e frutti intagliati nel poliuretano espanso.

Il percorso si inserisce all’interno di Val Vigezzo. La Valle dei Pittori, il bando “In Luce” sostenuto da Fondazione Compagnia di San Paolo. Una progettualità pluriennale legata alla valorizzazione del territorio ossolano e delle sue eccellenze artistiche, con al centro la pittura vigezzina e la valle dei pittori. La strategia di medio-lungo periodo è instaurare un dialogo con la produzione contemporanea di opere d’arte e la ricerca culturale più attuale tramite residenze artistiche, organizzazioni di mostre, istituzione di borse di studio, ricerche d’archivio e progetti di rete in cui al momento sono coinvolti Fondazione Scuola di Belle Arti Rossetti Valentini, Comune di Santa Maria Maggiore, Associazione Musei d’Ossola, Fondazione Ciolina, Collezione Poscio, Associazione Asilo Bianco APS.

Un’ulteriore tappa sarà la Mountain Academy, corso gratuito per creare un taccuino d’artista. La quarta edizione, 22-23-24 luglio Santa Maria Maggiore, Valle Vigezzo, sarà condotta da Giulia Gentilcore e Irene Lupia (Tana dei Lupi Gentili). Tra i relatori esterni: Marcella Pralormo (storica dell’arte, Direttrice della Pinacoteca Agnelli dal 2002 al 2021), Alessandro Gioiello (artista) e Serena Gamba (artista).

Tra Ottocento vigezzino e arte contemporanea

Paesaggio, ritratto, natura morta

a cura di Giorgio Caione

dal 2 luglio al 4 settembre

Casa De Rodis - Piazza Mercato 8, Domodossola (VB)

inaugurazione sabato 2 luglio ore 18
ingresso libero

Fonte: Comunicato Stampa