da Avvenire
«Le due meraviglie del mondo sono la Bibbia e la musica di Mozart e una terza, naturalmente, l’amore». Questa citazione insieme semplice, luminosa e profonda è stata incisa nella sala centrale dell’itinerario espositivo offerto dalla mostra “Marc Chagall. Il trionfo della musica”, accolta fra le mura ancora fresche d’intonaco della Philarmonie, antro dalle linee ondeggianti quasi come le orecchie dei parigini a cui è per ora destinata (ma dal 5 marzo al 13 giugno la mostra sarà a Nizza, al Museo Marc Chagall).
E la citazione del celebre artista di origine russa naturalizzato francese, accarezzando sinesteticamente sensi diversi, riassume bene il proposito dell’evento, teso a mostrare quanto Chagall fu sedotto durante tutta la sua vita dalla musica, al punto da dedicare una porzione considerevole della propria opera ad allestimenti al servizio di una musa al quale non si è soliti associarlo. L’ultima grande mostra parigina dedicata al pittore, nel 2013 al Musée du Luxembourg, aveva molto insistito sull’ispirazione biblica dell’immaginario chagalliano. In modo complementare, quella in corso approfondisce l’altro piede che irrorò di continuo l’ispirazione dell’artista di famiglia ebrea scomparso nel 1985 sotto il sole di Provenza, dopo quasi un secolo pieno di slanci (nacque nel 1887 a Vitebsk, nell’attuale Bielorussia).
In questa coda d’anno così fosca nella Parigi martoriata dal terrorismo, la mostra appare per contrasto ancor più come un’oasi imbevuta di armonie, dove sono convocate oltre alla pittura e alla musica, pure la danza, la poesia e la scultura. Una sorta di raro ritrovo fra muse che l’evocazione di soli pochi altri geni novecenteschi potrebbe analogamente consentire. In un insolito itinerario cronologicamente a ritroso, dalla piena maturità indietro fino agli albori, si parte con le grandi composizioni allegoriche commissionate nei primi anni Sessanta al pittore già dalla chioma bianca, in particolare per decorare l’Opéra Garnier di Parigi: un’iniziativa del celebre ministro della Cultura dell’epoca, lo scrittore André Malraux.
E fu probabilmente solo il carisma dell’autore della Condizione umana a convincere Chagall ad imbarcarsi in una simile impresa. Possono così persino commuovere le foto, riprese nell’atelier parigino, del settantenne che traccia tratti al suolo con un lungo pennello come un moschettiere ancora non pago di migliaia di duelli con il mistero delle forme e dei colori. Realizzata su ampie strisce di tessuto fissate poi sopra i precedenti affreschi, l’allegoria interpreta e riunisce i capolavori operistici dei più grandi.
Accanto a Mozart, Beethoven, Wagner, Verdi, c’è spazio anche per altri, dai francesi ai russi. La passione di Chagall per i palchi abitati dalla musica lo spinse persino a realizzare le scenografie e i costumi di rappresentazioni memorabili, dal Flauto magico di Mozart fino a balletti come l’Uccello di fuoco di Stravinskij, o il Dafni e Cloe di Ravel. L’opera forse più sintetica e impressionante della mostra, già nella seconda sala, è Commedia dell’arte (1958), vasto olio su tela giunto da Francoforte. In un turbine calmo, sembrano vibrare nella composizione tutti i colori, i personaggi allegorici e i simboli, le ossessioni e le arti, compreso il circo, cari al pittore.
Ad impressionare, di certo, è pure l’azzeccata scelta di mostrare il capolavoro esattamente alla confluenza fra le sonorità operistiche della prima sala (di volta in volta mozartiane, wagneriane, verdiane ecc.) e i ritmi per balletto della terza. Dopo aver soggiornato in Grecia, Chagall s’innamorò più che mai del blu, ma acquisì nell’Ellade pure una nuova consapevolezza della forza dei miti che da sempre tanta arte scenica hanno ispirato.
Nasceranno così scenografie mai viste prima nei teatri d’opera, alla frontiera fra mistiche cosmogonie ed eterni giochi dell’infanzia o di quelle età adulte rimaste gelosamente infantili. Per illustrare al meglio il divario che separa il semplice eclettismo dalla geniale e spontanea sinestesia, una saletta è dedicata anche alle sculture, fra cui un toccante Cristo in rilievo in pietra chiara sedimentaria di Provenza. Alcune teche illustrano pure la variopinta produzione in ceramica. L’ultima sala schiude invece le prime sperimentazioni giovanili di Chagall, nel cuore della cultura ebraica dell’Europa orientale, fra violinisti dal volto verde e rabbini avvolti già nella poesia e nel sogno che da allora non abbandoneranno mai più l’artista. Dalla Galleria Tret’jakov di Mosca sono giunti pure i pannelli allegorici del 1920 concepiti per il Teatro d’arte ebraica (Goset): accanto al celebre La musica, pure quelli su drammaturgia, letteratura e danza. Fu un tentativo per accostare l’avanguardia artistica dell’epoca a uno scopo sociale e politico di legittimazione della diaspora ebraica nel nascente spazio sovietico.
Rispetto al cemento grezzo che caratterizza i vestiboli della Philarmonie, la mostra catapulta lo spettatore in una piscina di luce e di suoni che non sembrano sopportare nessuna rigidità. Per chi non fosse ancora pago, un’altra mostra gemella di taglio più biografico, ma sempre sulle relazioni fra Chagall e la musica, è stata parallelamente allestita a Roubaix, alla frontiera con il Belgio: le “fonti musicali” dell’artista sono esplorate attraverso circa duecento opere. Per una strana coincidenza, l’asse geografico fra le due mostre è lo stesso a cui ha dato risalto la tragica attualità francese delle ultime settimane. E per molti visitatori, all’uscita dalle due mostre, ci sarà di certo qualche ragione in più per rallegrarsi del passaggio fra i terrestri di un certo Chagall.
Parigi, Philarmonie
Marc Chagall
Le triomphe de la musique
Fino al 31 gennaio 2016
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